Gup del Tribunale di Roma, sent. n. 125/2019 (ud. 22 gennaio 2019, dep. 27 febbraio 2020)
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Oggetto del provvedimento
La scheda proposta ha ad oggetto l’analisi della pronuncia emessa dal GUP presso il Tribunale di Roma, che ha condannato, all’esito di giudizio abbreviato, i membri del Consiglio di Amministrazione della società Bonatti s.p.a. per il delitto di cui agli artt. 40 comma 2, 113 e 589 c.p., e 2381 e 2392 c.c., nonché con sentenza di applicazione della pena su accordo delle parti ex art. 444 c.p.p., il dirigente della branch libica della suddetta società, per il delitto ex art. 589 c.p., e infine la società stessa ex art. 25 septies d.lgs. 231/2001 in relazione all’art. 589 c.p. Le relative condanne sono state comminate a seguito del riconoscimento di una responsabilità colposa in capo ai vertici della società in merito alla morte di due dipendenti i quali in occasione del loro trasferimento in territorio libico per raggiungere il luogo di lavoro, sono stati dapprima oggetto di sequestro da parte di milizie locali, e successivamente sono rimasti vittime di un conflitto a fuoco avvenuto tra i sequestratori e soggetti terzi.
Specificatamente, viene contestata ai membri del Consiglio di amministrazione della società nonché al dirigente delegato in Libia una condotta di cooperazione colposa ex art. 113 c.p. nella realizzazione del reato colposo di cui all’art. 589 c.p. nei seguenti termini: una responsabilità omissiva colposa in capo ai primi per la mancata procedimentalizzazione delle misure di sicurezza ritenute idonee e necessarie a garantire l’incolumità dei dipendenti che si recavano a lavorare in territorio libico; una responsabilità commissiva colposa in capo al dirigente delegato in Libia, per aver ordinato modalità di trasferimento non conformi a quelle generalmente attuate, e del tutto inidonee a garantire la sicurezza dei lavoratori durante il tragitto verso il luogo di lavoro. Tali condotte colpose sono state considerate quali antecedenti – indipendenti dall’azione dei soggetti appartenenti alle milizie locali che realizzavano il sequestro e dai soggetti autori materiali dell’omicidio degli ostaggi – della serie causale di eventi che ha portato dapprima al sequestro dei lavoratori in data 19 luglio 2015, e successivamente, in data 3 marzo 2016 alla morte degli stessi.
Al riconoscimento della responsabilità dei vertici della società è seguito il riconoscimento della responsabilità amministrativa da reato ex art. 25 septies d.lgs. 231/2001 della Bonatti s.p.a.
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Contenuto del provvedimento
La sentenza in questione ha esaminato una vicenda del tutto peculiare che attiene alla complessa materia della sicurezza del lavoro e che ha posto una serie di complicate quanto interessanti problematiche giuridiche. La stessa situazione fattuale alla base dell’imputazione risulta estremamente articolata. Invero, come già anticipato, la vicenda processuale nasce dalla morte in costanza di sequestro (ex art. 630, comma 2, c.p.) di due dei quattro tecnici specializzati della Bonatti s.p.a., che alcuni mesi prima, in data 19 luglio 2015, erano stati sequestrati in territorio libico durante il trasferimento degli stessi dall’Italia al cantiere di Mellitah, dove avrebbero dovuto svolgere la prestazione lavorativa. La morte dei lavoratori è avvenuta dopo alcuni mesi di prigionia, nel corso del loro trasferimento da un luogo di custodia ad un altro da parte dei sequestratori, tentativo di trasferimento fallito a causa di un attacco armato ad opera di terzi, durante il quale sono rimasti uccisi sia i sequestratori sia i due lavoratori italiani.
Tale fatto si colloca in un contesto politico-territoriale che era ben noto alla società. Come attentamente ricostruito nella sentenza, a partire dall’estate 2014 la Libia si trovava in una situazione di forte instabilità politica, e presentava elevati pericoli per tutti coloro che operavano sul territorio quali aziende o enti pubblici o privati. Lo stesso Ministero degli Affari Esteri aveva deciso di chiudere l’ambasciata italiana in Libia per l’alto rischio ivi presente, ed aveva provveduto a convocare le società che continuavano ad operare in quel territorio, compresa la Bonatti s.p.a., per valutare i rischi e le misure di sicurezza da adottare per l’incolumità di chi si recasse per lavoro in quelle zone. A seguito di tali informative la società aveva predisposto tutta una serie di accortezze volte a garantire la sicurezza dei propri dipendenti, dotando i pochi cantieri ancora operativi sul territorio di mura perimetrali rafforzate, cancelli blindati, un sistema di vigilanza armata in accordo con il comando militare locale, collocando gli alloggi per i lavoratori all’interno dei cantieri per limitarne gli spostamenti, e dettando le modalità per i trasferimenti che rimanevano invece necessari. Nello specifico era stato disposto che il trasporto dei lavoratori fosse effettuato esclusivamente via aerea o via mare, con l’utilizzo di una nave militare, e fossero invece vietati i trasferimenti via terra in autovettura.
Nonostante le misure adottate nella pratica dalla società, il 19 luglio 2015, per motivi legati alle esigenze produttive della stessa società, il responsabile per la sicurezza in Libia diede l’ordine ai lavoratori di recarsi al cantiere di destinazione via terra anziché via mare – ciò in considerazione del fatto che la nave predisposta per gli spostamenti sarebbe partita solo alcuni giorni dopo, mentre le esigenze del cantiere dove i lavoratori erano attesi risultavano imminenti -, utilizzando un mezzo privato guidato da un autista libico (preavvertito dell’arrivo dei quattro tecnici italiani oltre 48 ore prima) e privo di scorta armata, disattendendo la prassi fino ad allora applicata e rendendo perciò possibile il sequestro dei lavoratori da parte delle milizie libiche, sequestro dal quale è poi derivata l’uccisione di due dei quattro lavoratori.
Le responsabilità dei vertici societari e della società sono state riconosciute dal GUP del Tribunale di Roma, in esito ad un articolato e complesso percorso argomentativo basato essenzialmente su quattro grandi tematiche giuridiche in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro di rilevante interesse.
1. La cooperazione colposa ex art. 113 c.p. secondo il principio delle S.U. n. 38343 del 24/04/2014, caso ThyssenKrupp
Tralasciando l’ampia argomentazione svolta in merito al reato di cui all’art. 630, comma 2, c.p. (morte dell’ostaggio in costanza di sequestro), per la quale si rinvia alla motivazione della sentenza in commento, il primo grande tema affrontato riguarda i profili di configurabilità della cooperazione colposa nei sistemi organizzativi complessi, quali sono sempre più spesso le realtà aziendali odierne. L’imputazione prevedeva difatti una cooperazione colposa dei dirigenti della società – seppure nei diversi ruoli di componenti del Consiglio di Amministrazione, ai quali era da ascrivere una condotta omissiva, e di quello di dirigente delegato alla sicurezza in Libia, il quale era chiamato a rispondere per una condotta commissiva -, nella realizzazione dell’evento doloso della morte dell’ostaggio in costanza di sequestro posto in essere dai criminali libici. La difesa aveva più volte sottolineato nel corso del processo come l’azione dolosa dei sequestratori e, prima ancora, l’azione commissiva colposa del responsabile della branch libica si ponessero come cause sopravvenute ex art. 41, comma 2, c.p., in grado di interrompere il nesso di causalità tra la condotta omissiva dei consiglieri di amministrazione e l’evento morte dei due dipendenti. Il GUP non ha condiviso questa impostazione, aderendo al contrario alle imputazioni formulate dal PM, sulla base dei principi in materia di cooperazione colposa recentemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità.
Infatti, come ben sintetizzato nella sentenza, in tema di cooperazione colposa ex art. 113 c.p. in riferimento ai reati di evento a forma libera esistevano in dottrina due tesi contrapposte: la prima secondo la quale tale disposizione eserciterebbe «una mera funzione di modulazione di disciplina, nell’ambito di situazioni nelle quali già si configura la responsabilità colpevole sulla base dei principi generali in tema di imputazione oggettiva e soggettiva», tesi che pertanto negava la portata estensiva della norma a situazioni prive di autonoma rilevanza tipizzante; la seconda, invece, conferiva all’articolo 113 c.p. «una portata estensiva dell’incriminazione rispetto all’ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, coinvolgendo anche condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte». La valenza estensiva dell’art. 113 c.p. è stata affermata dalle S.U. della Corte di Cassazione con la sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn (caso ThyssenKrupp), che hanno ritenuto che la norma abbia valore incriminatrice di «condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole», ma alla sola condizione che «il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza». Invero, secondo i giudici di legittimità, in queste situazioni la “consapevolezza di cooperare con altri”, oltre a costituire elemento di distinzione tra la cooperazione colposa e il concorso di cause colpose indipendenti, estende altresì il novero degli obblighi cautelari, facendo sorgere in capo a ciascun agente il dovere di relazionarsi e preoccuparsi anche della condotta degli altri soggetti che intervengono nella stessa situazione, per cui è proprio la violazione di tale obbligo a rendere colpose condotte che tali non sarebbero alla stregua della fattispecie incriminatrice. Utilizzando le parole del Supremo Consesso «in tali situazioni, l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che, come si è accennato, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche».
In organizzazioni societarie complesse, dove vi è una tanto necessaria quanto prescritta divisione dei doveri di tutela nei confronti dei lavoratori, e nelle quali i processi decisionali vedono il contributo di diversi livelli di potere, di diversificati ruoli, di distinte competenze, la cooperazione colposa è stata inoltre ritenuta «una saldatura delle singole posizioni di garanzia rivestite da soggetti distinti e alle quali risultano connessi specifici e diversi profili di responsabilità, consentendo una visione unitaria e completa delle condotte che concorrono alla produzione dell’evento» (cfr. sent. ult. cit.).
Nel caso in commento il GUP ha ritenuto che tale saldatura si sia verificata e, in applicazione dei principi sopra richiamati, ha affermato come proprio la mancata procedimentalizzazione delle misure di sicurezza relative alla movimentazione dei lavoratori da parte della società – nelle persone dei componenti del consiglio di amministrazione, in quanto titolari della posizione di garanzia e cioè del dovere di individuazione e valutazione dei rischi aziendali e comunque di alta vigilanza sulla gestione della società – ha permesso la facile violazione della regola cautelare adottata soltanto nella prassi da parte del dirigente delegato della sicurezza dei lavoratori in Libia, rendendo di fatto possibile il sequestro e la conseguente morte dei due dipendenti. Dunque, secondo la ricostruzione operata dal giudice di merito, la condotta colposa commissiva del dirigente libico sarebbe avvenuta, o quantomeno sarebbe stata agevolata proprio dal deficit organizzativo dell’ente – frutto delle colpevoli omissioni in materia di prevenzione del Consiglio di Amministrazione -, in una cooperazione di condotte colpose che rende impossibile considerare la prima del tutto autonoma rispetto alla seconda.
Sul punto, al fine di avallare le imputazioni per come formulate dal Pubblico Ministero, la sentenza in commento descrive il recente contrasto giurisprudenziale nato in merito alla configurabilità o meno del concorso colposo nel delitto doloso. Difatti, per anni la Suprema Corte ha affermato l’ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso «sia nel caso di cause colpose indipendenti, che nel caso di cooperazione colposa, purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa (diversamente sarebbe violato il disposto dell’art. 42, comma 2, c.p.) e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In particolare, è necessario che la regola cautelare inosservata sia diretta ad evitare anche il rischio dell’atto doloso del terzo, risultando dunque quest’ultimo prevedibile per l’agente» (Cass. pen., Sez. IV, 14/11/2007, n. 10795). Il giudice evidenzia come questo orientamento risulta ad oggi superato da recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità secondo le quali «non è configurabile il concorso colposo nel delitto doloso in assenza di una espressa previsione normativa non ravvisabile nell’art. 113 cod. pen. che contempla esclusivamente la cooperazione colposa nel delitto colposo; ne consegue che nei delitti la condotta colposa che accede al fatto principale doloso, è punibile solo in via autonoma, a condizione che integri una fattispecie colposa espressamente prevista dall’ordinamento» (Cass. Pen. Sez. 5, 5/10/2018, n. 57006). In attesa di un eventuale intervento delle Sezioni Unite volto a dirimere il contrasto, il GUP ha ritenuto corretta l’imputazione formulata a carico degli imputati, in quanto la previsione di tutele negli spostamenti dei lavoratori era finalizzata proprio a salvaguardare i lavoratori da possibili, se non addirittura probabili, attacchi da parte di milizie libiche, e pertanto le condotte degli imputati, autonomamente punibili ai sensi dell’art. 589 c.p., si qualificano quali concause indipendenti che, insieme alle condotte di natura dolosa poste in essere dai sequestratori e dai soggetti terzi autori dell’attacco armato, hanno portato al verificarsi della morte dei lavoratori, evento che le regole cautelari violate miravano a prevenire.
2. La delega di funzioni ex art. 16 d.lgs. 81/2008 e il riparto di responsabilità
Relativamente alla distribuzione delle responsabilità all’interno della Bonatti s.p.a. la sentenza esamina la tematica della delega di funzioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e il conseguente riparto di responsabilità tra delegato e datore di lavoro. La difesa aveva sostenuto che l’autonomia di poteri e funzioni conferite alla Branch Libica e al suo dirigente, con atto di delega scritto – conformemente a quanto disposto dall’art. 16 del T.U. n. 81/2008 -, rendeva quest’ultimo l’unico e reale datore di lavoro per i dipendenti della stessa svincolando da tale ruolo e dai conseguenti obblighi di garanzia i membri del consiglio di amministrazione, ai quali pertanto non si sarebbe dovuto muovere alcuna contestazione. Il GUP non ha condiviso tale impostazione, in quanto, dall’analisi degli atti a sua disposizione, ha ritenuto non sussistente nel caso di specie la piena autonomia delle singole filiali, ma piuttosto una distribuzione dei poteri necessaria in realtà organizzative complesse operanti su ampie e differenti aree geografiche. Invero, evidenzia il giudice, nonostante gli ampi spazi di discrezionalità nell’ordinaria amministrazione, le singole filiali/branch continuavano a dover seguire le procedure e le politiche aziendali. Nello specifico, in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, le deleghe conferite ai dirigenti responsabili delle singole sedi richiamavano espressamente l’individuazione e la valutazione dei rischi nonché l’adozione delle misure di prevenzione atte ad evitarli, indicate nei documenti normativamente previsti e appositamente adottati dalla Bonatti s.p.a. La mancanza di indipendenza della Branch libica è stata inoltre dimostrata anche da plurimi elementi fattuali emersi nel processo, come la circostanza che i trasferimenti dei dipendenti erano economicamente a carico della società madre, nonché erano gestiti ed organizzati dagli uffici del personale di quest’ultima sulla base di deliberazioni e comunicazioni informali dei vertici societari. Pertanto, si legge in motivazione, «se appare corretta l’ affermazione per la quale in una struttura complessa come la BONATTI s.p.a. l’ individuazione dei soggetti gravati dalla posizione di garanzia debba essere effettuata avuto riguardo ad un criterio sostanzialistico, dovendo considerarsi non soltanto le persone che rivestono ruoli apicali nella struttura aziendale, ma anche quelle che in concreto, rispetto all’organizzazione dell’impresa ed al governo e governabilità del rischio specifico, ricoprono tale posizione, non appare, però, condivisibile l’ulteriore sviluppo delle argomentazioni difensive, volte ad escludere la sussistenza di una posizione di garanzia dei vertici della società “madre” BONATTI s.p.a. (…) Tutti i soggetti che sono chiamati a governare il rischio ricoprono una posizione di garanzia: il ruolo di vertice rivestito dal dirigente libico nella BONATTI lybian branch e la delega al medesimo conferita in tema di sicurezza, gli attribuivano una precisa responsabilità non solo in ordine al puntuale rispetto delle misure precauzionali stabilite dal modello organizzativo, ma anche in relazione alla tempestiva segnalazione nei confronti dei vertici della società, attraverso una attenta osservazione ed analisi delle caratteristiche proprie della lavorazione e del contesto nel quale l’ attività viene svolta, dei rischi “ nuovi” che si profilavano; in capo ai vertici dell’ azienda “madre”, permaneva invece il dovere di predisporre il DVR., ed elaborare , quantomeno per grandi linee nel modello organizzativo una disciplina, sia pure generica , ma suscettibile di essere precisata ed adeguata alle esigenze contingenti, in ordine alle modalità di trasferimento del personale nei siti qualificati a rischio in ragione delle particolari condizioni ambientali ivi presenti , e di esercitare un controllo sul preposto in relazione al concreto esercizio dei poteri conferitigli nella delicata materia».
Le conclusioni sul punto del GUP risultano conformi alla giurisprudenza di legittimità che in tema di infortuni sul lavoro ha da tempo affermato come «il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del documento di valutazione dei rischi, non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi ai lavori in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni» (Cass. Sez. pen. Sez. 4, 2.12.2016, n. 27295; Cass. Pen. Sez. 4, 11.2.2016, n. 22147; Cass. Pen. Sez .4 , 14.3.2014 n. 22249; Cass. Pen. Sez. 4, 5.4.2013, n. 50605).
3. Il concetto di Rischio Ambientale.
Prosegue poi la motivazione affrontando il terzo grande tema, quello relativo al concetto di rischio ambientale, e del dovere o meno di ricomprendere anche tale categoria di rischi nel Documento di Valutazione dei Rischi prescritto dal d.lgs. 81/2008.
Come è noto, in tema di sicurezza sul lavoro si è soliti distinguere tra safety e security. Con la prima si fa riferimento alla sicurezza relativa alla prevenzione dei rischi “endogeni” all’attività lavorativa, ossia dei rischi tipici ad essa connessi. Nel nostro ordinamento questa tipologia di rischi è ampiamente disciplinata dal d.lgs. 81/2008, il quale delimita e prescrive in modo fortemente particolareggiato le modalità idonee a garantire una corretta valutazione e gestione dei rischi nei vari contesti lavorativi, a partire dalle caratteristiche specifiche di ogni settore produttivo. Nel concetto di security invece si ricomprendono tutti i rischi c.d. “esogeni” all’attività lavorativa in sé, racchiudendo i rischi che sono stati definiti “trasversali” (non correlati a caratteristiche peculiari di date attività lavorative), “prospettici” (atipici, non conseguenziali rispetto ad eventi già verificatisi), “non classificabili” (in quanto difficili da contenere in tutele preventive). Essa si riferisce pertanto alla tutela da apportare in caso di qualsiasi azione o evento, dolosi o colposi, che possano recare nocumento, attuale o potenziale, alle risorse umane e ai beni dell’azienda, con conseguenze dannose per l’incolumità dei lavoratori.
Questa distinzione teorica è stata posta alla base delle argomentazioni della difesa volte a dimostrare come fino al 2016, non esisteva alcuna indicazione circa l’obbligo di legge per il datore di lavoro di inserire nel Documento di Valutazione dei Rischi, i rischi rientranti appunto nell’ambito della security. Invero, soltanto con l’interpello n. 11 del 2016 della Commissione Consultiva del Lavoro, in risposta al quesito proveniente dalla UILTRASPORTI e relativo alla valutazione dei rischi ambientali e di sicurezza sul posto di lavoro del personale navigante delle compagnie aeree, si prende per la prima volta in considerazione espressamente tale categoria di rischi in riferimento alla normativa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. In tale occasione si precisò nello specifico che «il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali[,] a titolo esemplificativo, i cosiddetti «rischi generici aggravati», legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta».
Il GUP nega ogni portata novativa della citata deliberazione, sia in quanto fonte di rango inferiore alla normativa legislativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, sia perché la stessa nulla aggiunge a quanto già da tempo affermato, in relazione all’art. 2087 c.c., dalla giurisprudenza della Suprema Corte. Infatti, a prescindere da distinzioni teoriche relative alla natura dei vari rischi, in tema di infortuni sul lavoro, secondo i giudici di legittimità «il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente previsti all’interno dell’azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro e all’esito del quale deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 d.lgs. 81 del 2008 all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori» (Cass. Pen. Sez. 4, 10/03/2016, n. 20129; Cass. Pen. Sez. 4, 02/12/2016 n. 27295; Cass. S.U., 24/04/2014, n. 38343). L’art. 2087 c.c. assume pertanto la veste di norma di chiusura, la quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi insiti nell’ambiente di lavoro, sia quelli derivanti da fattori esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, a prescindere se essi siano o meno previsti da specifiche norme, con l’unico limite della concreta prevedibilità degli stessi.
Ciò posto, in risposta alle considerazioni difensive, scrive il GUP: « discende dall’analisi della disciplina normativa e delle pronunce della Suprema Corte sin qui svolta che grava sul datore di lavoro non solo l’obbligo di individuare ed analizzare tutti i rischi connessi allo svolgimento dell’ attività lavorativa ben oltre le situazioni di pericolo individuate da specifiche norme, avuto riguardo alle più innovative conoscenze tecnologiche ed alla propria conoscenza ed esperienza, ma anche quello di delineare quanto più possibile nel dettaglio tali profili di rischio sottoponendo a periodica revisione ed aggiornamento il D.V.R. che assume, pertanto, la natura non di un formale adempimento ad una prescrizione legislativa, ma di uno strumento che, unitamente al modello organizzativo, è espressione della capacità dell’impresa di adeguarsi e costantemente modificarsi in relazione alle mutate caratteristiche della struttura del rischio».
Infine, il giudice di merito, valuta inesatta – nel caso di specie – la stessa rigida distinzione tra safety e security, affermando come è errato considerare i rischi ambientali sempre e comunque rischi esogeni o atipici. Invero, quando l’attività aziendale si svolge prevalentemente in territori o contesti con noti contrasti bellici, il rischio ambientale o “geo-politico” diventa prevedibile, se non addirittura probabile, e pertanto caratterizza l’attività lavorativa ivi svolta e costituisce a tutti gli effetti un fattore di rischio tipico della stessa che il datore di lavoro deve prevedere e disciplinare. Nel caso in commento, il clima geo-politico della Libia a partire dal 2014 rendeva il recarsi in quei luoghi molto pericoloso proprio a causa dell’alto rischio di possibili attacchi armati da parte delle milizie locali (attacchi già verificatisi in passato a danno di altri lavoratori di altre società). Queste circostanze, note alla società a seguito di informative provenienti da organi istituzionali, rendevano il rischio legato al trasferimento dei lavoratori dall’Italia ai cantieri libici, un rischio strettamente connesso all’attività lavorativa richiesta e pertanto, in quanto tale, lo stesso doveva essere oggetto di specifica valutazione da parte del Consiglio di Amministrazione, nonché ricompreso nel DVR quale rischio tipico e fisiologico della prestazione lavorativa svolta dai dipendenti in quello specifico contesto.
4. La necessità di procedimentalizzazione delle misure di sicurezza ai sensi del sistema delineato dal d.lgs. 81 del 2008 e dal d.lgs. 231/2001
Infine, ma certamente molto rilevante dal punto di vista giuridico per la materia della sicurezza sui luoghi di lavoro, è il tema della necessità di procedimentalizzazione delle misure di sicurezza previste e adottate ai sensi del sistema delineato dai d.lgs. n. 81/2008 e d.lgs. n. 231/2001. La difesa ha più volte sostenuto come la società aveva preso in considerazione i rischi ambientali presenti in territorio libico e aveva predisposto delle specifiche misure di prevenzione che, seppure non trascritte nel DVR e nei modelli organizzativi societari, comunque trovavano regolare applicazione nella prassi degli spostamenti dei dipendenti ed erano del tutto idonee a garantirne l’incolumità. Tanto che proprio la loro violazione da parte del dirigente libico aveva consentito che si verificasse l’evento nefasto. Il giudice di merito non nega quanto affermato dalla difesa, ma ha ritenuto la previsione e l’attuazione in concreto delle suddette misure insufficiente ai fini di un giudizio di esenzione da responsabilità essendo le stesse state adottate in violazione della normativa prevista in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro.
Invero, come è noto, il legislatore ha delineato un complesso e articolato sistema di misure e tutele che le società devono necessariamente attuare per garantire l’incolumità dei propri dipendenti e per potersi dire adempienti all’obbligazione prevista genericamente dall’art. 2087 c.c., ed oggi meglio delineata nel suo contenuto dalle norme del T.U. n. 81/2008 e dal d.lgs. 231/2001. Come affermato in sentenza, i citati testi legislativi predispongono due diversi livelli di oneri gravanti sui datori di lavoro, attinenti a due aspetti diversi, seppur convergenti, legati a garantire la massima sicurezza possibile sui luoghi di lavori. Nello specifico mentre il d.lgs. 81/2008 è volto a delineare un sistema in grado di individuare e prevenire i rischi tipici delle singole attività lavorative, il d.lgs. 231/2001 prescrive l’adozione di un modello organizzativo destinato a garantire l’attuazione delle misure preventive adottate, al fine di impedire il compimento di reati derivanti proprio dalla violazione delle regole cautelari previste. Pertanto, il datore di lavoro, per evitare di incorrere in responsabilità penali, è ad oggi onerato non solo di prevedere ed eliminare i rischi tipici dell’attività lavorativa richiesta ai dipendenti – secondo le modalità e gli strumenti prescritti dal d.lgs. 81/2008 – ma altresì di dotare la propria azienda di un sistema organizzativo di controllo e monitoraggio delle misure adottate, tale da garantirne il rispetto e la corretta attuazione oltre al loro continuo aggiornamento, e di un sistema sanzionatorio volto a punire chi violi coscientemente tali misure. A tal fine la normativa vigente prevede l’obbligo di istituire un organo di vigilanza dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo che monitori i modelli organizzativi predisposti e ne curi l’aggiornamento (art. 6, comma 1, lett. b), d.lgs. 231/2001), la necessità di prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire (art. 6, comma 2, lett. b), d.lgs. 231/2001), gli obblighi di informazione, consultazione e collaborazione tra i vari soggetti protagonisti del sistema di prevenzione (artt. 6, comma 2, lett. d), e 7 d.lgs. 231/2001; artt. 28 e 29 d.lgs. 81/2008), nonché la richiesta di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello (art. 7, comma 4, lett. b), d.lgs. 231/2001 e art. 30 d.lgs. 81/2008).
Nel caso della sentenza in commento ciò che è rimproverato ai vertici della società, nonché alla Bonatti s.p.a. stessa sotto forma di colpa organizzativa fondante la sua responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001, è proprio la mancata procedimentalizzazione delle misure preventive che la stessa società aveva introdotto, seppure come prassi, in relazione agli spostamenti in territorio libico dei propri dipendenti. Invero, il GUP non nega la predisposizione in via generale da parte della società di un sistema di trasporto sicuro ed astrattamente idoneo a garantire la sicurezza dei lavoratori – quale era quello via mare -, tuttavia le rimprovera di aver omesso di renderlo cogente, non prevedendo specificamente tali rischi nel DVR, e non sottoponendo le misure prese di fatto ad un sistema di monitoraggio, valutazione e informazione atto ad evitare che le stesse venissero derogate, con ciò mettendo in serio pericolo la vita dei dipendenti, come è difatti accaduto. Scrive il GUP che «è di tutta evidenza come tale carenza sia di estrema rilevanza in quanto solo una “formale procedimentalizzazione” della direttiva avrebbe consentito ai dipendenti coinvolti di essere informati in ordine alla consistenza ed intensità del rischio , di valutare attraverso il loro rappresentante la congruità e adeguatezza delle misure precauzionali adottate e di opporre legittimamente un rifiuto a fronte dell’adozione di modalità di trasferimento diverse da quelle precauzionalmente previste. Ugualmente deve dirsi per il mancato coinvolgimento dell’organo di vigilanza che, come riferito dal suo Presidente, mai fu posto a conoscenza della direttiva e mai ebbe ad effettuare verifiche in relazione al suo rispetto. Tale conclusione risponde, peraltro – contrariamente a quanto sostenuto dalle difese – ad un criterio non meramente formalistico, ma piuttosto sostanzialistico in quanto solo l’adozione della regola di condotta con il sistema di garanzie previste dalla legge ne garantisce, attraverso i meccanismi di controllo e monitoraggio stabiliti, la concreta adeguatezza ed efficacia».
Al criterio sostanzialistico invocato risponde altresì l’accertamento del nesso di causalità tra la mancata procedimentalizzazione/formalizzazione delle misure e l’evento morte dei dipendenti. Invero, il GUP motiva ampiamente sul punto, affermando come dotare di carattere vincolante le misure adottate nella prassi, avrebbe nel caso di specie, impedito al dirigente delegato in Libia di derogarvi con facilità nonché avrebbe consentito ai lavoratori di opporsi ad un cambio di programma idoneo a compromettere la loro stessa incolumità. Pertanto, il sequestro e la successiva morte dei due tecnici specializzati appare conseguenza diretta ed immediata delle condotte colpose del dirigente delegato e dei componenti del Consiglio di amministrazione avendo proprio l’omissione di questi ultimi consentito o comunque agevolato la violazione delle norme di sicurezza posta in essere dal primo.
5. Responsabilità amministrativa da reato dell’ente ex art. 25 septies d.lgs. 231 del 2001
All’esito della disamina della configurabilità delle responsabilità dei vertici societari, più agevole è risultato nel caso concreto l’affermazione della responsabilità da reato della società. Invero nel caso di specie, sono stati ritenuti sussistenti tutti gli elementi costitutivi della responsabilità delineata dal d.lgs. 231/2001: la configurabilità del reato presupposto e nello specifico l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro ex art. 25 septies; il compimento dello stesso da parte dei soggetti apicali della società e quindi la sussistenza del “rapporto organico” ex art. 5 lett. a); il vantaggio dell’ente – avendo il dirigente libico derogato alla prassi solitamente applicata per motivi di opportunità aziendale, e in particolare, al fine di garantire nei cantieri libici le unità lavorative necessarie per la gestione delle attività nonché per ottimizzare i costi degli spostamenti, cercando di far coincidere le partenze con gli arrivi del nuovo personale; e infine la colpa organizzativa, riscontrata nella mancata adozione di un modello tale da procedimentalizzare i rischi esistenti, per le argomentazione contenute in sentenza già ampiamente riportate sopra.
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Osservazioni e conclusioni
Questa sentenza ha affrontato e preso posizione su una pluralità di questioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e di responsabilità degli enti, in relazione ad alcuni aspetti non indagati in precedenti pronunce. Prescindendo dalle particolarità degli eventi, le conclusioni esplicitate dal GUP di Roma rappresentano un arresto giurisprudenziale destinato a tracciare un sentiero interpretativo percorribile in via generale. Invero, tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in materia, l’interpretazione che il giudice di merito ha assegnato alle disposizioni di legge, comporta nuovi e maggiori oneri per i datori di lavoro i quali, per andare esenti da responsabilità penale, dovranno premurarsi di:
- Tenere conto della divisione dei compiti e delle responsabilità attuata nella propria realtà aziendale, e di conseguenza adempiere agli obblighi di garanzia non ignorando la presenza di altri soggetti parimenti responsabili sotto altri profili, ma cooperando con essi. In altre parole, è stata valorizzata la riconoscibilità-prevedibilità del fatto altrui, o meglio del fatto degli altri soggetti deputati a quell’area di attività, soggetti con i quali il vertice decisionale deve collaborare, consapevole della capacità intrinseca di ogni singola condotta di contribuire alla realizzazione degli eventi dannosi, in conformità a quanto affermato in materia di cooperazione colposa dalle S.U. n. 38343/2014, nella nota sentenza Espenhahn e altri.
- Prevedere, disciplinare ed inserire nel Documento di Valutazione dei Rischi tutti i rischi caratterizzanti l’attività lavorativa, individuati attraverso un valutazione “sostanziale” e non meramente formale degli stessi, tenendo conto perciò non soltanto dei fattori di rischio richiamati da specifiche norme del T.U. 81/2008 ma considerando tutti i rischi prevedibili in rapporto alla specifica attività richiesta, compresi – laddove sussistenti – i rischi attinenti al contesto storico-geografico in cui l’attività lavorativa è svolta, e procedendo ad un continuo aggiornamento e monitoraggio dell’evoluzione dello stesso, così da adeguare il DVR alla eventuale modifica delle situazioni di rischio.
- Non limitarsi a prevedere e attuare misure cautelari idonee in astratto e sulla base di un giudizio ex ante a tutelare i propri lavoratori, ma adoperarsi per includere le stesse in un sistema organizzativo aziendale che conferisca a tali regole carattere cogente in grado assicurarne l’applicazione e rendere possibile la sanzionabilità di comportamenti contrari, mediante l’utilizzo degli strumenti disciplinati e previsti dai due decreti legislativi n. 81/2008 e 231/2001
In conclusione, questa sentenza sembra richiamare anche in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro il noto principio di origine europea dell’accountabilty, vigente e caratterizzante in particolare la materia di trattamento dei dati personali. Invero, dalla sentenza emerge chiaramente la figura di un datore di lavoro – nelle vesti dei componenti del consiglio di amministrazione nelle grandi realtà aziendali o del singolo nei contesti più piccoli – che non deve essere un mero esecutore di un elenco di misure imposte dalle norme, ma che deve assumere la veste di garante della salute e sicurezza, onerato di individuare tutti i fattori di rischio legati all’attività richiesta ai propri dipendenti e facoltizzato nella scelta delle modalità più idonee per farvi fronte, in considerazione della realtà aziendale e del settore produttivo. Inoltre, è fondamentale che tali previsioni, anziché rimanere su un piano meramente “cartolare”, vengano rese effettive attraverso il loro inserimento nei documenti di organizzazione e previsione a tal fine previsti dai testi unici regolanti la materia, così da entrare a far parte di un sistema endo-aziendale in grado di garantirne la corretta attuazione e il costante adempimento.
In quest’ottica di “responsabilizzazione” del datore di lavoro, torna protagonista il quesito che da anni caratterizza il diritto penale della sicurezza sul lavoro: come conciliare le indubbie esigenze di flessibilità della sicurezza con quelle di certezza del diritto? Può ritenersi corretto e costituzionalmente legittimo addossare al datore di lavoro, al fine di tutelare i propri lavoratori, il compito di creare delle norme che siano vincolanti e idonee allo scopo, in assenza di qualsivoglia indicazione o parametro di riferimento?
L’interpello n. 11 del 2016 della Commissione Consultiva del Lavoro di cui si è discusso nel processo, come altre note vicende giudiziarie relative alla sicurezza di chi, per lavoro o per studio, si reca in Paesi con rischi ambientali o geopolitici (si veda sentenza del Tribunale civile di Ravenna, del 23.10.2014, o il noto caso Regeni che ha stimolato molteplici riflessioni circa la sicurezza dei ricercatori operanti all’estero, o infine le ultime vicende legate al Covid-19 e agli obblighi gravanti sui datori di lavoro in relazione al rischio contagio dei propri dipendenti, soprattutto in caso di trasferte in territori con alto indice di contagio), hanno evidenziato una preoccupante genericità della normativa in materia. Forse, accanto all’affermata necessità del carattere cogente, “auspicato” dal giudice, di queste regole private/endo-aziendali, sarebbe ad oggi altresì opportuno, in relazione ai rischi ambientali e geopolitici che sempre più frequentemente caratterizzano il lavoro svolto in determinati Paesi esteri, un intervento del legislatore, volto a dare fonte pubblica alle stesse, ossia a far sì che per il futuro vi siano delle vere e proprie norme cogenti appunto, di fonte legale o regolamentare o anche, almeno in parte, come linee guida o protocolli di fonte pubblica che l’azienda privata dovrà adattare alla specifica situazione di rischio in cui si trovi ad operare, delineando anche relativamente alla sicurezza dei lavoratori all’estero degli adeguati standard di sicurezza ai quali poter far riferimento.
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Collegamenti con altre pronunce
In merito alla cooperazione colposa:
Cass. Pen. S.U., 24/04/2014, n. 38343; Cass. Pen. Sez. 4, 12/04/2019 n. 22214; Cass. Pen. Sez 4, 27/04/2015, n. 22042; Cass. Pen., Sez. 4, 13/11/2014 n. 49735; Cass. Pen. Sez. 4, 3/10/2013 n. 43083; Cass. Pen., Sez. 4, 14/11/2007, n. 10795;
In merito ai doveri del datore di lavoro e al riparto di responsabilità con il delegato:
Cass. Pen. Sez. 4, 10/03/2016, n. 20129; Cass. Pen. Sez. 4, 11/2/2016, n. 22147; Cass. Pen. Sez. 4, 2/12/2016, n. 27295; Cass. Pen. Sez. 4, 14/3/2014, n. 22249; Cass. Pen. Sez. 4, 5/4/2013, n. 50605; Cass. Civ. Sez. Lavoro, n. 15082/2014; Cass. Civ. Sez. Lavoro, 25/05/2006, n. 12445; Cass. Civ. Sez. Lavoro, 5/01/2016, n. 34.
Sulla proceduralizzazione dei modelli organizzativi degli enti:
Cass, Pen. Sez. 2, 27/09/2016, n. 52316; Cass. Pen. Sez. 5, 18/12/2013, n. 4677.
Dottrina e riferimenti bibliografici
Sulla cooperazione colposa:
L. Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004;
G. De Francesco, Brevi riflessioni sulle posizioni di garanzia e sulla cooperazione colposa nel contesto delle organizzazioni complesse, in Leg. pen., 3 febbraio 2020.
Sul rischio geopolitico
R. Nunin, Rischio geopolitico ed attività di ricerca: alcune osservazioni in materia di valutazione, prevenzione e responsabilità, in Diritto della sicurezza sul lavoro, n. 2/2016.
Sulla responsabilità in organizzazioni complesse:
D. Pulitanò, Diritto Penale, Torino, 2017, 415 e ss.;
D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre, V. Valentini, Sicurezza del lavoro: profili penali, Torino, 2019.
Sulla distinzione tra modello organizzativo 231 e organizzazione della sicurezza del lavoro:
V. Mongillo sub art. 30 d.lgs. 81/2008 in D. Castronuovo, G. De Simone, E. Ginevra, A. Lionzo, D. Negri, G. Varraso, Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, Milano, 2019.
Dott.ssa Francesca Odorico