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Corte d’Appello di Lecce, sentenza 11 gennaio 2019

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Oggetto del provvedimento.

Il Presidente del Consiglio di Amministrazione e due amministratori (di fatto) di una società venivano tratti a giudizio perché accusati dei reati previsti e puniti dagli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000. Più precisamente, veniva loro contestato, nelle rispettive qualità: a) di aver infedelmente dichiarato poste attive per un ammontare inferiore a quello effettivo, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per gli anni fiscali dal 2007 al 2010; b) di aver omesso di presentare la dichiarazione relativa all’anno fiscale 2009 al fine di evadere l’imposta sui redditi.

Tali violazioni sarebbero state attuate mediante la costituzione e la fittizia localizzazione della residenza fiscale della società all’estero, in Portogallo, all’unico scopo di sottrarsi al più gravoso trattamento fiscale italiano.

Il Tribunale di Brindisi, sul presupposto che «la costituzione [della società] fosse meramente formale a fronte di una sede di “direzione effettiva” in Italia (in Brindisi)», ha qualificato tale operazione come “esterovestizione societaria”, ossia abuso del diritto di libertà di stabilimento perché esercitato all’unico fine di conseguire indebiti vantaggi fiscali. In conseguenza di ciò, il giudice ha riconosciuto la sostanziale applicabilità della legge nazionale, affermando così la penale responsabilità degli imputati per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000.

Differentemente dal primo giudice, l’adita Corte di Appello di Lecce esclude, nel caso in esame, la configurabilità di un’ipotesi di “esterovestizione”.

Pertanto, con la sentenza in commento, gli imputati sono assolti dai reati loro ascritti perché il fatto non sussiste.

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Contenuto del provvedimento.

La Corte di Appello, in primo luogo, chiarisce che per “esterovestizione di persona giuridica” deve intendersi: «la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare, in un paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale».

Precisa, quindi, che siffatti fenomeni si realizzano «attraverso la costituzione, solo fittizia, di una società all’estero che poi, di fatto, subentra nel business della società residente negli Stati a fiscalità piena».

In questo senso, «risulta esterovestita una società costituita all’estero che presenti uno o più criteri legali di collegamento con l’ordinamento nazionale».

Tanto premesso, la Corte analizza preliminarmente due motivi di impugnazione, ritenuti assorbenti dagli appellanti. Questi, nello specifico, sostengono che le condotte in esame sono prive di rilevanza penale in conseguenza dell’intervenuta abolitio criminis dell’abuso del diritto (primo motivo) nonché, in ogni caso, per il mancato superamento delle soglie di evasione previste dalla legge penale tributaria (secondo motivo).

Quanto al primo motivo, si è detto che l’“esterovestizione societaria” configura un’attività elusiva anche qualificabile come abuso del diritto di libertà di stabilimento. Con l’introduzione dell’art. 10-bis, comma 13, l. 27 luglio 2000, n. 212 (ex art. 1 d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128), il legislatore ha attuato una sostanziale abolitio criminis rispetto a siffatte condotte le quali, dunque, non possono dar luogo a fatti penalmente rilevanti (Cass. pen., sez. III, 29 agosto 2016 n. 35575).

Occorre tuttavia precisare che l’istituto dell’abuso del diritto trova applicazione solo in via residuale. Pertanto, restano penalmente rilevanti tutte quelle condotte elusive che, per le concrete modalità di attuazione, integrano distinte ed autonome fattispecie di reato.

Infatti, è indubbio che «non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele in presenza di condotte puramente elusive a fini fiscali in quanto l’art. 10-bis, comma 13, della l. 27 luglio 200, n. 212, introdotto dall’art. 1 del d. lg. 5 agosto 2015, n. 128, esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti possano integrare condotte penalmente rilevanti» (Cass. pen., sez. III, 01 ottobre 2015, n. 40272).

Ma altrettanto vero è che l’istituto dell’abuso del diritto non può venire in considerazione «quando i fatti integrino gli elementi costituitivi del delitto di dichiarazione infedele per la comprovata esistenza di una falsità ideologica che interessa, nella parte che connota il fatto evasivo, il contenuto della dichiarazione, inficiandone la veridicità per aver come obiettivo principale l’occultamento totale o parziale della base imponibile» (Cass. pen., sez. III, 21 aprile 2017, n. 38016).

In questo senso, la Corte d’Appello evidenzia che gli imputati hanno presentato una dichiarazione infedele intrinsecamente connotata da profili di non veridicità, così attuando una condotta non univocamente sussumibile nell’ambito dell’abuso del diritto.

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Il secondo profilo esaminato dalla Corte attiene alla asserita irrilevanza penale delle condotte per il mancato superamento delle soglie di evasione previste dalla legge penale tributaria. In particolare, ove mai dovesse ritenersi applicabile l’ordinamento tributario italiano, sostengono gli appellanti che il reddito prodotto dalla società sarebbe comunque soggetto al regime fiscale agevolato previsto ex art. 4, comma 2, d.l. n. 457/1997 (come modificato dalla legge di conversione n. 30/1998) se non a quello forfettario, ancor più favorevole, definito tonnage tax (introdotto con d.lgs. n. 344/2003). Ne deriverebbe che l’imposta evasa sarebbe in ogni caso inferiore alle soglie di punibilità, con conseguente irrilevanza penale delle condotte evasive contestate agli imputati.

Sul punto si osserva che, per accedere ai citati regimi fiscali agevolati, l’ordinamento originariamente prevedeva la necessaria iscrizione dell’impresa al Registro Internazionale Italiano (R.I.I.).

Gli imputati avevano prospettato al primo giudice la tesi secondo cui la previsione di tale requisito contrastasse con il diritto comunitario, per violazione del principio di libertà di stabilimento e del divieto di discriminazione. Chiedevano pertanto la disapplicazione dell’art. 4 d.l. n. 457/1997, nella parte in cui prevedeva la necessaria iscrizione nel R.I.I. per l’accesso alle agevolazioni fiscali, di fatto escludendo da tali benefici le imprese comunitarie non iscritte presso detto registro.

La questione, disattesa dal primo giudice, è stata riproposta davanti alla Corte d’Appello nei termini dell’intervenuta abrogazione del predetto requisito (ex art. 10, l. 20 novembre 2017, n. 167) e conseguente estensione delle citate agevolazioni fiscali a tutte le bandiere comunitarie.

Il Collegio, tuttavia, rileva che la menzionata novella non può trovare applicazione nel caso concreto, in ossequio al principio della irretroattività della legge. Inoltre, nel far proprie le argomentazioni del primo giudice, anche la Corte di Appello non ravvisa un contrasto con il diritto comunitario, così rigettando le doglianze degli imputati: «l’interpretazione […] propugnata dalla difesa appare alquanto forzata, in quanto la Commissione si è espressa in termini di dubbio e non di certezza in merito alla dedotta incompatibilità, con i principi del diritto comunitario, del requisito della iscrizione nel R.I.I. […], dubbi cui lo Stato italiano ha risposto rendendosi disponibile ad intervenire in via legislativa sulla questione».

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La Corte d’Appello, infine, affronta il tema della non configurabilità, nel caso in esame, della c.d. “esterovestizione societaria”.

Invero, il Tribunale di Brindisi ha ritenuto sussistente un fenomeno di esterovestizione sul presupposto che la costituzione e localizzazione all’estero della società costituisse un’operazione artificiosa e fittizia. Tanto deduceva da una serie di circostanze fattuali quali: l’assenza di compensi da parte della società portoghese, a favore degli imputati, per l’attività di amministrazione da questi svolta; l’effettivo accentramento dei poteri decisionali della società portoghese in capo a terze imprese, residenti in Italia, attuato mediante una rete di contratti a ciò sostanzialmente diretti; l’attivazione, presso soli istituti di credito italiani, dei conti correnti intestati alla società portoghese.

Inoltre, il primo giudice ha ritenuto non perfettamente calzante al caso in esame i principi espressi nella nota sentenza della Corte di Cassazione relativa al caso “Dolce & Gabbana” (Cass. pen., sez. III, 24 ottobre 2014, n. 43809), ritenendo tale sentenza applicabile ai soli casi di società, con sede legale estera, controllata da società italiana (ai sensi dell’art. 2359 c.c.) mentre la società portoghese, nel caso di specie, non risulta controllata da altra società.

Ebbene, il Collegio disattende la ricostruzione fattuale operata dal Tribunale in quanto, dalla documentazione prodotta dagli appellanti (illegittimamente rigettata dal primo giudice perché in lingua portoghese), si evince che il Presidente del Consiglio di Amministrazione era puntualmente remunerato in Portogallo dalla società e che su tali redditi prodotti egli versava le relative imposte tramite un istituto di credito portoghese.

Inoltre, la Corte non condivide il ragionamento del primo giudice «laddove ha ritenuto che i principi enucleati dalla S.C. non possano trovare applicazione al di fuori dell’ipotesi prevista dall’art. 2359 c.c.».

Anzitutto, precisa il Collegio, non è da escludere che, in forza dell’assetto negoziale che accentra i poteri decisionali della società portoghese in capo a società italiane, la prima non possa dirsi controllata ai sensi dall’art. 2359 c.c.

Ma, in ogni caso, l’interpretazione restrittiva adottata dal primo giudice rischia di tradursi in una indebita limitazione della libertà di stabilimento.

Peraltro, il diritto dell’imprenditore di decidere di collocare le proprie strutture dove ritiene più congruo ai suoi interessi, è diretta espressione il principio della libertà di impresa (di cui all’art. 42 Cost.). Il punto, dunque, «è verificare se a tale scelta insindacabile corrisponda una “costruzione di puro artificio” volta a lucrare i benefici fiscali oppure no».

Il ragionamento operato a tal proposito dal Collegio valorizza la natura legittima o illegittima del vantaggio fiscale quale elemento discriminante tra legittimo esercizio del diritto alla libertà di stabilimento e abuso di tale diritto (esterovestizione societaria). Poiché il vantaggio fiscale è indebito solo quando conseguito attraverso una situazione di puro artificio, legittimo deve considerarsi ogni vantaggio fiscale ottenuto dalla costituzione all’estero di una società che ivi effettivamente svolga attività economica.

Pertanto, ai fini del giudizio sulla sussistenza di un fenomeno di esterovestizione societaria, non è sufficiente accertare che il luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative della società estera (sede della “direzione effettiva”) sia in Italia: è altresì necessario accertare se tale società svolga un’effettiva attività economica all’estero o se, viceversa, essa si configuri come una “società-schermo”, un puro artificio privo di qualsivoglia sostanza economica (sul punto, v. Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2018, n. 50151).

Così, nel giudizio di accertamento, il giudice deve valutare non solo il luogo della sede della “direzione effettiva” (criterio della “sede effettiva”) ma anche, e soprattutto, l’eventuale sussistenza di valide ragioni organizzative, strutturali e funzionali che giustifichino la scelta imprenditoriale di localizzare la residenza fiscale all’estero e qui svolgere l’attività (criterio della “effettiva operosità”).

Ed anzi, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e, in tempi recenti, della stessa Corte di Cassazione italiana, il criterio della “sede effettiva” appare sempre più recessivo rispetto al criterio della “effettiva operosità”.

Difatti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha precisato che: «a un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica una maggiore imposta» poiché il soggetto passivo «ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale» (C.G.U.E., Grande Sezione, Sentenza “Halifax” del 21/02/2006 n. C-255/02).

Pertanto, «il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l’imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se ottenuto attraverso situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio che rendono conseguentemente “indebito” il vantaggio fiscale» (Cass. pen., sez. III, sentenza n. 43809 del 24/10/2014, sul noto caso “Dolce & Gabbana”).

Ebbene, risulta dagli atti di causa come la società portoghese di fatto operi in Portogallo, qui convocando assemblee e Consiglio di Amministrazione, qui reclutando e formando il personale. Inoltre, la scelta di costituire la società a Madeira, in Portogallo, pare giustificata dai conseguenti vantaggi non solo fiscali ma anche operativi, quali: la vicinanza all’area di maggior attività sociale (coste dell’Africa Nord-Occidentale); l’esistenza nell’isola di un valido registro navale e di un porto di eccellenza; le tutele derivanti dall’essere il Portogallo uno Stato membro dell’Unione Europea.

Tali elementi fattuali, non contestati, escludono che nella presente fattispecie la società sia stata costituita in Portogallo a soli fini elusivi.

Così, alla luce delle citate coordinate ermeneutiche, la Corte d’Appello giunge ad affermare la non configurabilità, nel caso di specie, di un’ipotesi di esterovestizione.

Pertanto, in riforma della impugnata sentenza, assolve gli imputati dai reati loro ascritti perché il fatto non sussiste.

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Collegamenti con altre pronunce

Oltre alle pronunce riportate nella presente nota, si segnalano due recenti sentenze della Cassazione Civile, Sez. V, 21 dicembre 2018 nn. 33234 e 33235. Tali sentenze sono interessanti perché, sempre sul noto caso “Dolce & Gabbana”, affermano la legittimità della localizzazione della residenza fiscale all’estero purché qui la società svolga una qualche attività: «Dietro a quel ripetuto richiamo alla mancanza di autonomia gestionale e finanziaria si cela l’ispirazione di fondo dell’intera decisione: la predisposizione degli aspetti gestionali e organizzativi dell’attività di Gado s.a.r.l interamente in Italia, lasciando alla sede lussemburghese i soli compiti esecutivi. Con il che, però, si ammette che qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva».

La Suprema Corte ha dunque accolto il ricorso dei due stilisti, annullando con rinvio le pronunce della C.T.R. Lombardia.

Alessandro Sbarro
Dottorando di ricerca in Diritto dei Beni Pubblici, Privati e Comuni e cultore della materia in Diritto penale presso l’Università del Salento


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