Tribunale di Bologna, sent. n. 1250/2020 (ud. 4 giugno 2020, dep. 31 agosto 2020)
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Oggetto del provvedimento
La sentenza qui annotata proscioglie il presidente del consiglio di gestione di una società cooperativa di consumo tratto in giudizio per il delitto di cui agli artt. 590, commi 1 e 2, e 583, comma 2 n. 3), c.p., nonché per la contravvenzione ex art. 71, comma 4 lett. a punti 1) e 2), e art. 87, comma 2 lett. c), d.lgs. 81/2008. Più in particolare, si contestava all’imputato il grave infortunio che una dipendente della suddetta cooperativa si era procurata alla mano destra (amputazione delle dita) durante l’utilizzo di una macchina tritacarne priva dei necessari presidi di sicurezza.
Nello specifico, il tritacarne risultava – al momento dell’impiego da parte della persona offesa – sfornito della rispettiva “protezione”, ossia una piastra metallica diretta ad impedire il contatto delle mani degli utilizzatori della macchina in questione con la componente triturante della medesima; assenza dovuta ad un’anomalia dell’apparecchio che aveva reso facilmente removibile la protezione stessa.
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Contenuto del provvedimento
La pronuncia in oggetto merita particolare attenzione, poiché contribuisce, dal versante della magistratura di merito, a perfezionare vieppiù sul terreno applicativo quel “sistema prevenzionistico” nell’ambito delle organizzazioni complesse, tratteggiato dal d.lgs. n. 81/2008 alla stregua dei canoni di personalità della responsabilità penale e di effettività della tutela della sicurezza sul lavoro. Come noto, infatti, il testo unico del 2008 ha fatto propria una disciplina prevenzionistica incentrata su di una puntuale ripartizione dei debiti di sicurezza nei contesti lavorativi, specie a struttura articolata, tra una pluralità di soggetti garanti ordinati secondo una logica piramidale. Una disciplina che la giurisprudenza di legittimità ha poi concorso a specificare da una prospettiva tanto concettuale quanto pratica, anche grazie all’intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione nella vicenda Thyssenkrupp; dove il garante, affrancato dal terreno della sola causalità omissiva, è chiaramente definito quale “gestore del rischio”. Con la conseguenza che – come precisato nella sentenza qui annotata attraverso un richiamo ad un precedente del Supremo Collegio – “la titolarità di una posizione di garanzia non comporta in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante” (Cass., Sez. IV, 20 dicembre 2017, n. 12639). In altri termini, il fatto offensivo della sicurezza del lavoro può essere attribuito “al soggetto – e solo al soggetto cui compete la gestione del rischio e/o il controllo della specifica fonte di quel pericolo che si è concretizzato nell’evento lesivo” (S. Tordini Cagli, 2020, p. 6). Il che dovrebbe in via definitiva scongiurare in subiecta materia ogni forma di responsabilità penale da posizione oppure generata sulla base di ruoli ricoperti esclusivamente sul piano formale.
La puntuale applicazione del paradigma d’imputazione or ora ricordato ha condotto il Tribunale di Bologna al proscioglimento dell’accusato, tratto in giudizio in ragione della sua posizione apicale all’interno della società cooperativa nel cui contesto si è verificato l’infortunio in oggetto.
A parere del giudice felsineo l’imputato non può essere considerato gestore del rischio concretizzatosi nell’evento lesivo ai danni della persona offesa, che dunque non gli può essere penalmente ascritto. Infatti, il difetto di manutenzione eziologicamente connesso al grave infortunio verificatosi nel punto vendita in parola appare “eccentrico” rispetto alla sfera di competenza dell’accusato, che rappresenta la “figura apicale (…) nel contesto di una società che gestisce su scala interregionale quarantatré supermercati, nei quali lavorano settecentossessantuno addetti”.
In particolare, come emerge dall’istruttoria processuale, la gestione della sicurezza nella cooperativa in parola è “articolata su più livelli” e si sviluppa, “in via discendente”, dal servizio di prevenzione e protezione al responsabile dell’ufficio tecnico, fino ad arrivare ai garanti di prossimità, ovverosia ai preposti: una filiera dunque da cui risulta estraneo l’imputato, posto che peraltro è il direttore generale (e non il presidente) a ricoprire la posizione sovraordinata al responsabile dell’ufficio tecnico. Per giunta, dal materiale probatorio risulta che nemmeno il preposto (responsabile del punto vendita in cui si è verificato l’infortunio) era a conoscenza del difetto della macchina tritacarne, poiché egli ha dichiarato di aver sempre visto utilizzare la medesima in presenza della protezione e di non essere mai stato informato dell’anomalia in oggetto da parte degli addetti al reparto macelleria del supermercato; così da non poter richiedere l’intervento di manutenzione necessario a rimuovere il difetto. E l’imputato sarebbe rimasto estraneo ad ogni decisione funzionale alla riparazione dell’anomalia de qua, giacché nell’ambito della cooperativa “La manutenzione, ovviamente strumentale (anche) ad esigenze di sicurezza, è affidata ad un modello fondato sull’interlocuzione tra i medesimi preposti, un apposito ufficio tecnico ed i soggetti terzi che, su prestabilite basi contrattuali, sono chiamati ad eseguire i relativi interventi”; senza contare peraltro che anche qualora la spesa necessaria per l’intervento di manutenzione avesse improbabilmente esorbitato la competenza finanziaria del responsabile tecnico, non sarebbe stato richiesto alcun intervento “autorizzativo” della figura sociale ricoperta dall’accusato.
La sentenza esclude poi opportunamente che “la funzione di garante in astratto rivestita” dall’imputato, “in relazione ad altro tipo di rischi”, possa estendersi sino a ricomprendere la situazione in concreto verificatasi “di per sé eccentrica rispetto alla ‘latitudine’ della sua posizione”; ragionamento al contrario che si potrebbe verosimilmente celare dietro la strategia accusatoria elaborata in maniera “automatica” e “presuntiva” dalla Procura. Del resto, come peraltro specificato dal Tribunale di Bologna, una puntuale applicazione del criterio del garante quale “gestore del rischio” – alla luce degli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità – avrebbe richiesto la valutazione di una eventuale condotta omissiva “rispetto ai soggetti collocati su livelli di maggior prossimità – gerarchica e logistica – al tipo di evento” verificatosi. Tant’è che il giudice ha disposto la trasmissione degli atti all’ufficio del Pubblico ministero, allo scopo di valutare l’eventuale responsabilità di altri soggetti nella causazione dell’infortunio.
Deve essere comunque chiaro che, in via generale, la “lontananza” dell’infortunio dai vertici aziendali non comporta tout court una deresponsabilizzazione di questi ultimi a discapito dei garanti di prossimità: invero, ad esempio, se l’evento lesivo verificatosi ai danni di un lavoratore rappresentasse la conseguenza di una scelta decisionale del responsabile di un reparto (settore, linea produttiva, ecc.) dettata da esigenze di risparmio, non verrebbe meno la possibilità di imputare il fatto (anche) ai livelli apicali solo perché non è soddisfatto il criterio della prossimità. Unicamente in virtù dell’assetto organizzativo aziendale e del tipo di failure posto alla base dell’evento lesivo si può giungere ad un’esenzione di responsabilità dell’apice della struttura: nel caso in parola infatti l’infortunio procuratosi dalla lavoratrice addetta al reparto macelleria riguarda un dettaglio dell’attività organizzativa aziendale e non deriva invece da scelte gestionali di fondo.
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Osservazioni. Oltre il provvedimento: responsabilità del preposto e profili relazionali della colpa
Muovendo dalla necessità di indagare la plausibile responsabilità di garanti più vicini al fatto lesivo, evocata dal magistrato bolognese, si possono sviluppare alcune, ulteriori considerazioni alla luce delle risultanze probatorie richiamate nella sentenza medesima.
Come si sa, nel sistema prevenzionistico a struttura “multilivello”, delineato dal testo unico del 2008, il garante “di prossimità” rispetto al lavoratore è costituito dal preposto, nei cui confronti la legge (art. 19 d.lgs. 81/2008) stabilisce, tra molteplici doveri, quello di sovraintendenza e di vigilanza sul rispetto delle regole di sicurezza da parte dei lavoratori medesimi, di verifica ad opera di questi ultimi, qualora esposti al pericolo, della conoscenza del rischio e delle misure da adottare per il contenimento dello stesso, nonché di frequentazione di appositi corsi formativi.
Nella cooperativa in oggetto è individuabile un unico preposto, vale a dire la “capo negozio”, la cui posizione sembra piuttosto complessa rispetto all’osservanza dei succitati obblighi di sicurezza. Non risulta anzitutto chiaro se ella abbia o meno vigilato in maniera continuativa sul corretto utilizzo della macchina tritacarne ad opera del personale addetto al reparto macelleria; né pare, segnatamente, che sia stato dalla stessa verificato il grado di conoscenza, da parte dei lavoratori impiegati nel settore in parola, dei rischi connessi all’impiego della macchina medesima e dell’importanza del regolare funzionamento dei rispettivi presidi di sicurezza. Vero però che il preposto dichiara di non essere mai stato informato dell’anomalia del tritacarne e di aver sempre visto adoperare quest’ultimo in presenza della piastra protettiva. In più, egli riferisce in giudizio che nei mesi precedenti alla verificazione del grave infortunio la macchina tritacarne era stata sottoposta a due interventi di manutenzione per ragioni diverse dal guasto al meccanismo di protezione (provati in via documentale), e che comunque in occasione del secondo intervento (risalente a circa sei mesi prima dell’incidente) era stato effettuato un controllo generale sull’arnese, dal quale si potrebbe ragionevolmente dedurre un regolare funzionamento della macchina stessa.
Tuttavia, le circostanze ricordate potrebbero non essere sufficienti per ritenersi rispettati tutti gli obblighi prevenzionistici gravanti sul preposto, che comprendono altresì – come si è visto – un dovere di verifica della consapevolezza, da parte dei lavoratori, della pericolosità delle prestazioni professionali dovute e della conoscenza, ad opera degli stessi, delle misure preventive da adottare: non è invero emerso che la “capo negozio” abbia personalmente esortato gli addetti del reparto macelleria a utilizzare sempre la macchina tritacarne con il presidio di sicurezza inserito; esortazione che pare essere stata indirizzata alla persona offesa unicamente da un collega “più anziano” alla luce di quanto emerso in dibattimento.
Orbene, se il preposto non sembra prima facie pienamente adempiente rispetto ai corrispondenti doveri di prevenzione della sicurezza, del pari anche la posizione di alcuni lavoratori impiegati nel reparto macelleria del supermercato e della vittima medesima dell’infortunio non figura del tutto esente da ombre sul piano dell’osservanza delle regole cautelari poste a presidio dell’incolumità dei lavoratori medesimi.
È circostanza nota che l’articolato sistema di governo della sicurezza sul lavoro, recepito dal d.lgs. n. 81/2008, abbia stabilito la cessione del controllo di rischi specifici al lavoratore, che diviene in tal guisa protagonista nelle dinamiche prevenzionistiche aziendali. Può essere per esempio rammentato quel vasto ventaglio di doveri posti dall’art. 20 d.lgs. n. 81/2008 a carico del lavoratore: come l’obbligo di osservare le disposizioni e istruzioni impartite dal datore e dagli altri garanti a tutela della protezione collettiva e individuale (lett. b); di utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro e i dispositivi di sicurezza (lett. c) e di protezione (lett. d); di segnalare immediatamente le deficienze dei mezzi o dei dispositivi ovvero qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui venga a conoscenza, adoperandosi direttamente in caso di urgenza per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente (lett. e); al divieto di rimuovere o modificare i dispositivi di sicurezza (lett. f), ecc.
Con precipuo riferimento al caso in esame, alcuni dei succitati obblighi sembrano inosservati proprio dai lavoratori del reparto macelleria, teatro del grave infortunio in oggetto, e altresì dalla vittima di quest’ultimo. Particolarmente evidente risulta per esempio la violazione del dover di segnalazione del deficit di sicurezza da parte dei suddetti lavoratori: dal materiale probatorio si evince infatti che gli addetti all’utilizzo della macchina in questione non si sono mai premurati di informare la “capo negozio” del guasto alla parte protettiva dell’arnese, confidando verosimilmente nella capacità di quest’ultima a svolgere comunque la rispettiva funzione profilattica se non rimossa dall’apposita sede. Da parte sua, la persona offesa ha impiegato il tritacarne in assenza della protezione, giustificando poi in sede processuale il proprio comportamento imprudente alla luce di “una prassi, all’interno del reparto, in base alla quale, nei momenti di maggior affluenza della clientela, siffatta protezione veniva smontata al fine di velocizzare il servizio”. Prassi che tuttavia non troverebbe conferma nelle dichiarazioni rilasciate da un altro addetto allo stesso reparto del negozio, il quale sostiene di aver utilizzato la macchina tritacarne con la protezione inserita poco prima dell’infortunio e di aver sempre raccomandato alla vittima (anche in virtù della maggior esperienza professionale) di adoperare lo strumento solo con la protezione applicata. Del resto, un terzo lavoratore, anch’egli impiegato nel reparto macelleria, ha dichiarato di aver udito, subito dopo la verificazione dell’infortunio, la persona offesa scusarsi per quanto accaduto proprio con il suddetto dipendente “più anziano”; il quale ha spiegato tali scuse in ragione dell’inosservanza della raccomandazione sopra ricordata.
A “giustificazione” della propria condotta imprudente la vittima ricorda altresì di non esser mai stata destinataria di una specifica formazione professionale. In realtà, sebbene in prima battuta la persona offesa affermi di aver ricevuto istruzioni sulle modalità di funzionamento della macchina tritacarne solo in via informale dal “capo reparto” e dai “colleghi di maggior esperienza”, durante l’istruttoria dibattimentale emerge che ella, al momento dell’assunzione presso la cooperativa, avrebbe frequentato un corso “sulla sicurezza generale, tuttavia non specificamente riferito al lavoro presso il reparto macelleria”; e, a completamento del corso suddetto, risulta consegnato alla vittima stessa un manuale dedicato alla sicurezza sul luogo di lavoro, contenente specifiche informazioni pure sull’utilizzo del tritacarne.
Da una puntuale analisi del quadro fattuale ne esce pertanto una situazione particolarmente complessa – ben distante dalla ricostruzione “semplicistica” operata dalla Procura – che non consente di escludere eventuali violazioni cautelari collocate su livelli differenti della piramide prevenzionistica aziendale.
Sarebbe perciò interessante seguire il prosieguo della vicenda giudiziaria, con l’intento di conoscere la strada che sarà intrapresa dalla magistratura inquirente e, semmai, dal giudice di merito: in particolare, in quale modo verrà individuato il gestore del rischio penalmente responsabile e se sarà riconosciuta rilevanza “esimente” al comportamento imprudente che sembra riconoscibile in capo ad alcuni lavoratori, tra i quali è ricompresa la vittima stessa dell’infortunio.
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Collegamenti con altre pronunce
Ormai ricca è la giurisprudenza di legittimità che – sulla scorta del modello di prevenzione tracciato nel d.lgs. n. 81/2008 – riconosce all’interno delle organizzazioni complesse la figura del garante unicamente nel soggetto cui spetta la “gestione del rischio” in concreto verificatosi, al fine di conciliare l’effettività della protezione della sicurezza sul lavoro con il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale.
Tra le numerose sentenze che si muovono in tale direzione, si possono per esempio segnalare: Cass. pen., sez. IV, 10 dicembre 2008, n. 4123; Cass. pen., Sez. IV, 23 novembre 2012, n. 49821; Cass. pen., sez. IV, 28 maggio 2013, n. 37738; Cass. pen, Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343; Cass. pen., Sez. IV, 20 dicembre 2017, n. 12639.
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Dottrina e riferimenti bibliografici
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Marco Venturoli
Dottore di ricerca in diritto penale – Università di Ferrara