Corte d’Appello di Bologna, Sez. I, 24 ottobre 2018 (dep. 21 gennaio 2019), n. 4833
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Oggetto del provvedimento.
Con la sentenza in commento, la I Sezione Penale della Corte d’Appello di Bologna si pronuncia su una vicenda complessa e di indiscusso interesse avente ad oggetto l’accusa mossa nei confronti di alcuni ufficiali di polizia giudiziaria ed alcuni membri del CdA, altri dipendenti e il commercialista di una società per azioni, per aver asseritamente commesso, in concorso tra loro, i delitti di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico in atto pubblico, nonché, per i soli secondi, bancarotta fraudolenta per distrazione, aggravata dall’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità alla società poi dichiarata fallita.
Nello specifico, la sentenza di I grado condannava gli imputati per i reati di cui al capo A),exartt. 81, 110, 112 nn. 1 e 2, 319, 326, co. 1, 479 c.p., al capo B), exartt. 47, co. 1 n. 2, c.p.m.p. e 3 L. n. 1383 del 1941, nonché, il solo commercialista, alla luce della definizione separata delle altre posizioni, per il delitto di cui al capo E), exartt. 110, 112 nn. 1 e 2 c.p., 223, 1°co. in riferimento all’art. 216, co. 1 n. 1, 219, co. 1, L. fall..
Più nel dettaglio, secondo la ricostruzione offerta dal collegio giudicante di prima istanza, gli ufficiali di polizia giudiziaria, incardinati nei ruoli della Guardia di Finanza, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, avrebbero accettato la promessa di ricevere denaro e altre utilità, che poi effettivamente ricevevano, al fine di far eseguire da una sezione specifica del Nucleo di Polizia Tributaria una verifica fiscale sulla società sopra citata, “ scippandola” all’Agenzia delle Entrate, “addomesticata nei modi e nei tempi, utile ad occultare presso soggetti terzi la precaria situazione economico-patrimoniale-contabile in cui da tempo versava la società”, che poi “espletavano in violazione dei loro doveri”; ad esempio omettendo di acquisire tutta la documentazione bancaria, di denunciare la rilevata esistenza di fatture false o riportando in modo ideologicamente falso nei processi verbali di verifica giornaliera dati non rispondenti alla realtà. Il Tribunale di Bologan, inoltre, condannava gli ufficiali di polizia giudiziaria anche per il reato di frode militare perché, con le medesime condotte di cui al capo A), avrebbero frodato il corpo di appartenenza, occultando le violazioni delle leggi finanziarie commesse dagli amministratori della SpA verificata di cui erano venuti a conoscenza. Quanto al commercialista, infine, pur assolto per i delitti di cui al capo A), veniva condannato per avere, in concorso con altri, distratto dalle casse sociali una somma ingente di denaro pari a quasi 200.000,00 euro, arrecando un danno patrimoniale di rilevante gravità con pregiudizio alla massa dei creditori.
La Corte d’Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiara il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in relazione al capo B), dispone la trasmissione di copia degli atti alla Procura Militare, assolve gli imputati dai reati contestati al capo A) per non aver commesso il fatto e conferma nel resto la pronuncia di primo grado.
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Contenuto del provvedimento.
La sentenza in commento presenta notevoli spunti di riflessione alcuni dei quali si ritengono meritevoli di approfondimento in tale breve nota.
1. Il difetto di giurisdizione per il delitto di frode militare.
Innanzitutto, di tutto interesse, quanto meno per la portata chiarificatrice del principio giuridico affermato, la dichiarazione del difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario per il reato di cui al capo B), ovvero il delitto di collusione militare della Guardia di Finanza di cui all’art. 3, L. 9 dicembre 1941, n. 1383.
La Corte d’appello di Bologna, infatti, nella motivazione della sentenza in commento evidenzia attentamente come il giudice di I grado sia incorso in errore nel riconoscere la connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali, pur avendo richiamato correttamente la norma di cui all’art. 13, co. 2, c.p.p..
Come è noto, infatti, la disposizione evocata, statuisce expressis verbische fra reati comuni e reati militari, la connessione dei procedimenti opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare, avuto riguardo ai criteri previsti dall’art. 16, co. 3, c.p.p..
Nel caso di specie, però, il Tribunale penale di Bologna, in composizione collegiale, aveva ritenuto più grave il reato contestato al capo E), bancarotta fraudolenta per distrazione, contestato invero al solo commercialista, così contravvenendo al principio in forza del quale, in sede di risoluzione del potenziale conflitto di giurisdizione e competenza, occorre accertare la sussistenza della “medesimezza del fatto” ma soprattutto, più in generale, che la maggiore gravità del reato comune deve essere individuata sulla base delle regole stabilite dall’art. 4 c.p.p., stante il rinvio ai criteri valutabili ai sensi dell’art. 16, co. 3, c.p.p.. In tutti gli altri casi le sfere di giurisdizione ordinaria e militare rimangono separate (Cass. Pen., SS.UU., 23 giugno 2016, n. 18621; Cass. Pen., SS. UU., 10 febbraio 2006, n. 5135).
Una corretta e sistematica lettura delle norme, dunque, non sottende che la maggiore gravità che legittima la sussistenza della giurisdizione ordinaria in ipotesi di potenziale connessione debba essere valutata con riferimento a tutti i reati contestati nell’ambito di un medesimo procedimento penale, a prescindere da chi ne sia il presunto autore e fuori dalle ipoesi di concorso fra reati.
Pertanto, si ritiene condivisibile la conclusione fatta propria dal giudice dell’impugnazione secondo cui gli ufficiali di polizia giudiziaria sono stati sottratti al loro giudice naturale per il reato di cui al capo B), in ragione del fatto che deve essere esclusa la connessione di procedimenti exart. 13, co. 2, c.p.p., nelle ipotesi in cui il reato più grave non sia contestato ai militari imputati per altre fattispecie criminose nel medesimo procedimento e non sussista connessione ai sensi dell’art. 12 c.p.p. tra i reati ad essi ascritti e quello comune, più grave, di cui sono imputati solo ed esclusivamente soggetti terzi.
2. La sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta impropria per distrazione e la compatibilità di tale delitto con l’aggravante del danno di rilevante gravità.
La pronuncia in commento appare degna di nota anche con riferimento alla contestazione di cui al Capo E), in particolare nella parte in cui il giudice di secondo grado pone alcuni punti fermi circa i confini dell’elemento oggettivo della condotta distrattiva e sulla compatibilità dell’aggravante del danno di rilevante gravità con il delitto di bancarotta impropria.
Quanto al primo profilo, la Corte d’Appello di Bologna conferma l’orientamento in forza del quale l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione sussiste ed è integrato nel momento in cui vi è un ingiustificato distacco di beni o attività con conseguente depauperamento del patrimonio dell’impresa, senza che assuma rilievo la successiva destinazione dei beni o delle attività distratte.
Il delitto in questione, del resto, come è noto, è reato di pericolo (Cass. Pen., Sez. V., 22 febbraio 2018, n. 18517) e ha la funzione di scoraggiare a mezzo della minaccia dell’applicazione della pena, la commissione di condotte volte a depauperare il patrimonio posto a salvaguardia delle pretese creditorie, caratterizzato, nella forma di cui all’art. 216, co. 1, n. 1, dalla violazione del vincolo legale, che limita la libera disposizione dei beni dell’impresa da parte dell’imprenditore, il quale li destina a fini diversi da quelli dell’azienda sottraendoli ai creditori.
Da ciò consegue che, per ritenere integrato l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, a nulla rileva il fatto che il capo di imputazione, dopo la condotta distrattiva, contenga anche la descrizione degli ulteriori passaggi che la somma di denaro distratta ha subito nel tempo, così come che la stessa sia eventualmente ritornata nella disponibilità dell’amministratore successivamente.
Del resto, la condotta contestata all’imputato nel caso di specie era quella di aver concorso nella bancarotta fraudolenta patrimoniale della società, dichiarata fallita dal Tribunale di Bologna, per aver distratto la somma di euro 195.000 prelevati dalle casse sociali, perfezionata nel momento in cui il denaro è stato prelevato e consegnato, senza alcuna ragione, dal presidente del CdA su consiglio proprio del commercialista, ad un soggetto completamente estraneo alla attività della fallita. Il successivo reimpiego per acquistare, tramite società fittizie a cui l’amministratore aveva trasferito il denaro, un immobile da persona che aveva precedentemente fornito una fideiussione reale alla società, con conseguente svuotamento della medesima, non rileva ai fini dell’integrazione del reato. Deve essere esclusa, dunque, la rilevanza nel caso di specie dell’orientamento impropriamente richiamato dalla difesa secondo il quale i beni estranei al patrimonio della fallita sia pure appartenenti all’amministratore e posti a garanzia (addirittura reale) dei debiti della società non possono formare oggetto di distrazione penalmente rilevante (Cass. Pen. SS.UU. 15 luglio 2010, n. 36551) poiché il reato si era già perfezionato in epoca antecedente.
Quanto al secondo profilo, invece, la Corte d’appello di Bologna, superando le argomentazioni della difesa del commercialista la quale aveva richiamato un precedente isolato della giurisprudenza della Corte di cassazione, riafferma il principio secondo il quale la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all’art. 219, co. 1, L. fall. è applicabile, con interpretazione estensiva, anche ai fatti di bancarotta “impropria” contestati all’imputato, considerato il rinvio operato dalla medesima norma a tutti i reati di bancarotta propria nonché il richiamo dell’art. 223 comma 1, L. fall., alle pene stabilite nell’art. 216 L. fall. Senza che ciò comporti un indebito ricorso all’interpretazione analogica della norma, vietata in materia penale.
Del resto, basti ricordare che di recente è stata anche dichiarata infondata la q.l.c. in riferimento agli artt. 11, 25, 117 Cost. e 7 CEDU (Cass. Pen., Sez. V, 6 ottobre 2017, n. 4400) relativa all’applicabilità dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità all’ipotesi di bancarotta impropria proprio poiché, sostiene la Corte, a voler ragionare a contrario, si determinerebbe l’irragionevole risultato di sottoporre solo l’imprenditore individuale ad un trattamento sanzionatorio astrattamente più afflittivo a fronte di fatti sostanzialmente analoghi commessi nell’ambito della gestione societaria, in violazione dell’art. 3 Cost., anche alla luce della sostanziale equiparazione normativa tra le due ipotesi.
3. L pena accessoria di cui all’art. 216, ult. co., r.d. 16 marzo 1942, n. 267.
In conclusione, si ritiene doveroso fare un breve cenno critico anche all’applicazione al commercialista, non solo della pena di anni tre e mesi sei di reclusione, ma anche della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni dieci exart. 216, ult. co. L. fall..
Difatti, pur nell’assenza di una specifica motivazione sul punto, la presente nota non può non tener conto dei più recenti arresti giurisprudenziali intervenuti sul tema successivamente al deposito della sentenza in commento.
Il riferimento in particolare è a due pronunce del giudice delle leggi e di legittimità.
La prima in rilievo è la sentenza della Corte Cost., 25 settembre 2018 (dep. 5 dicembre 2018), n. 222che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in questione nella parte in cui dispone che “la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”anziché: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”, così modificando il sistema delle pene accessorie per i delitti di bancarotta, fino ad oggi previste dalla legge in misura fissa nel quantum,per evidente incompatibilità con i principi di uguaglianza, ragionevolezza e funzione rieducativa della pena. Ne consegue, la preclusione in materia di qualsiasi automatismo.
La seconda, di indiscutibile rilievo, è la recentissima pronuncia della Cassazione Penale, Sezioni Unite, 28 febbraio 2019, di cui ad oggi è nota solo l’informazione provvisoria (ordinanza di rimessione, Cass. Pen., Sez. V, 14 dicembre 2018, n. 56458), in forza della quale “Le pene accessorie previste dall’art. 216 della legge fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine in durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.
Detto in altri termini, la qualificazione dell’art. 216, ult. co. L. fall. quale pena accessoria di durata “predeterminata” (nel massimo), su indicazione della Corte costituzionale in contrasto con il consolidato orientamento precedente della Suprema Corte di Cassazione, esclude l’applicabilità in materia della disciplina di cui all’art. 37 c.p. in favore della commisurazione della quantità della pena da infliggere in concreto ai sensi dell’art. 133 c.p.. Per l’effetto, l’eventuale rideterminazione della durata della pena accessoria in casi similari a quello in esame dovrà essere devoluto al giudice del merito, trattandosi di giudizio che implica valutazioni discrezionali.
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Collegamenti con altre pronunce.
Sulla connessione di procedimentiexart. 13, co. 2, c.p.p., oltre alle pronunce citate nel testo: Cass. Pen., Sez. I, 23.02.2017, n. 14289; Cass. Pen., Sez. I, 15.10.2014, n. 5680;
Sulla compatibilità tra art. 219 L. fall. e bancarotta impropria, oltre alle pronunce citate nel testo,ex multis: Cass. Pen., Sez. fer., 26.07.2013, n. 49132; Cass. Pen., Sez. V, 22.03.2013, n. 2930;
Sulla durata della pena accessoria di cui all’art. 216, ult. co., L. fall.: Corte cost., 31.05.2012, n. 134; Cass. Pen., sez. V, 29.01.2019, n. 5882; Cass. Pen. Sez. I, 6.7.2017, n. 52613; in senso contrario alle pronunce citate nel testo, da ultimo, Cass. Pen., Sez. III, 20.04. 2018, n. 33380.
Avv. Francesca Pontis