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Tribunale di Macerata in funzione di riesame per le misure cautelari reali – Ordinanza del 21 maggio 2015

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Oggetto del provvedimento

Dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. 74/2000).

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Contenuto del provvedimento

All’esito di un controllo fiscale eseguito dai militari della Tenenza della Guardia di Finanza di Camerino a carico di una persona fisica – e relativo agli anni di imposta 2010-2011-2012 –, emergeva una movimentazione transnazionale di denaro (coinvolgente degli intermediari in Svizzera e in Regno Unito) di ammontare pari a euro 755.097,00. Dal momento che tale somma non era stata indicata dall’indagato nella dichiarazione dei redditi personali percepiti nel 2011, e posto che risultavano integrati i requisiti di soglia fissati dall’art. 4, d.lgs. 74/2000 (l’importo evaso veniva infatti quantificato in euro 326.487,00), la Guardia di Finanza aveva ritenuto di contestare il delitto di dichiarazione infedele e di trasmettere gli esiti dell’indagine all’Autorità giudiziaria.

Gli organi accertatori hanno in particolare fondato il proprio convincimento – in ordine alla penale rilevanza della vicenda evasiva in esame – argomentando sulla base del meccanismo presuntivo delineato dall’art. 12, d.l. n. 78/2009, a mente del quale si considerano costituite con redditi sottratti a tassazione le attività detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato. Del tutto insufficienti sono state invece valutate le prospettazioni difensive, addotte dall’indagato allo scopo di dimostrare la non assoggettabilità a tassazione delle somme considerate.

In data 5 marzo 2013, il G.i.p. del Tribunale di Macerata aveva quindi emesso un decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla successiva confisca per equivalente, di beni mobili e/o immobili nella disponibilità dell’indagato e fino a concorrenza dell’imposta evasa: avverso tale provvedimento, l’imputato avanzava richiesta di riesame, successivamente rigettata con l’ordinanza in epigrafe.

Il fulcro concettuale attorno al quale orbita il provvedimento giurisdizionale esaminato è quello dell’efficacia probatoria rivestita dalla presunzioni fiscali all’interno del processo penale, con particolare riferimento alla loro rilevanza nel filone cautelare del medesimo.

Nel caso di specie il ricorrente aveva infatti contestato la sussistenza dei presupposti normativi necessari per disporre il sequestro preventivo, in particolare lamentando la circostanza che il G.i.p. si sarebbe limitato a ravvisare gli estremi del fumus delicti adeguandosi al meccanismo presuntivo – valorizzato già dalla Guardia di Finanza e dal P.M. – di cui all’art. 12, d.l. n. 78/2009: al contrario, afferma la difesa, tali strumenti fiscali non potrebbero in alcun modo assumere la valenza di elementi indiziari di per sé sufficienti a fondare un addebito di natura penale.

La vexata quaestio è stata ampiamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale è giunta a individuare due diversi regimi di efficacia della presunzioni fiscali, a seconda che queste ultime incidano direttamente sul merito del procedimento o vengano invece a rilevare in sede cautelare. L’orientamento espresso dalla Suprema Corte è nel senso per cui le presunzioni tributarie non sono automaticamente operanti nel giudizio penale di merito, in quanto «gli accertamenti della guardia di finanza si fondano su un accertamento di esclusiva matrice tributaria, durante il quale la prova della responsabilità tributaria del soggetto si forma al termine di un processo esclusivamente presuntivo, in considerazione della circostanza che laddove il soggetto sottoposto a verifica non offra la prova contraria rispetto alla contestazione, si forma, a contrario, la prova della infrazione della normativa tributaria». Il procedimento di formazione della prova tributaria – osserva la Corte – risulta infatti «ispirato ad un principio di inversione dell’onere della prova che, in materia penale, si pone in contrasto con il diritto di difesa e con il principio secondo cui l’onere della prove è a carico dell’accusa» (Cass., sez. V, 25 settembre 2012, n. 1261). Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, «non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa» (Cass., sez. III, 23 marzo 2013, n. 7078): in altri termini, ai fini della prova del reato il giudice penale «può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, ma a condizione che detti elementi, quando determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori, e, siccome dette presunzioni hanno il valore di un indizio, esse, per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti» (Cass., sez. III, 23 giugno 2015, n. 30890).

Ciò premesso, la Suprema Corte ritiene tuttavia che il medesimo principio non opererebbe nel caso in cui tali presunzioni dovessero trovare applicazione in sede cautelare reale, posto che in quel contesto il giudice esercita un controllo di tipo sommario (sul punto cfr. Cass., sez. III, 2 ottobre 2014, n. 2006): egli è chiamato infatti ad accertare solo in via incidentale l’imponibile e l’imposta evasa dal contribuente, senza possibilità di esercizio di poteri istruttori. Il giudice è pertanto legittimato ad attribuire valenza indiziaria alle presunzioni tributarie su cui si fondano gli accertamenti della Guardia di Finanza, purché il vaglio giudiziario non si arresti alla valutazione dei soli elementi a carico, ma tenga conto di tutte le risultante processuali, ivi comprese le allegazioni difensive prospettate dall’indagato. In sintesi, il requisito del fumus commissi delicti – presupposto imprescindibile per l’applicazione di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente – può dirsi integrato allorché le presunzioni tributarie non siano confutate da elementi di segno contrario, addotti dalla difesa (cfr. Cass., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 25451).

Nel caso qui esaminato, l’indagato ha effettivamente prodotto una serie di documenti per dimostrare che le somme di denaro, detenute in Svizzera, non avrebbero dovuto essere oggetto di tassazione, quali attività estere produttive di reddito in Italia, e tuttavia la Guardia di Finanza – prima – e la P.G. inquirente – poi – hanno ritenuto che tali allegazioni fossero insufficienti a vincere il meccanismo presuntivo di cui all’art. 12, d.l. n. 78/2009.

Il Tribunale del riesame, dopo aver affermato che l’apprezzamento della consistenza delle allegazioni difensive «richiede un approfondimento istruttorio di natura tecnica che è incompatibile con il carattere sommario dell’accertamento cautelare», si è limitato a richiamare le valutazioni espresse dalla Guardia di Finanza e dalla Autorità inquirente, ritenendo che la presunzione derivante dal trasferimento di risorse finanziarie in un Paese a fiscalità privilegiata, unitamente alla dichiarata non sufficienza delle prove contrarie offerte dalla difesa, siano «elementi idonei ad integrare il presupposto della misura cautelare disposta dal G.I.P., alla stregua dell’interpretazione del requisito del fumus delicti» così come delineata nella giurisprudenza di legittimità.

L’imputato ha quindi proposto ricorso per Cassazione avverso la commentata ordinanza del Tribunale del riesame, lamentando – tra i diversi elementi – l’apoditticità della motivazione resa dal Giudice di Macerata nella parte in cui desume l’astratta configurabilità del reato ex art. 4, d.lgs. 74/2000 dalla presunzione tributaria di cui all’art. 12, d.l. 78/2009.

La tesi difensiva poggia essenzialmente su due argomentazioni.

Si osserva innanzitutto che lo stesso tenore letterale dell’art. 12, d.l. 78/2009, escluderebbe l’operatività della presunzione tributaria in sede penale: il secondo comma della citata norma prevede infatti che opera «ai soli fini fiscali» la presunzione secondo «cui gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato» (individuati mediante decreto del Ministro delle finanze) sono effettuati, salva prova contraria, «mediante redditi sottratti a tassazione».

Il ricorrente evidenzia quindi che, anche laddove si ammetta che le presunzioni tributarie trovino cittadinanza nel processo penale, per un verso deve escludersi che le medesime possano di per sé costituire, in sede di merito, fonte di prova del reato fiscale di volta in volta contestato, al più potendo integrare gli estremi di un indizio, liberamente valutabile da parte del giudice; e, per altro verso, che in sede cautelare le presunzioni fiscali assumono valore indiziario, sufficiente a garantire consistenza al requisito del fumus commissi delicti, solamente in assenza di elementi di segno contrario.

In effetti il giudicante sembra essersi spinto oltre rispetto a quanto indicato dalla Suprema Corte, soffermandosi in modo piuttosto frettoloso sulle allegazioni difensive addotte dall’indagato: lungi dal «prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato contestato» (Cass., 25 settembre 2012, cit.), il Tribunale del riesame ha infatti ritenuto sufficienti le valutazioni di inidoneità probatoria già operate dall’Autorità procedente, per tale via ponendosi in contrasto con quel recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità – pur citato dal Tribunale stesso – secondo il quale il giudice del riesame è chiamato a verificare in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali ritenga «esistente in concreto il reato configurato e la conseguente possibilità di sussumere questa fattispecie in quella astratta».

La Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto che il provvedimento del Tribunale di Macerata fosse adeguatamente motivato e, pertanto, ha dichiarato infondato il ricorso (sez. III, 21 gennaio 2016, n. 5733). Il Giudice di legittimità ha infatti osservato che le «considerazioni esposte dal Tribunale risultano congrue e fondate su oggettivi elementi investigativi» e che, per converso, la circostanza che il Giudice del riesame non abbia approfondito l’analisi delle giustificazioni addotte dall’imputato è perfettamente in linea con quell’indirizzo giurisprudenziale, secondo cui il carattere sommario dell’accertamento cautelare è incompatibile con gli accertamenti istruttori richiesti dalle allegazioni difensive proposte in sede cautelare.

La decisione da ultimo citata sembra dunque estendere l’area di operatività delle presunzioni fiscali in sede penal-tributaria, fissando il principio secondo il quale il mero ricorrere della presunzione ex art. 12, d.l. 78/2009 è indizio sufficiente per l’integrazione del fumus di reato – requisito necessario per disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente –, a prescindere dalla valutazione delle eventuali allegazioni difensive: o meglio, a prescindere da quelle prospettazioni difensive la cui comprensione richieda «un approfondimento istruttorio di natura tecnica incompatibile con il carattere sommario dell’accertamento cautelare».

Occorre peraltro osservare che l’arresto della Suprema Corte presenta un ulteriore profilo di criticità, nella misura in cui non pare considerare le implicazioni concrete derivanti da una plana operatività della presunzione tributaria de qua in sede penale.

Come evidenziato in un primo commento alla citata pronuncia (Ambrosi L., Per il sequestro basta la presunzione, in Quotidiano del Fisco, 12 febbraio 2016), la ratio della presunzione ex art. 12, d.l. 78/2009, «è da individuare nel fatto che per le somme detenute all’estero, nella maggior parte dei casi, non vi è alcuna correlazione né relativamente ai vari anni di imposta in cui l’evasione si sarebbe perpetrata, né alle somme accumulate in ciascuno anno»: in altri termini, nella prospettiva strettamente fiscale le somme evase sono imputate in un unico periodo di imposta.

Tale meccanismo presuntivo è dunque necessariamente incompatibile con la specifica struttura di quei reati fiscali (tra i quali il delitto di dichiarazione infedele, ex art. 4) che, ai fini della loro commissione, postulano l’evasione di un importo che superi la soglia minima di punibilità legalmente prevista. L’accertamento di tale requisito deve infatti essere effettuato per ciascun anno di imposta, il che significa che «se il saldo sul conto estero […] si sia formato in vari anni, la presunta evasione non necessariamente raggiunge per ciascun periodo la soglia di punibilità, con la conseguenze che verrebbe meno ogni illecito penale».

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Collegamenti con altre pronunce

Cass., sez. V, 25 settembre 2012, n. 1261, secondo cui «in tema di reati tributari, le presunzioni legali operanti nei rapporti tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria, pur non potendo valere ai fini della prova circa la responsabilità penale in ordine ai suddetti reati, possono tuttavia assumere rilievo ai fini dell’applicazione di misure cautelari quali il sequestro preventivo di somme che si prevedano assoggettabili a confisca per equivalente, fermo restando che anche in tal caso il giudice davanti al quale venga proposta richiesta di riesame non può limitarsi alla sola verifica dell’astratta configurabilità del reato secondo la prospettazione accusatoria ma deve pure tener conto delle deduzioni difensive, se ed in quanto idonee ad incidere sulla esistenza stessa del “fumus commissi delicti”».

Cass., sez. III, 23 marzo 2013, n. 7078, a mente della quale «le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa».

Cass., sez. III, 2 ottobre 2014, n. 2006, la cui massima recita che «le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lg. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale».

Cfr. infine Cass., sez. III, 23 giugno 2015, n. 30890, ove si afferma che «in materia di reati tributari, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie hanno valore indiziario sufficiente a integrare il fumus commissi delicti idoneo a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale, giacché ai fini dell’applicazione della cautela reale non occorre che il compendio indiziario si configuri come grave ai sensi dell’articolo 273 del Cpp, ma è appunto sufficiente l’esistenza del fumus in concreto. Per converso, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, ai fini di una pronuncia sul merito, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. Ai fini della prova del reato, quindi, il giudice può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, ma a condizione che detti elementi, quando determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori, e, siccome dette presunzioni hanno il valore di un indizio, esse, per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti».

Cass., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 25451, per la quale «Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lg. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale».

Dott. Luca Baron

Dottorando di ricerca in diritto pubblico e sistema penale nell’Università di Udine.


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