Tribunale di Milano, Sez. V, Sentenza del 25 Maggio 2015, n. 2161
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Oggetto del provvedimento
Il Tribunale di Milano ha assolto “per non aver commesso il fatto” gli ex dirigenti dell’Enel di Turbigo. Nel processo per omicidio colposo plurimo, con l’aggravante della violazione delle normative sulla sicurezza, per la morte di otto operai deceduti a causa del mesotelioma pleurico,la difesa ha dimostrato che non vi è certezza che la condotta omissiva sia stata una causa possibile dell’insorgenza delle forme tumorali o di un loro aggravamento.
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Contenuto del provvedimento
Il Tribunale di Milano a seguito di un complesso iter dibattimentale ha assunto la decisione di assolvere sei dirigenti dell’Enel di Turbigo dalla accusa di omicidio colposo commesso, nelle loro rispettive qualità,in relazione al decesso per mesotelioma pleurico di otto ex dipendenti della centrale, che durante i processi lavorativi connessi alle loro mansioni erano stati lungamente esposti ad amianto.
La contestazione, invero, fonda il proprio assunto accusatorio sul presupposto che gli imputati abbiano agito “con imprudenza, negligenza ed imperizia ed abbiano violato le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali ed in particolare le disposizioni di cui agli artt. 4,15,19, e 21 del d.p.r. 303/1956, così cagionando il decesso dei lavoratori”.
Secondo il giudice di prime cure a seguito, però, dell’istruttoria esperita si è palesato come non possa pervenirsi a conclusioni di logica certezza circa una responsabilità degli imputati, che all’epoca rivestivano posizioni di garanzia, in quanto essi non hanno assunto alcun ruolo causale né nella genesi, né tanto meno nello sviluppo della malattia tumorale che ha portato al decesso delle persone offese. Queste ultime, infatti, avevano già contratto la malattia in periodi precedenti alla suddetta assunzione di posizione di garanzia da parte degli imputati.
In particolare si evidenzia in sentenza che quando gli imputati iniziarono a coprire ruoli dirigenziali nella centrale termoelettrica “l’iniziazione del processo carcinogenetico era sicuramente già avvenuta per tutte le persone offese”.
Lo sviluppo logico motivazionale lungo cui muove la decisione del giudice di prime cure analizza vari punti della complessa vicenda sottoposta alla sua attenzione.
Premesso che il mesotelioma pleurico è determinato dall’inalazione di fibre d’amianto, la sentenza evidenzia come sia apparso “assolutamente pacifico che all’interno della centrale di Turbigo si sia fatto un ampio uso di materiale contenente amianto (MCA)”.
Infatti, il Tribunale analizza, in primis, le condizioni di lavoro esistenti all’epoca dei fatti all’interno dei luoghi di lavoro della centrale termoelettrica di Turbigo
Dall’analisi esperita emerge come la situazione epidemiologica sia quella tipica di una realtà societaria dove l’amianto non era direttamente lavorato ma diffuso nell’ambiente in operazioni frequenti, non continuative di manutenzione e attraverso il degrado di manufatti .
Dall’istruttoria dibattimentale è emerso come i dipendenti nel corso degli anni non siano stati avvisati della pericolosità e della cancerogenicità dell’amianto, né tanto meno della necessità di adottare cautele al fine di evitare i rischi correlati alla sua inalazione.
Dirimenti ai fini di un quadro decisorio, nel caso di specie sottoposta all’attenzione del Tribunale, sono le testimonianze rese, nonchè le consulenze tecniche acquisite.
Le dichiarazioni assunte in dibattimento hanno evidenziato una situazione di oggettivo pericolo per i lavoratori, a fronte della quale Enel, nel corso degli anni, non ha tempestivamente adottato adeguate e doverose misure di prevenzione (p.37).
Sulla base delle evidenze processuali acquisite durante l’istruttoria, il giudice di prime cure ritiene di poter anticipare che “i lavoratori della centrale Enel di Turbigo sono stati impropriamente esposti, seppure in termini progressivamente decrescenti, all’inalazione di fibre d’amianto”.
Deve ritenersi dimostrato, sulla base delle numerose deposizioni testimoniali rese dagli ex dipendenti della centrale di Turbigo e della documentazione acquisita, che “operazioni di piccola manutenzione venivano svolte senza alcuna cautela, utilizzando strumenti del tipo martello e scalpello per rompere le coibentazioni esistenti e, ad esempio, individuare i punti danneggiati delle tubazioni; le operazioni di pulizia venivano compiute a secco, con scope e in alcuni casi utilizzando aria compressa; i piani più alti venivano liberati dalla polvere utilizzando scope e, in alcuni casi, getti di aria compressa; posto che i piani erano costituiti da grigliati la polvere, dai piani più elevati, precipitava letteralmente verso quelli inferiori; gli aspiratori esistenti erano spesso non funzionanti; inesistente l’uso di mascherine, anche per coloro che effettuavano i “piccoli interventi” di manutenzione; le tute di lavoro venivano liberate dalla polvere con getti di aria compressa e molto spesso gli operai si recavano in mensa senza cambiarsi” (p.43).
Pertanto, nella prima parte della motivazione il giudicante acquisisce il dato certo che “i lavoratori della centrale di Turbigo siano stati impropriamente esposti, seppure in termini progressivamente decrescenti nel tempo, all’inalazione di fibre d’amianto. Questa esposizione si è pacificamente verificata anche rispetto alle otto persone offese” (p. 49).
Al fine di affrontare la sussistenza di un eventuale nesso causale che possa collegare la riconducibilità della malattia dalla quale è scaturita la morte delle odierne persone offese alla condotta degli imputati, il giudicante non si sottrae al ruolo di risolvere alcuni interrogativi che vengono analiticamente sviluppati in sentenza.
Si affronta la verifica della correttezza della diagnosi di mesotelioma pleurico, per cui diventa indispensabile accertare l’insorgenza e lo sviluppo della patologia, argomenti che fanno da riscontro all’eventuale attribuzione degli eventi lesivi alle condotte degli imputati.
Sulla correttezza della diagnosi il giudicante afferma “di concordare con le conclusioni sia del consulente tecnico del P.M. che con quelle del consulente tecnico delle difese dott. F. e di potere affermare che – sebbene in alcuni casi l’esame immunoistochimico non sia stato condotto utilizzando due marcatori positivi e due negativi – le persone offese siano tutte morte a causa di mesotelioma pleurico” (p.108).
Invero, tale assunto trova, a parere del giudicante, fondamento, al di là delle critiche mosse da uno solo dei consulenti della difesa dott. P., il quale aveva messo in dubbio la sussistenza dell’accertamento alla luce del mancato utilizzo di due marcatori positivi e dei due negativi (di cui, in sentenza si fa riferimento, in due elementi sostanziali: la correttezza degli accertamenti sviluppati in coerenza con le lenee guida dettate dal RENAM (Registro Nazionale dei Mesotelionmi) e la preparazione tecnica e scientifica a tutti noti degli anatomopatologi che hanno effettuato gli accertamenti (p. 108).
Successivamente il giudicante pone la sua attenzione sull’origine della patologia e se possa affermarsi che la causa debba ricercarsi esclusivamente nell’esposizione ad amianto oppure possano e debbano prospettarsi altre ipotesi causali che possano ricondurre l’evento lesivo a distinti fattori eziologici o addirittura ad esposizioni extra lavorative.
Sul punto, preliminarmente, al fine di escludere fattori esterni alternativi si dà atto di come sia “generalmente ammesso dalla comunità scientifica che il mesotelioma è causato pressoché esclusivamente dall’esposizione ad amianto, ciò significa che se non vi fosse esposizione ad amianto si avrebbero solo rarissimi casi di mesotelioma” (p.109). Deriva da ciò come l’istruttoria dibattimentale abbia correttamente accertato che la malattia sia stata provocata e che quindi “le persone si siano ammalate a causa dell’inalazione di fibre di amianto nel periodo in cui lavoravano presso la centrale di Turbigo” (p.110).
Premesso che se non vi fosse esposizione, rarissimi sarebbero i casi di mesotelioma, appare di notevole importanza un passaggio della decisione de quo in cui il giudice di prime cure sottolinea “l’esistenza di una legge scientifica inerente alla relazione causale probabilistica tra l’inalazione delle polveri di amianto e l’affezione tumorale denominata mesotelioma pleurico”. Su tale assunto il giudicante non manca di evidenziare come non debba leggersi una affidabilità solo come probabile in quanto “l’esistenza di una relazione causale di carattere generale è indiscussa, ma tale relazione si concretizza non immancabilmente, bensì solo in una definita percentuale di casi” (ibidem).
La domanda più difficile alla quale il Tribunale nella parte finale della sua decisione deve rispondere mira a chiarire se possa attribuirsi rilievo causale alle condotte lesive contestate agli imputati, che nel corso della malattia si sono succeduti nelle diverse posizioni di garanzia. Rilevante per le risoluzione del suddetto quesito è il vaglio critico a cui il giudicante non si sottrae circa l’individuazione dei periodi eziologicamente rilevanti per l’insorgenza e lo sviluppo della malattia.
Fondamentale ai fini della decisione è cogliere “in quale momento sia avvenuto l’avvio, l’iniziazione del processo carcinogenetico che, dopo una lunghissima latenza ha condotto alla diagnosi di mesotelioma. Domandarsi quando questo processo possa ritenersi concluso tanto da imporre di ritenere ogni esposizione successiva irrilevante nello sviluppo della malattia, nonché verificare l’esistenza di un effetto acceleratore del processo carcinogenetico derivante dalla protrazione dell’esposizione” (p.113).
Rilevato, preliminarmente, che l’istruttoria dibattimentale invero non ha fornito risultati di “logica certezza” nella risoluzione di una serie di interrogativi, il Tribunale rimarca come sia “comunemente accettata in ambito scientifico l’affermazione secondo la quale deve essere assegnato un peso eziologicamente maggiore alle esposizioni più lontane nel tempo”: tale assunto regge nonostante sia stato sposato sia dalle difese degli imputati, sia dalle difese delle parti civili nonchè dal consulente del PM il dato che “non sia possibile stabilire l’epoca di inizio del processo carcinogenetico ovvero il momento nel quale si verifica la prima trasformazione maligna cellulare”.
Alla luce delle emergenze processuali, a parere dell’organo giudicante,“tenuto conto della data di inizio dell’attività lavorativa delle varie persone offese e sulla base del maggiore peso da attribuire alle esposizioni avvenute nel primo arco di vita lavorativa”appare lapalissiano ritenere che “nel luglio 1980, data dalla quale far partire la prima assunzione di ruolo di garanzia da parte degli odierni imputati, l’iniziazione del processo carcinogenetico fosse sicuramente già avvenuta” (p.116).
A questo punto, il Tribunale ritiene fondamentale interrogarsi sulla sussistenza di un possibile effetto acceleratore/aggravatore connesso alla protrazione dell’esposizione alla sostanza cancerogena dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico e dopo il termine di induzione.
Su tale tema, invero, bisogna dapprima osservare come l’istruttoria dibattimentale abbia fornito ampia prova della mancanza di conoscenza circa la durata del periodo di induzione, inteso quale arco temporale nel quale si innesta l’iniziazione della prima cellula e momento nel quale il tumore, sebbene non ancora diagnosticato, sia però ormai autosufficiente ed irreversibile.
Alla domanda, pertanto, se esista una legge scientifica accreditata che fornisca elementi validi a suffragare l’esistenza di un effetto acceleratore, il Tribunale risponde che “l’istruttoria dibattimentale non ha fornito la prova dell’esistenza di una legge scientifica che comprovi l’esistenza del c.d. effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione”, non mancando di sottolineare un ulteriore dato di fatto incontrovertibile quale l’assenza, allo stato attuale, di conoscenze scientifiche che “consentano di accertare la durata del ‘periodo di induzione’, ovvero del periodo durante il quale si completano tutti i passaggi della trasformazione cellulare; periodo alla fine del quale il tumore è autosufficiente e irreversibile”. Conferma il suo assunto il Tribunale: “neppure è noto quanto duri la c.d. fase preclinica, ovvero il periodo di tempo che intercorre tra la fine dell’induzione (e dunque tra il momento nel quale il tumore è divenuto autosufficiente) e la diagnosi della malattia” (p. 119).
Conclude, quindi, il giudicante affermando che “se il sapere scientifico non fornisce la certezza circa la durata del periodo di induzione e se – come nel caso qui in esame – si discute della responsabilità penale di soggetti che hanno assunto posizioni di garanzia quando già il lavoratore era stato esposto per anni, è estremamente problematico (se non impossibile) stabilire se l’esposizione patita dal lavoratore nel periodo di tempo nel quale l’imputato rivestiva il ruolo di garante sia stata causalmente rilevante nel determinarne la malattia”(p.122).
Viene evidenziato come possa attribuirsi una responsabilità penale ad ogni singolo imputato solo in presenza di una spiegazione di natura autenticamente causale, alla stregua della quale possa dirsi che – alla luce della migliore scienza del momento storico – ciascun periodo di esposizione abbia contribuito alla comparsa ed allo sviluppo della malattia.
Da ultimo, la sentenza prova ad analizzare, in mancanza di una legge scientifica, le risposte fornite dai consulenti tecnici all’interrogativo circa un effetto acceleratore prodotto dalla protrazione dell’esposizione.
Così come già rilevato, a pag. 63 della motivazione il giudicante illustra la nota formula di Peto, esposta durante l’istruttoria dal consulente tecnico del P.M. Secondo quest’ultimo, infatti, il modello matematico di Peto fornisce la prova di un effetto acceleratore: “ogni breve periodo di esposizione determina un aumento della successiva incidenza, che cresce approssimativamente in funzione del cubo del tempo trascorso dall’esposizione per le esposizioni di breve durata ed in funzione della quarta potenza per le esposizioni prolungate”.
Sul punto, però, il Tribunale, sposando le linee difensive degli imputati, rileva come il modello di Peto sia limitato a studiare “l’incidenza del tumore in una popolazione in funzione della dose: se aumenta la dose, nella stessa proporzione aumenta l’incidenza”, motivando, inoltre, che il suddetto modello non può essere funzionale a dimostrare “che maggiori esposizioni all’agente cancerogeno riducano i tempi di latenza anticipando l’evento infausto” e precisando, inoltre, che, “ciò che la formula di Peto (così come quella di Boffetta) intende indagare e spiegare è l’incidenza della malattia, ovvero il numero di casi che si verificano nel corso del tempo nell’ambito di una determinata popolazione, al variare della dose. La formula è – dunque – un modello di predizione e, proprio applicando questa formula, Peto – già negli anni ’80 – era riuscito a prevedere la vera e propria epidemia di mesotelioma che è oggi in corso ed il suo andamento nel tempo” (p.123).
Alla luce di tali ultime, sopravvenute, emergenze processuali il Tribunale conclude affermando che “il sapere scientifico – quale veicolato nel presente processo dai consulenti tecnici esaminati – non consente di ritenere dimostrata l’ esistenza di una legge scientifica sulla base della quale potere affermare che a maggiori durate di esposizioni corrisponda una minore latenza; in realtà non può neppure ritenersi dimostrata con certezza l’esistenza stessa del fenomeno denominato ‘effetto acceleratore’”(p.131).
Inoltre, sebbene la prevalente letteratura scientifica concordi nel ritenere che a maggiori esposizioni debba corrispondere una maggiore incidenza, non appare suffragata e corroborata una legge scientifica che dimostri che la durata (o continuatività) dell’esposizione riduca nel singolo caso la latenza, anticipando la morte.
Tali argomentazioni portano il giudice di primo grado a ritenere che “non sia possibile affermare se, nei singoli casi sottoposti all’ esame, la protrazione dell’ esposizione nel corso degli anni abbia determinato un riduzione del periodo di induzione, accelerando l’evento-morte”.
Ai fini, perciò, di riconoscere la sussistenza di eventuali responsabilità, diventa nevralgica per il giudice – premesso che il passaggio da cellula iniziata a cellula neoplasica è complesso e richiede “tempo” per essere completato – la determinazione esatta di questo “tempo” in casi, come quello sottoposto alla sua attenzione, caratterizzati da esposizioni prolungate unitamente a differenti “garanti” succedutisi nel corso degli anni.
Nel caso di specie tale determinazione appare davvero una prova diabolica, non potendo, essa, essere ancorata a solide basi scientifiche al fine di giungere a sussumere nell’alveo della responsabilità penale l’ipotizzata responsabilità di soggetti, i quali hanno assunto una posizione di garanzia quando il lavoratore era già stato esposto all’inalazione di fibre d’amianto per un certo numero di anni.
Evidenzia il Tribunale come “la mancanza di leggi scientifiche sulla base delle quali sviluppare il ragionamento probatorio non può indurre il Giudice ad interpretazioni del nesso causale ormai da tempo abbandonate dalla giurisprudenza e correlate ad una mera rilevazione di un aumento del rischio del verificarsi dell’ evento infausto” (p.132).
A seguito della complessa istruttoria esperita, al Giudice non resta che concludere – nonostante il dato accertato che le morti siano avvenute a causa di mesotelioma pleurico contratto nel corso della vita lavorativa presso la centrale di Enel di Turbigo – assolvendo gli imputati dai reati loro ascritti con la formula “il fatto non sussiste” dal momento che non è possibile affermare che l’esposizione patita dalle persone offese nello specifico periodo di tempo nel quale i singoli imputati sono stati “garanti” della loro salute siano state causalmente rilevanti nel determinarne il decesso.
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Collegamenti con altre pronunce e dottrina:
In giurisprudenza: Cass.pen. sez. IV, 17.09.2010, n. 43786; Cass.pen. sez. IV, 21.11.2014, n. 11128 .
In dottrina: PETRINI D., Rischi di responsabilità oggettiva nell’accertamento della colpa del datore di lavoro e dei dirigenti, in AA.VV., Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa (un dialogo con la giurisprudenza), a cura di R. Bartoli, Firenze, 2010, 285 ss.; BARTOLI R., Responsabilità penale da amianto: una sentenza destinata a segnare un punto di svolta? nota a Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, imp. Cozzini e al., in Cass. pen., 2011, 5, 1679; BARTOLI R., La responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto, in Dir. pen. cont., 25 gennaio 2011; BARTOLI R., Il problema della causalità penale. Dai modelli unitari al modello differenziato, Giappichelli, 2010; CASTRONUOVO D., La contestazione del fatto colposo: discrasie tra formule prasseologiche d’imputazione e concezioni teoriche della colpa, in Cass. pen., 2002, 3836; DI AMATO A., La responsabilità penale da amianto, Giuffrè, 2003; GUARINIELLO R., I tumori professionali nella giurisprudenza penale, in Foro it., 1999, II, 237; GUARINIELLO R., Malattie professionali, tumori da amianto, asbestosi, in Foro it., 2000, II, 260; GUARINIELLO R., Dai tumori professionali ai tumori extraprofessionali da amianto, in Foro it., 2001, II, 278; GUARINIELLO R., Tumori professionali da amianto e responsabilità penale, in Foro it., 2003, II, 324; GUARINIELLO R., Mesotelioma pleurico da amianto e colpa dei responsabili aziendali, in Foro it., 2010, II, 437; MASERA L., La malattia professionale e il diritto penale, in Dir. pen. cont., 11 novembre 2011; MASERA L., Danni da amianto e diritto penale, in Dir. pen. cont., 29 ottobre 2010; MASERA L., Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale, Giuffrè, 2007;PALAZZO F., Morti da amianto e colpa penale, in Dir. pen. proc., 2011, 185.
Avv. Marcello Oreste Di Giuseppe
Dottore di Ricerca Unifg