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Triunale di Bologna in composizione collegiale, sent. 10 luglio 2018 n. 3425

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Oggetto del provvedimento

Nel procedimento oggetto della sentenza in commento il Tribunale di Bologna è chiamato a pronunciarsi in ordine al reato di induzione indebita a dare o promettere utilità (319quater c.p.) commesso nel contesto di una ispezione ordinata dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nei confronti di una Società, partecipata pubblica – controllante ed a capo di un gruppo societario – e di un’altra Società – controllata, facente parte del medesimo gruppo.

L’ispezione aveva ad oggetto l’attività contrattuale svolta dalle due Società nell’ambito della gestione del servizio integrato dei rifiuti; il procedimento vedeva imputati uno degli ispettori ANAC che aveva condotto le verifiche ed il Responsabile della Direzione Acquisti e Appalti della controllante, nonché procuratore speciale della controllata: secondo quanto si legge nel capo di imputazione, approfittando dei contatti intervenuti nell’ambito dell’ispezione, l’Ispettore avrebbe sollecitato il Responsabile della Direzione Acquisti ed Appalti a favorire l’assunzione del figlio presso la Società mediante lo svolgimento di uno stage (stage, poi, effettivamente svolto).

Lo stesso procedimento vedeva, inoltre, imputate le due Società per l’illecito amministrativo di cui all’art 25 d. lgs. 231/2001 in relazione al reato di cui all’art. 319quater c.p. commesso da un soggetto appartenente al proprio organico (il Responsabile Acquisti ed Appalti), individuando nel condizionamento degli esiti ispettivi l’indebito vantaggio perseguito dagli Enti attraverso la condotta del proprio dipendente.

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Contenuto del provvedimento

Come già anticipato, l’imputazione traeva origine da una visita ispettiva che ANAC aveva disposto nei confronti delle due Società riguardante la contrattualistica relativa all’attività di gestione dei rifiuti e, nella specie, le modalità di svolgimento delle procedure ad evidenza pubblica: la visita ispettiva veniva condotta nel novembre 2015 da uno dei due imputati unitamente ad un proprio collega e ad alcuni militari della Guardia di Finanza.

In particolare, la contestazione del reato di induzione indebita nasceva dai contatti telefonici intercorsi (ed intercettati) tra i due imputati a seguito della visita ispettiva: nel corso di tali conversazioni, l’Ispettore “segnalava” al Responsabile Acquisti e Appalti l’invio del curriculum alla Società da parte del figlio per lo svolgimento di uno stage; successivamente si informava più volte sulla sorte del curriculum e se lo stesso fosse stato preso in considerazione.

Contestualmente, il Responsabile Acquisti e Appalti prendeva contatti con l’Area Sviluppo e Formazione per informarsi se il curriculum fosse effettivamente pervenuto per poi riferire le evoluzioni all’Ispettore.

Alcuni mesi dopo il figlio dell’Ispettore otteneva effettivamente lo svolgimento di uno stage retribuito nella Società: nella motivazione della sentenza ci si sofferma particolarmente sulla singolarità del suo curriculum – laurea in scienze della comunicazione e corsi post-laurea attinenti a svariate discipline – rispetto a quelli di altri candidati allo svolgimento dello stage ben più meritevoli e coerenti al ruolo da ricoprire rispetto al suo.

L’assegnazione del posto di lavoro sarebbe stata determinata, oltre che dalle pressioni esercitate dall’Ispettore, dalla prospettazione vantaggiosa di “mitigare” eventuali esiti negativi degli accertamenti ispettivi; come si avrà modo di chiarire nel prosieguo, dai controlli sarebbe poi emerso che le due Società ricorrevano (irregolarmente) ad un uso massiccio delle procedure non ad evidenza pubblica per l’affidamento di appalti; quindi, secondo il Tribunale, il Responsabile Acquisti e Appalti, consapevole di tale situazione,“nutriva quindi il timore che nel corso dell’ispezione venissero accertate gravi irregolarità con quanto ne sarebbe conseguito in danno sia dell’Ente di appartenenza sia anche a titolo personale. (pag. 7) ed avrebbe, pertanto, ceduto alle richieste dell’Ispettore.

Sulla base di una serie di elementi – intercettazioni delle telefonate intercorse tra i due imputati; interesse manifestato dal Responsabile Direzione Acquisti per la sorte del curriculum inviato dal figlio dell’Ispettore; profilo curriculare di quest’ultimo, definito “modesto” rispetto a quello di altri candidati; ottenimento dello stage da parte del medesimo con modalità “peculiari (“deve quindi concludersi che P.A. è stato selezionato ‘fuori sacco’, mediante l’artificiosa creazione di un bisogno aziendale ritagliato proprio sulla base del titolo posseduto”, pag. 11)” – il Tribunale di Bologna giungeva, quindi, a ritenere integrata la fattispecie di cui all’art. 319quater c.p. e condannava entrambi gli imputati.

Tralasciando le considerazioni in ordine alla configurazione del reato di induzione indebita, in questa sede ci si vuole soffermare sulla responsabilità amministrativa delle Società.

Il caso in esame presenta numerosi spunti di riflessione, a partire dalla circostanza che venga mossa la medesima contestazione a due Società, seppur facenti parte di un medesimo gruppo.

Come noto, nel D. Lgs. 231/2001 non si rinviene una disciplina specificamente dedicata ai gruppi societari, e tale silenzio normativo è sempre stato percepito in maniera significativa nel nostro ordinamento, soprattutto in relazione ad un contesto quale quello italiano, ove i soggetti principali operanti sono le piccole-medie imprese che tendono a ricorrere a tale forma di organizzazione per far fronte alle dinamiche del mercato.

I quesiti che si pongono riguardano principalmente l’ammissibilità dell’estensione della responsabilità amministrativa all’interno di un gruppo societario e come ciò possa avvenire in ossequio ai criteri di ascrizione della responsabilità delineati dal Decreto 231.

A titolo di esempio, ci si è interrogati se, nel caso in cui l’autore del reato presupposto sia dipendente di una controllata, possa essere considerato legato funzionalmente anche alla controllante e la responsabilità possa, quindi, essere estesa anche a quest’ultima[1]; oppure, se sia concepibile estendere l’interesse o vantaggio perseguiti da una controllata nella commissione del reato ad una controllante sul presupposto dell’unitarietà economico-funzionale e se, su tale presupposto, possa parlarsi di “interesse di gruppo”[2]; ancora, ci si può interrogare se, in virtù dell’adozione di un unico Modello, il concetto di “colpa di organizzazione” possa essere esteso all’intero gruppo.

In altre parole, ciò che si vuole evitare è che le dinamiche proprie dei gruppi societari comportino illegittime estensioni di responsabilità fra le Società e, nel tempo, il silenzio normativo del Decreto è stato colmato mediante il raggiungimento di taluni punti fermi – soprattutto dalla Giurisprudenza di legittimità[3] – che si sostanziano nella necessità di evitare presunzioni di responsabilità per la sola appartenenza ad un gruppo di imprese e, pertanto, di verificare effettivamente la sussistenza dei criteri di cui all’articolo 5 indagando approfonditamente sui legami intercorrenti tra le imprese.

Tuttavia, la vicenda di cui ci si occupa non presta il fianco ai rischi poc’anzi prospettati per una serie di ragioni: anzitutto, l’autore del reato era funzionalmente legato ad entrambe le Società, in quanto Responsabile della Direzione Acquisti ed Appalti della controllante e procuratore speciale della controllata; inoltre, si evince dal testo del provvedimento che entrambe le Società gestivano il servizio integrato dei rifiuti e che, ad esito degli accertamenti ispettivi, venivano rilevati profili di criticità nell’operato di entrambe: appare, pertanto, corretto identificare il medesimo interesse perseguito da ambedue le Società – controllante e controllata – mediante la commissione del reato, che il Tribunale di Bologna individuava nel condizionamento degli esiti dell’ispezione (“il reato è stato commesso nel precipuo interesse dei due Enti visto che la finalità sarebbe stata quella di influenzare gli accertamenti ispettivi”, pag. 13); appare, quindi, parimenti corretto che le Società venissero tratte a giudizio con il medesimo capo di imputazione.

Vale, inoltre, la pena richiamare gli sviluppi della vicenda a seguito dell’ispezione, poichè pochi mesi dopo l’Ispettore ANAC imputato veniva escluso dal gruppo di controllo, e la stessa ispezione si concludeva con l’accertamento di gravi irregolarità da parte delle due Società.

Alla luce dei suddetti sviluppi il requisito di interesse o vantaggio richiesto dall’art. 5 del Decreto per la configurazione dell’illecito poteva apparire dai contorni più indistinti, tuttavia il Tribunale di Bologna chiariva l’irrilevanza di tale aspetto: – “non può attribuirsi la minima rilevanza al fatto che l’ispezione si sia conclusa con l’accertamento di gravi irregolarità in danno di H. e della controllata He. In primo luogo perché la spinta di natura utilitaristica che ha motivato l’agire del R. deve essere valutata ex ante e, cioè, al momento dell’avvio della ispezione, quando è stato di fatto concluso l’illecito accordo negoziale. In secondo luogo perché, trascorso poco più di un mese, il P. è stato escluso dal gruppo ispettivo a seguito di trasferimento (casuale o “mirato”) a diverso incarico” (pag. 13).

Il Tribunale riteneva, quindi, pienamente integrato anche l’illecito amministrativo nelle sue componenti essenziali – commissione del reato presupposto; nell’interesse dell’Ente; da parte di un soggetto appartenente al proprio organico – e, sul presupposto dell’inquadramento del Responsabile Acquisti e Appalti come soggetto apicale in quanto direttore di una unità organizzativa, procedeva, quindi, ad esaminare la possibile sussistenza della causa di esclusione della punibilità di cui all’art 6 del D. Lgs. 231/2001.

Giova, sul punto, richiamare brevemente la disciplina di esclusione della punibilità dell’ente da responsabilità amministrativa: essa è contenuta negli artt. 6 e 7 del D. Lgs. 231/2001 che regolano, rispettivamente, i casi in cui il reato presupposto sia commesso da un soggetto che riveste un ruolo apicale – definito dall’art. 5, c. 1, lett. a) D. Lgs.231/2001 come persona che riveste funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’Ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché persona che esercita, anche di fatto, la gestione o il controllo dello stesso – rispetto ad un soggetto che riveste un ruolo subordinato – definito dall’art. 5, c. 1, lett. b) come persona sottoposta alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti di cui all’art. 5, c. 1, lett. a)-.

La collocazione in due norme distinte trova ragion d’essere nella diversità della disciplina che regola i due casi: infatti, sul presupposto che nel caso di commissione del reato da parte di un soggetto avente ruolo apicale il rapporto di immedesimazione organica con l’Ente debba ritenersi più pregnante, l’area di non punibilità si restringe sensibilmente e l’onere probatorio diviene per l’Ente significativamente più gravoso.

Viene, infatti, previsto all’art. 6 che, in caso di commissione del reato da parte di un soggetto avente ruolo apicale, l’Ente, per andare esente da responsabilità, debba provare: a) di aver adottato ed efficacemente attuato un Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) di aver affidato a un organismo indipendente il compito di vigilare sull’osservanza del Modello e di curarne l’aggiornamento; c) che la commissione del reato sia avvenuta mediante l’elusione fraudolenta delle regole del Modello.

In altre parole, l’Ente dovrà provare di aver adottato tutte le misure organizzative possibili per escludere o, quanto meno, minimizzare la commissione di reati nello svolgimento della propria attività: in tal modo non sarà riconducibile ad esso alcuna “colpa di organizzazione”.

La “colpa di organizzazione” può definirsi come un istituto giuridico concepito con specifico riguardo al sistema della responsabilità amministrativa degli enti al fine di renderlo conforme al principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost.; difatti, è del tutto evidente come l’atteggiamento giuridico soggettivo di “colpevolezza”, proprio della responsabilità penale delle persone fisiche, non possa essere attribuito ad una persona giuridica – principio riassunto nell’antico brocardo societas delinquere non potest -: per tale ragione, al fine di non contravvenire al divieto di responsabilità oggettiva, è stata elaborata questa peculiare categoria di “colpevolezza” attribuibile agli enti.

In tale contesto, il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo costituisce, per l’appunto, il sistema di presidi elaborato dall’Ente e “plasmato” sulla propria specifica realtà al fine di minimizzare il rischio di verificazione dei reati presupposto.

Venendo, quindi, al provvedimento in commento, il Tribunale di Bologna escludeva l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 6, ravvisando alcune carenze organizzative nel Modello di Organizzazione delle Società imputate che venivano così descritte:

“Il reato per il quale si procede, al pari di altri reati relativi al mercimonio di pubbliche funzioni, sarebbe stato evitato ove il modello organizzativo fosse stato integrato da un protocollo destinato a regolare i rapporti con le Autorità di Vigilanza il quale avesse previsto:

  1. che i funzionari delle Autorità di Vigilanza fossero coadiuvati da personale di aree diverse da quella oggetto di ispezione; e ciò con lo scopo di evitare commistione fra il controllore ed il diretto controllato nell’ambito della quale maturano confidenza, familiarità e quant’altro può favorire indebite richieste;
  2. che spettasse solo agli organismi di vertici (e con il controllo dell’organo di vigilanza) ogni decisione che potesse in qualche modo coinvolgere il personale ispettivo; e ciò con lo scopo di “blindare” e di assoggettare al massimo livello di responsabilità scelte aziendali (quali assunzioni, conferimenti di incarichi professionali, appalti, ecc) foriere di possibili gravi conseguenze per l’Ente” (pag. 14)

Riguardo alla valutazione di idoneità dei Modelli organizzativi demandata al giudice penale, deve rilevarsi che non si rinvengono, né nel D. Lgs. 231/2001, né nelle sentenze intervenute in materia, criteri precisi o consolidati a disposizione dei giudici per effettuare tale valutazione.

Pur nell’assenza di criteri generalmente accettati, vale la pena richiamare quanto stabilito da una delle sentenze della Suprema Corte più note in materia, probabilmente perché tra le prime ad aver tentato di approfondire ed elaborare il tema della valutazione di idoneità dei c.d. compliance programs.

La sentenza (Cass. Pen., Sez. V., n. 4677 del 2014) stabilisce, anzitutto, come l’inidoneità del Modello non possa essere ricavata a contrario dalla commissione del reato: “La responsabilità dell’ente, ai sensi della legge 231 del 2001, non trova certamente fondamento nel non aver impedito la commissione del reato (ai sensi del comma secondo dell’art. 40 c.p.). Né si potrebbe, per converso e ricorrendo a un riconoscibile paralogismo, affermare che, poiché (in ipotesi) il reato di aggiotaggio è stato commesso, allora è certo che il modello organizzativo era inadeguato.”

Nella stessa sentenza la Suprema Corte stabilisce, inoltre, che “il giudice non potrà avere come parametri di valutazione suoi personali convincimenti o sue soggettive opinioni, ma dovrà far riferimento – come è ovvio – alle linee direttrici generali dell’ordinamento (e in primis a quelle costituzionali: cfr. art. 41 comma terzo), ai principi della logica e ai portati della consolidata esperienza.”

Tali considerazioni offrono lo strumento per valutare la colpa di organizzazione dalla dovuta prospettiva: per lo stesso fine di adeguamento al principio costituzionale di colpevolezza, dunque, pare – e già è parso[4] – opportuno che il giudizio di adeguatezza del Modello (o di “colpevolezza” dell’Ente lato sensu intesa) venga effettuato ex ante: in altre parole, si dovrà valutare se, al momento dell’adozione del Modello – ed allo stato di conoscenza riferibile a tale momento storico –, le cautele predisposte potessero essere considerate efficaci avendo riguardo alla specifica tipologia di reati.

Nel caso di cui ci si occupa, il Tribunale di Bologna individua delle carenze organizzative nel Modello sotto un duplice punto di vista: da un lato, ritiene suscettibile di rischio-reato l’affiancamento al personale ispettivo da parte del personale dipendente dall’area oggetto di ispezione; dall’altro, rileva come sarebbe stato opportuno riservare scelte che possano coinvolgere il personale ispettivo ai massimi vertici della Società.

Inoltre, con riferimento a tale ultimo aspetto, si osserva come il Tribunale dia (giustamente) rilievo alla funzione di controllo propria dell’Organismo di Vigilanza, in relazione alla quale appare tuttavia opportuno puntualizzare come essa non debba trascendere in una indebita ingerenza nella gestione societaria, potenziale precorritrice del riconoscimento di una posizione di garanzia in capo al medesimo Organismo ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. e, pertanto, di responsabilità penale a titolo omissivo (ipotesi più volte esclusa, fino ad oggi, dalla Giurisprudenza di merito e di legittimità).

Ad ogni buon conto, il Collegio, sul presupposto della inidoneità del Modello di Organizzazione e della conseguente inapplicabilità dell’esimente, riconosceva la responsabilità di entrambi gli Enti con riferimento all’illecito amministrativo contestato e li condannava al pagamento della medesima sanzione pecuniaria.

L’applicazione di sanzioni interdittive, seppur prevista dall’art. 25, c. 5 del D. Lgs. 231/2001, veniva invece esclusa dalla constatata insussistenza di entrambe le condizioni di applicabilità di cui alle lettere a) (profitto di rilevante entità) e b) (reiterazione degli illeciti) dell’art. 13 del medesimo Decreto.

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Collegamenti con altre pronunce

In tema di responsabilità amministrativa e gruppi societari, Cass. Pen., Sez. III (ud. 11.01.2018),21.06.2018, n. 2872; Cass. Pen., Sez, II (ud. 27.09.2016), 09.12.2016, n. 52316; Cass. Pen., Sez. V. (ud. 18.01.2011), 20.06.2011, n. 24583.

In tema di valutazione di idoneità del Modello di Organizzazione: Cass. Pen., Sez. V., (ud. 18.12.2013) 30.01.2014, n. 4677; Cass. Pen., Sez. II (ud. 27.09.2016) 09.12.2016, n. 52316; GUP Milano, 17 novembre 2009.

In tema di responsabilità penale dell’Organismo di Vigilanza, Cass. Pen., Sez. I (ud. 20.01.2016), 02. 05.2016, n. 18168.

Arianna Bassi

Avvocato del Foro di Bologna


[1] F. Sgubbi, Gruppo societario e responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del d. lgs. 231/2001 in Resp. amm. Soc. enti, 2006;

[2]A. Astrologo, Brevi note sull’interesse e vantaggio nel d. lgs. 231/2001, in Resp. amm. soc. enti, 2006, 1; L. Pistorelli, Brevi osservazioni sull’interesse di gruppo quale criterio oggettivo di imputazione della responsabilità da reato, in Resp. amm. soc. enti, 2006, 11; E. Scaroina, Societas delinquere potest. Il problema del gruppo di imprese, Giuffrè, Milano, 2006; Marco Mossa Verre, Gruppo “familiare” e responsabilità ex crimine dell’ente, in Le Società, 12/2018.

[3] “in tema di responsabilità da reato od altro illecito degli enti, la società capogruppo (la c.d. holding) o altre società facenti parte di un “gruppo” possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, del reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purchè nella consumazione del reato presupposto concorra anche almeno una persona fisica che agisca per conto della “holding” stessa o dell’altra società facente parte del gruppo, perseguendo anche l’interesse di queste ultime, non essendo sufficiente – per legittimare un’affermazione di responsabilità ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 della holding o di altra società appartenente ad un medesimo gruppo – l’enucleazione di un generico riferimento al gruppo, ovvero ad un c.d. generale ‘interesse di gruppo’ (Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 52316 del 09.12.2016).

[4] GUP Milano, 17 novembre 2009: “Questa considerazione appare doverosa in quanto – pur trattandosi indiscutibilmente di valutazioni relative a illeciti amministrativi e non a illeciti penali commessi da persone fisiche – è evidente che anche nel giudicare la responsabilità della società, per non cadere in una sorta di <<responsabilità oggettiva>> degli enti, occorre verificare la efficacia del modello con valutazione <<ex ante>> e non <<ex post>>, rispetto agli illeciti commessi dagli amministratori. Del resto, non avrebbe senso ritenere efficace un modello organizzativo per il solo fatto che siano stati commessi degli illeciti da parte dei vertici della persona giuridica, in quanto ciò comporterebbe, ovviamente, la pratica inapplicabilità della norma contenuta nell’art. 6 legge 231/01. Occorre, in altre parole, stabilire se, prima della commissione del fatto, fosse stato adottato un corretto modello organizzativo e se tale modello, con valutazione ex ante, potesse considerarsi efficace per prevenire gli illeciti societari oggetto di prevenzione.”


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