Corte di Cassazione, Sez.III, 6 novembre 2014, n.52029
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Oggetto del provvedimento
Con il provvedimento in esame, la Corte di Cassazione annullava senza rinvio la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano condannava V.M. per il delitto di cui all’art. 517 cod. pen. (in relazione all’art. 4, comma 49, della legge n.350 del 2003), per avere importato un numero rilevante di portafogli prodotti in Cina e riportanti il marchio “La Gamma Italy”; circostanza che, nel caso di specie, è stata ritenuta idonea a trarre in inganno i consumatori rispetto alla reale origine degli oggetti in questione. Ma la Suprema Corte, pur confermando la decettività dell’etichetta riportante il segno “italian sounding”, riteneva il fatto rientrante nell’illecito amministrativo di cui all’art. 4, comma 49 bis della legge n. 350/2003, specificando che l’importatore non aveva apposto sui portafogli alcuna etichetta fallace, bensì semplicemente un’etichetta raffigurante il proprio marchio.
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Contenuto del provvedimento
V.M., in qualità di legale rappresentate della ALMA 80 s.r.l., proponeva appello avverso la sentenza emessa della Corte d’appello di Milano il 4 luglio 2013 e depositata l’8 agosto 2013, con la quale era stato condannato per il delitto di cui all’art. 517 del codice penale, in relazione all’art. 4, comma 49 della legge n. 350/2003, per aver apposto su diversi portafogli prodotti in Cina il logo “La Gamma Italy”, marchio di proprietà della stessa “ALMA 80” e considerato ingannevole per i consumatori rispetto all’origine italiana dei prodotti importati.
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La Suprema Corte di Cassazione annullava senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello sulla base di una sostanziale omogeneità dei profili di doglianza sollevati.
Con il primo motivo, la difesa dell’imputato deduceva l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 4, comma 49, della citata legge, non avendo V.M. apposto sui prodotti importati alcuna dicitura con cui si attestava l’origine italiana; con il secondo motivo il ricorrente sosteneva che la marcatura in esame non potesse definirsi ingannevole, proponendo, perciò, di ridefinire la rilevanza penale del fatto contestato qualificandolo come mero illecito amministrativo (quello previsto dal comma 49 dell’art. 4).
Al fine di chiarire la magmatica e complessa disciplina del “Made in Italy”, la Cassazione riteneva, nel provvedimento al vaglio, di richiamare brevemente la normativa in materia e individuava le differenti condotte punibili e le conseguenti sanzioni applicabili.
In proposito, la Suprema Corte esaminava la disciplina introdotta dalla Legge finanziaria 2004 (L. 24 dicembre 2003 n. 350), che all’art. 4 comma 49 prevede che “l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine” costituisce reato, punito ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. La norma definisce come “falsa indicazione” la stampigliatura “Made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine dei prodotti; mentre costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana (incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis).
A sua volta, il comma 49 bis dell’art. 4 , introdotto dal comma 6 dell’art. 16 del D.L. n. 135/2009, sanziona espressamente, in via amministrativa, la fallace indicazione dell’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce siano di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.
Ad avviso della Corte, quest’ultima fattispecie, punita con una sanzione amministrativa (in ragione della minor gravità del reato), consiste in un’ipotesi speciale di fallace indicazione dell’origine, diretta all’inganno del consumatore sull’origine o la provenienza dei prodotti commercializzati, attraverso l’uso decettivo del proprio marchio.
Orbene, dal combinato disposto di tali commi discende, da un lato, l’intervenuta depenalizzazione dell’uso dei marchi Italian sounding su prodotti privi dell’origine italiana; dall’altro, la permanente rilevanza penale dell’uso indebito dell’indicazione “Made in Italy” per prodotti non interamente disegnati, progettati, lavorati e confezionati in Italia che risultino indebitamente contrassegnati con un’ etichetta simile a “100% Made in Italy”, “100% Italia”, “Tutto italiano”, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione che il prodotto sia stato completamente realizzato in Italia, ovvero mediante l’uso fuorviante di segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione in relazione a prodotti che non siano stati effettivamente realizzati in Italia, dovendosi intendere per tali quelli per i quali il disegno, la progettazione, la lavorazione e il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio nazionale.
Ciò premesso, nel caso in esame, la Suprema Corte riconosceva bensì il carattere decettivo dell’etichetta dei prodotti sequestrati provenienti dalla Cina, riportanti il logo “La Gamma Italy”, idoneo a trarre in inganno il consumatore sull’effettiva origine e in assenza di altre specifiche indicazioni del luogo di fabbricazione degli oggetti prodotti all’estero.
Relativamente invece alla seconda eccezione sollevata dal ricorrente, gli Ermellini convenivano che non ricorressero le condizioni per ritenere sussistente l’illecito penale (né quello di cui all’art.517 c.p., né quello di cui all’art. 4 comma 49), non avendo l’importatore apposto alcuna etichetta di provenienza fallace, ossia recante falsamente una determinata origine, ma solo un’etichetta raffigurante il proprio marchio e dunque configurante l’illecito amministrativo di cui all’art. 4, comma 49-bis, l. n. 350/2003.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, offriva poi chiarimenti specifici sul sottile discrimine esistente tra l’ipotesi depenalizzata della fallace indicazione e la condotta fallace idonea ad essere sanzionata penalmente in base all’art. 4, comma 49 della legge n. 350 del 2003.
A tal fine, veniva richiamato l’impianto argomentativo di una decisione della stessa sezione (Cass.pen, Sez.3, 5 febbraio 2014, n. 21256) con cui si confermava la sanzione penale ad un imprenditore che aveva presentato alla dogana diversi stendibiancheria d’origine cinese recanti sulla confezione la bandiera nazionale ed indicazioni esclusivamente in lingua italiana, in aggiunta alla dicitura “prodotto di qualità testato a norma Europea”: in tal modo, il soggetto aveva utilizzato indicazioni false e fuorvianti. Diversamente, nel caso sottoposto alla nostra attenzione, l’importatore non aveva apposto un segno decettivo, ma il prodotto commercializzato, a causa dell’insufficiente ed imprecisa indicazione di provenienza – in altri termini, a causa dell’assenza di indicazioni sull’origine dei prodotti – era comunque idoneo ad indurre in errore il consumatore sull’effettiva origine dei prodotti, fattispecie dunque rientrante nella previsione dell’art.4 comma 49 bis, della legge n. 350/2003.
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Collegamenti con altre pronunce:
In senso conforme, sulla decriminalizzazione delle fallaci indicazioni dell’origine italiana operata dall’art.16 del D.L. n. 135/2009, vd. anche Cass. Pen., Sez. III, n.30499, 2016.
Francesca Castellini,
Università di Modena e Reggio Emilia