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GUP Siena, sentenza n. 16/18, 25.06.2018

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Oggetto del provvedimento

La sentenza in segnalazione, conclusiva di un complesso procedimento relativo al fallimento di una società professionistica di Basket, M.S., affronta numerose questioni di interesse in materia di bancarotta, false comunicazioni sociali e, soprattutto, reati tributari.

Tuttavia, la questione che pare più meritevole di approfondimento – su un terreno di confine tra “processuale” e “sostanziale” – è relativa alla applicabilità del rito di cui all’art. 444 c.p.p. a fronte della preclusione prevista dall’art. 13 bis comma 2 d.lgs. 74/2000, nei casi in cui, prima dell’apertura del dibattimento, i debiti tributari (compresi sanzioni amministrative ed interessi) non siano stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti ai sensi del comma 1 del medesimo articolo.

Il tema è stato approfonditamente esaminato dal GUP a seguito di una articolata eccezione di legittimità costituzionale delle norme richiamate da parte dei difensori di alcuni imputati.

Proprio per la speciale suggestività degli argomenti utilizzati dalle parti, alla questione verrà dedicata particolare attenzione.

Prima, però, conviene fornire un sintetico affresco generale del quadro accusatorio e della decisione del GUP.

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Contenuto del provvedimento

1) Il procedimento è scaturito da una segnalazione dell’Agenzia delle Entrate, secondo la quale la società M.S., al fine di ridurre l’impatto fiscale sui compensi degli atleti, erogava parte degli emolumenti tramite l’interposizione di società di comodo a titolo di sfruttamento del diritto di immagine: il giocatore cedeva tale diritto a una società terza che lo cedeva a sua volta a M.S., la quale si procurava così il titolo per il versamento di corrispettivi sui conti della società licenziataria.

Tali corrispettivi, secondo quanto accertato dall’Agenzia delle Entrate e poi condiviso dal GUP, erano in realtà destinati ai cestisti per l’attività agonistica.

Le condotte, portate avanti per lungo tempo dagli imputati, erano volte al perseguimento principalmente di due finalità: il primo obiettivo era quello di dotare M.S. di fondi neri, il secondo quello di occultare al fisco parte dei corrispettivi dovuti ai cestisti.

Per il raggiungimento di tali scopi venivano approntati due meccanismi:

il primo, basato sulla emissione di fatture per operazioni inesistenti tra la M.S., la società E. P. e le società C.V. (prima) e C. (poi) per notevolissimi volumi di affari, del tutto incoerenti con la struttura societaria delle due “cartiere”;

il secondo, basato sulla interposizione fittizia della società E.P. nei rapporti con i cestisti quanto allo sfruttamento del loro diritto all’immagine.

Proprio lo schema della triangolazione delle fatture ha indotto il P.M. alla contestazione del reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), ritenuto poi accertato in primo grado dal GUP di Siena.

In base a quanto ricostruito in sede di motivazione dal Giudice, infatti, è emerso che al fine di creare riserve occulte (molto capienti), la società cestistica M.S. stipulava contratti triennali (di volta in volta rinnovati) per operazioni inesistenti con la società E. P. di S.S., e che quest’ultima società, a sua volta, stipulava un contratto per le medesime operazioni con la società C.V.

Attraverso questa modalità attuativa, dunque, la società M.S. versava ingenti quantità di denaro tramite bonifico alla società E.P., la quale, dopo aver emesso fattura, con identica operazione, versava le somme alla società C.V (poi, dal 2008, C.) che, dopo averle fatturate, liquidava gli importi resi disponibili dalla sovrafatturazione e destinati alla amministrazione della società cestistica.

Sul punto, è interessante notare come la sentenza oggetto del presente commento, richiamando un orientamento granitico della Suprema Corte (si veda la recente Cass. Pen. n. 14815, ud. 30.11.16), abbia ritenuto colpevoli del reato di cui all’art. 2 D.lgs. 74/00 non solo i componenti del C.d.A. della società M.S. ma, in concorso, anche i soggetti che hanno partecipato a creare il meccanismo fraudolento.

Quanto alle fatture per operazioni inesistenti relative al diritto all’immagine degli atleti, in ragione delle quali sono stati contestati (in concorso tra loro) a S.S. quale legale rappresentante della E.P., a L.N., quale socio della medesima società e T.A., quale commercialista della società, i reati di cui all’art. 2 e 8 d.lgs. 74/2000, (atteso che la cessione di tali diritti assume per effetto del disposto dell’art. 3 della legge 91/81 la veste di redditi da lavoro dipendente, con la conseguenza che la società sportiva diviene sostituto d’imposta), il GUP ha ritenuto accertata la sottrazione di una parte del corrispettivo per le prestazioni sportive all’imposizione fiscale.

Al riguardo, in motivazione, si dà conto del fatto che, avendo la società M.S. interesse a non far risultare parte degli emolumenti come compensi da lavoro subordinato (l’anticipazione dei quali sarebbe rimasta definitivamente a suo carico, per via di accordi interni con gli atleti), essa adottava il seguente schema: al momento della contrattualizzazione del cestista, si accordava con questo perché cedesse il diritto all’immagine a una società terza che poi, a sua volta, cedeva il diritto a M.S.

Tra i reati tributari contestati agli imputati vi è anche, in concorso con gli atleti (giudicati separatamente), l’omessa dichiarazione ex art. 5 d.lgs. 74/2000. In proposito, va evidenziato il richiamo da parte della sentenza alla giurisprudenza della Cassazione per la quale tale reato, pur da considerare proprio, possa essere ascritto, a titolo di concorso morale, anche ad altri soggetti per condotte antecedenti e preparatorie all’omissione della dichiarazione (Cass. 43809, 24.10.14).

In questo senso, il GUP di Siena ha ritenuto che la stipulazione con i cestisti del cosiddetto “contratto quadro”, in base al quale la maggior parte dell’ingaggio veniva sottratta all’imposizione fiscale, desse prova di tale tipologia di concorso.

La vicenda, come detto nata dagli accertamenti tributari, si è allargata anche a contestazioni di tipo penale fallimentare a seguito del fallimento di M.S., dichiarato nel 2014 dal Tribunale di Siena, che ha rilevato lo stato d’insolvenza conclamato ed irreversibile della società.

Ne sono seguite diverse contestazioni di bancarotta documentale, bancarotta patrimoniale fraudolenta e accesso abusivo al credito.

Questioni meritevoli di segnalazione sono emerse soprattutto rispetto a quest’ultimo profilo accusatorio.

Infatti, relativamente all’accesso abusivo al credito, il Giudice ha ritenuto che la simulata cessione del marchio abbia consentito alla società B.M. di ricevere un finanziamento di otto milioni dalla banca M.P.S. (nel 2007 lo stesso marchio veniva valutato un milione), con un periodo di ammortamento sovrapponibile (in termini di durata) al contestuale contratto stipulato tra la società di S.S. e la M.S. con il quale la società cessionaria conferiva l’uso del marchio alla cedente, retrocedendo nella sostanza la gestione dell’azienda dalla società B.M. a quella M.S.

L’operazione, dunque, consentiva alla M.S. di finanziarsi con danaro della banca tramite interposizione della società B.M.

In effetti, data la situazione di grave insolvenza in cui la società cestistica versava, la sentenza rileva che fu soltanto in virtù dei proventi derivanti dalla cessione che la M.S. nel bilancio dell’anno 2011/2012 poté registrare un utile (seppur di modesta entità), quando solo l’anno prima il medesimo si era chiuso con una significativa perdita, per di più poi ulteriormente incrementata fino all’operazione di cessione del marchio.

Tuttavia, ai sensi dell’art. 218 L.F. il delitto di accesso abusivo al credito è punibile allorché non soltanto l’autore abbia la consapevolezza che l’impresa versa in una situazione di insolvenza (elemento soggettivo che il Giudice ha ritenuto accertato nei confronti del finto cessionario S.S.) ma che la stessa non sia nota al contraente.

Proprio quest’ultimo indefettibile requisito, la cui sussistenza non è stata ritenuta provata, pare aver spinto il Gup a respingere tale contestazione e a ritenere ravvisabile, invece, la diversa fattispecie di cui all’art. 223 co. 2 n. 2 L.F., a norma della quale, come noto, sono puniti gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite che hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.

Tuttavia, mentre il Giudice ha ritenuto evidente l’elemento oggettivo del reato, posto l’appesantimento dell’indebitamento dovuto alla concessione in uso del marchio, non ha invece ravvisato la prova dell’elemento soggettivo a carico del legale rappresentante di B. M.

Una modifica dell’imputazione (dall’art. 218, accesso abusivo al credito, al 223 l. fall.) dunque, sarebbe risultata superflua posto che, per la configurabilità del reato in questione, si sarebbe dovuta acquisire la prova che il legale rappresentante avesse consapevolezza delle condizioni economiche di M.S.

Sotto questo profilo in diritto appare significativo il richiamo alla giurisprudenza di legittimità che vede nella fattispecie una eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, richiedendo che nell’agente vi sia non solo la consapevolezza e volontà dell’operazione dolosa ma anche l’astratta prevedibilità dell’insolvenza quale effetto dell’operazione (Cass. n. 46689 del 30.06.2016; Conf. Cass. n. 45672 del 01.10.2015).

2) Nel corso dell’udienza preliminare il GUP ha dichiarato con ordinanza l’inammissibilità delle richieste di applicazione pena avanzate da alcuni imputati in forza della preclusione di cui all’art. 13 bis comma 2 del D.lgs. 74/00.

Le difese di M.F., Presidente e Direttore Generale della società M.S., F.O., segretaria della società, L.C., Presidente della M.S. negli anni 2012-2014, M.J., direttore sportivo della M.S., hanno quindi sollevato un’articolata eccezione di legittimità costituzionale di detta norma, che la sentenza ha affrontato finendo per dichiararne la manifesta infondatezza.

Trattasi di questione particolarmente delicata, già oggetto di pronunce di giurisprudenza di merito e di legittimità, nonché di una pronuncia della stessa Corte Costituzionale (Sent., (ud. 14-05-2015) 28-05-2015, n. 95) dalla quale il GUP di Siena ha attinto molte motivazioni.

Come noto, ai sensi dell’art. 13 bis comma 2, le parti possono richiedere il patteggiamento ex art. 444 c.p.p. solo in caso della ricorrenza della circostanza di cui al comma 1 e cioè quando, prima dell’apertura del dibattimento, i debiti tributari siano stati estinti.

La prima deduzione delle difese è stata che la preclusione presuppone la coincidenza tra imputato e soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, di talché quando, come nella fattispecie in esame, l’obbligo tributario inadempiuto riguardi un terzo (qui la persona giuridica fallita M.S. s.r.l.) non vi possa essere alcuno ostacolo alla facoltà di richiedere l’applicazione del rito alternativo ex art. 444 c.p.p.

La riflessione del GUP prende le mosse dalla pacifica natura soggettiva dell’attenuante del risarcimento del danno di cui all’ art. 62 n. 6 c.p. (secondo quanto precisato anche da Cass. Sez. Un. 5941/2009) e dal rapporto di specialità di cui all’art. 13 bis comma 2 rispetto a tale norma.

Sul punto, peraltro, viene notato come la Cassazione (con sentenza n. 227 del 10.03.2017) abbia affermato che la circostanza attenuante speciale di cui all’art. 13 bis non si estende ai concorrenti nel caso questi ultimi non abbiano manifestato una tempestiva volontà riparatoria consistente nell’adempimento anche parziale del debito tributario; con una differenza evidente rispetto al regime civilistico delle obbligazioni solidali passive laddove l’adempimento di uno dei condebitori libera anche i suoi sodali.

Ragionando a contrario, anche il concorrente che non può essere qualificato come obbligato principale del debito tributario può avvalersi dell’attenuante principale soggettiva estinguendo il debito.

Questa interpretazione, come ricordato dalla sentenza in commento, è stata già ritenuta valida dalla Corte Costituzionale che, chiamata a decidere della legittimità dell’art. 13 comma 2 bis (oggi sostituito dal 13 bis comma 2), per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., ha riconosciuto la rilevanza della questione e quindi implicitamente l’applicabilità della preclusione anche ai soggetti diversi dalla ditta individuale e dai legali rappresentanti di società obbligate che ne avevano fatto richiesta. Nel merito, la questione è stata ritenuta infondata (Corte Cost., Sent., (ud. 14-05-2015) 28-05-2015, n. 95).

In particolare, il GUP ripercorre – condividendolo a pieno – il ragionamento della Corte Costituzionale che, in ordine al diverso trattamento che subirebbero imputati con differente “forza economica”, ha rilevato come qualsiasi norma imponente un onere patrimoniale ponga il tema della differente capacità economica degli imputati.

Ciò non vuol dire però, a giudizio della Consulta, che per questo fatto solo vi sia una pregiudiziale di illegittimità.

A tali fini occorre dimostrare da un lato che risulti compromesso l’esercizio di un diritto garantito dalla Costituzione a tutti paritariamente, dall’altro che gli oneri patrimoniali imposti non siano giustificati da ragioni oggettive, così da causare situazioni irragionevoli di vantaggio o svantaggio come la stessa Corte afferma sin dalla sentenza n. 49 del 1975.

La violazione dell’art. 24 Cost. è stata già esclusa dalla Corte in quanto il diritto al patteggiamento non condiziona in alcun modo un’efficace tutela della posizione dell’imputato.

Infatti, il patteggiamento è escluso per un certo numero di reati secondo le condizioni oggettive di fruibilità e secondo alcuni profili di competenza funzionale.

In particolare, anche il risarcimento del danno (art. 62 n. 6 c.p.) può condizionare detta fruibilità quando serva a far scendere la pena sotto i limiti previsti per l’accesso al patteggiamento.

Al contrario non vi è dubbio che anche la circostanza del risarcimento dei danni può essere del tutto irrilevante ai fini del patteggiamento quando essa non incida in maniera sufficiente a far scendere la pena sotto il limite di fruibilità.

Sotto il profilo dell’art. 3 Cost., la Corte ha affermato che l’interesse pubblico e collettivo all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, attraverso il ravvedimento operoso o l’adempimento del debito tributario, si coniuga con il riconoscimento del valore positivo del comportamento dell’imputato, rispondendo quindi al criterio della ragionevolezza.

Il GUP, infine, osserva come la fattispecie esaminata diventi un caso emblematico del fatto che soggetti diversi dal contribuente abbiano goduto delle risorse economiche derivanti dal reato, le abbiano gestite e abbiano reso possibile l’evasione con i loro comportamenti.

La preclusione non sarebbe quindi arbitraria.

Tuttavia, forse gli elementi di maggiore novità contenuti nell’ordinanza sono quelli relativi alla demolizione del ragionamento difensivo in ordine alla inesistenza di un obbligo di adempimento a carico dei concorrenti diversi dal contribuente che ha firmato la dichiarazione.

Sul punto, il GUP fa leva su un consolidato orientamento giurisprudenziale per cui è ammissibile la costituzione di p.c. dell’Agenzia delle Entrate nei confronti dell’imputato non contribuente al fine di ottenere il pagamento dell’imposta evasa a titolo di risarcimento del danno (Cassazione n. 35729 del 2013).

Per altro verso, a giudizio del GUP appare suggestiva ma infondata l’affermazione per cui l’imputato non contribuente subirebbe irragionevoli effetti negativi dell’inadempimento altrui non essendo egli nella posizione di poter estinguere il debito.

L’argomento, già stato posto a fondamento del giudice remittente nel caso di Corte Cost. 95/2015 che, però, non l’aveva poi sviluppato, si baserebbe su un presupposto errato poiché l’articolo 8 dello Statuto del Contribuente ammette espressamente l’istituto dell’accollo non liberatorio del debito d’imposta, consentendo al terzo di obbligarsi al pagamento in solido con il contribuente e, più in generale, è in ogni caso ipotizzabile l’adempimento del terzo secondo principi generali civilistici a meno che non sia l’Ente a non consentirlo.

La conclusione è che l’attenuante e l’accesso al rito non dipendono solo dal fatto del contribuente, come invece sostenuto dalla difesa.

D’altro canto, il concorrente non contribuente è terzo rispetto all’obbligazione civilistica ma non lo è affatto in termini di illecito in quanto concorre con il contribuente su un piano di totale parità.

Infine, nessun profilo di incostituzionalità può essere individuato nella mancanza di un accertamento definitivo dell’ente impositore sul debito tributario come già precisato dalla giurisprudenza (Cass. 38210 del 18/05/2017) in quanto, in ordine all’accertamento sull’ammontare dell’imposta evasa e quindi della relativa obbligazione tributaria, la competenza esclusiva è del giudice penale, conseguendo a ciò la piena espansione dei poteri difensivi delle parti nel corso del procedimento ai fini della determinazione dell’ammontare.

La sentenza, dunque, arricchisce di nuove argomentazioni un tema più volte sondato dalla giurisprudenza e che ancora oggi alimenta il dibattito come dimostrato dalla recentissima sentenza della Cassazione 38684/2018 che ha ritenuto legittimo l’esercizio della facoltà di chiedere il patteggiamento, nonostante la preclusione nei casi degli artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater del D. lgs. 74/00.

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Collegamenti con altre pronunce

Sul concorso dei soggetti privi di cariche sociali nel delitto di Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (ex art. 2 D.lgs. 74/00) si veda Cass. n. 14815, ud 30.11.2016 nonché Cass. pen. Sez. III Sent., 30/11/2016, n. 14815, sin da Cass., sez. III pen. 12 luglio 2001, n. 28341.

Sulla configurabilità del concorso esclusivamente morale e non materiale nel reato proprio di omessa dichiarazione (ex art. 5 d.lgs. 74/00) si veda Cass. 43809 24.10.2014, nonché per ampi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali si veda Venturato B., Omessa dichiarazione- note in tema di estero vestizione e concorso eventuale in reato omissivo proprio, in Giurisprudenza Italiana, n. 4, 2016, pp. 971 ss.

Sull’art. 13 bis comma 2 diversi sono i profili di interesse per la giurisprudenza, non solo quella costituzionale. Oltre alla sentenza n. 95/2015 Corte Cost., sullo specifico tema trattato appaiono rilevanti Cassazione penale, Sez. III, sentenza 6 febbraio 2018, n. 5448 in cui chiaramente si corregge l’interpretazione fornita di detta norma dall’ Agenzia delle Entrate in Telefisco 2018 che aveva sostanzialmente affermato l’esclusione del ravvedimento operoso per i costi derivanti dalle operazioni inesistenti nonché la recentissima Cass. 38684/2018 secondo la quale: La previsione normativa che subordina l’applicazione del patteggiamento al pagamento del debito tributario (art. 13 bis comma 2 del D.lgs. 74/200) non si applica alle fattispecie di omesso versamento delle ritenute, dell’Iva e di indebita compensazione con crediti non spettanti, dal momento che, per esse, l’eventuale pagamento nei termini previsti vale come causa di non punibilità. Rappresentando il pagamento del debito tributario, entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, causa di non punibilità dei reati anzidetti, lo stesso non può logicamente, al contempo, per queste stesse ipotesi, costituire presupposto di legittimità del patteggiamento; perché questo, fisiologicamente, non potrebbe riguardare reati non più punibili.

Dott.ssa Mariaelena Atzori


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