Tribunale di Rovereto (Ufficio del Giudice per le indagini Preliminari), sent. n. 1317 del 17.01.2013 (dep. 14.01.2015).
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Oggetto del provvedimento
Nel procedimento in esame, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Rovereto ha emesso sentenza di non luogo a procedere per il delitto di omicidio colposo contestato nei riguardi dei componenti del Consiglio di Amministrazione delle società R.R. Spa e R.I. Spa, imputati di aver cagionato con colpa la morte del lavoratore F.F., dipendente presso lo stabilimento di Rovereto, in quanto lo esponevano illecitamente a polveri di amianto che provocavano nello stesso l’insorgenza di un mesotelioma pleurico.
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Contenuto del provvedimento
Le imputazioni di omicidio colposo traevano origine dalle condotte degli imputati i quali, ad avviso dell’accusa, per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia, nonché nella violazione dell’art. 2087 c.c., delle disposizioni del Dpr n. 303/1956 (soprattutto dell’art. 21) e del Dpr n. 547/1955 (soprattutto dell’art. 4), cagionavano la morte di F.F., dipendente delle predette società. Le condotte erano, nello specifico, consistite nell’aver consentito che nello stabilimento venissero utilizzati materiali notoriamente pericolosi per la salute dei lavoratori quali, ad esempio, amianto e amiantite, e nell’avere omesso di prendere tutte le misure prevenzionali strutturali e organizzative, idonee ad impedire il diffondersi, nell’ambiente di lavoro, di polveri d’amianto prodotte dalle lavorazioni ivi seguite; i lavoratori, infatti, comunque esposti alle polveri d’amianto, non avevano dispositivi di protezione adeguati e idonei ad impedire l’inalazione delle relative fibre, tanto da agire nella quasi totale ignoranza dei rischi cui erano esposti.
Più nel dettaglio, in riferimento al dipendente da cui trae origine la contestazione, nel capo d’imputazione si faceva espresso riferimento non solo all’insorgenza della malattia, intesa quale effetto causato dall’esposizione illecita alle polveri d’amianto, ma anche al suo sviluppo e alla “riduzione progressiva del periodo di latenza della malattia”, con ciò ipotizzando che le singole condotte ascrivibili agli imputati avessero, in ogni caso, provocato, se non l’insorgere diretto della malattia, quantomeno un suo aggravamento in ordine al tempo della sua manifestazione.
Costituisce, in questo senso, principio condiviso che, in generale, l’evento a cui si tenta di ricondurre la condotta di un determinato soggetto, deve essere inteso quale evento verificatosi hic et nunc con la conseguenza che deve ritenersi causa della morte non solo quella che provoca direttamente l’insorgenza della malattia, ma anche quella che, determinando una significativa anticipazione dell’evento, in sostanza, ne cagiona un altro.
Nel caso di specie, in particolare, a fronte di un’esposizione complessiva dal 1953 al 1988, pari a quindi ben 35 anni, agli odierni imputati potevano, invero, essere ascritti periodi ben più limitati, pari a quasi sei anni per l’H., a poco più di 3 anni per D., a quasi 2 anni per S. e a solo un anno per M.
Si trattava, quindi, di stabilire se potesse essere seriamente prospettabile che l’evento morte, realizzatosi hic et nunc, si sarebbe verosimilmente posticipato, eliminando solo quei limitati periodi di esposizione per ciascun imputato, ferma restando la complessiva esposizione residua.
Il Giudice dell’udienza preliminare ha, tuttavia, ritenuto di dover dichiarare sentenza di non luogo a procedere nei riguardi degli amministratori, sul presupposto che il preteso effetto acceleratore delle esposizioni successive a quelle di inizio delle malattie è, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, ancora un dato non dimostrato in modo attendibile, non essendo, sul punto, peraltro, possibile utilizzare studi epidemiologici in quanto questi forniscono risultati discordanti e oggetto di contrastanti interpretazioni.
Più nel dettaglio, il Giudice dopo aver esposto quelli che costituiscono i punti non controversi in tema di mesotelioma pleurico – vale a dire la sicura correlazione causale tra tale malattia e l’esposizione alle polveri di amianto, ma anche la sua estrema rarità – si è soffermato ad analizzare il concetto di latenza, tentando di chiarire l’utilizzo che dello stesso si fa a livello scientifico.
Al di là del concetto puramente convenzionale di latenza – quello con cui, in generale, ci si riferisce al lasso di tempo intercorrente dalla prima esposizione al fattore di rischio alla effettiva manifestazione della malattia che dura dai 40 ai 50 anni – il processo di sviluppo della malattia può, infatti, essere suddiviso in due ulteriori fasi fondamentali, quella di induzione e quella di latenza propriamente detta (altrimenti detta fase pre-clinica); per cui, se durante la fase di induzione si innesca e si completa il processo di trasformazione cancerosa, con la fase della latenza propriamente detta ci si riferisce, invece, a quel lasso di tempo in cui il tumore, pur essendo ormai irreversibilmente venutosi a creare, è, però, ancora del tutto silente e invisibile all’uomo. Tali fasi non possono, tuttavia, essere temporalmente collocate perché, a livello scientifico, non si sa quando di preciso esse iniziano e/o quando finiscono, con l’ovvia conseguenza di non poter mai neppure sapere se si possano concepire come significative le esposizioni che intervengono prima o dopo il periodo di induzione, proprio (anche) perché quest’ultimo non è mai, per definizione, determinabile.
La mancanza di un’affidabile legge scientifica di copertura sul cd. effetto acceleratore – la cui dimostrazione deriverebbe da studi per lo più epidemiologici che hanno evidenziato una correlazione non solo tra dose e frequenza di malattia, ma anche tra durata di esposizione e frequenza di malattia – e le gravi lacune conoscitive della scienza su larga parte della patogenesi hanno, pertanto, precluso al Giudice l’impostazione stessa del giudizio controfattuale, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità.
Collegamenti con altre pronunce e dottrina:
In giurisprudenza, ex plurimis, si v. Cass. Pen., SS.UU, 11.09.2002 n° 30328, Franzese; Cass. pen., Sez. IV, 17.9.2010 n. 43786, Cozzini e altri; Trib. Torino, 13.02.2012 (nonché Corte d’Assise d’appello di Torino, 28.02.2013, imp. Schmidheiny e altri).
In dottrina, anche per altri riferimenti giurisprudenziali, per tutti, sulla causalità: con F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 1975; M. Donini, Il garantismo della c.s.q.n. e il prezzo del suo abbandono. Contributo all’analisi dei rapporti tra causalità tra causalità e imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, pp. 494 ss.; R. Blaiotta, Causalità giuridica, Giappichelli, Torino, 2010; M. Romano, F. D’Alessandro, NESSO CAUSALE ED ESPOSIZIONE AD AMIANTO Dall’incertezza scientifica a quella giudiziaria: per un auspicabile chiarimento delle Sezioni Unite, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2016, pp. 1129 e ss. Sull’amianto: S. Zirulia, Profili generali in materia di amianto e responsabilità penale, in Foffani-Castronuovo, (a cura di) , Diritto penale dell’economia, vol. II, Impresa e sicurezza (Porto Marghera, Eternit, Ilva, ThyssenKrupp), il Mulino, Bologna, 2015, pp. 73-106. Sulla prevedibilità in situazioni d’incertezza: D. Castronuovo, Principio di precauzione e diritto penale. Paradigmi dell’incertezza nella struttura del reato, Aracne, Roma, 2012, pp. 1-196; Per una rilettura aggiornata in tema di responsabilità penale e sicurezza del lavoro: D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre, V. Valentini, Diritto Penale della sicurezza sul lavoro, BUP, Bologna, 2016, pp. 1-304.
Dott.ssa Maria Federica Carriero,
dottoranda di ricerca in diritto penale nell’Università di Modena e Reggio Emilia.