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Corte d’Appello di Milano, sez. II, sent. 4453/2017

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Oggetto del provvedimento

Il caso giudiziario in esame trae origine dalle vicende connesse allo stanziamento dei fondi pubblici necessari per la realizzazione del MOSE, un’infrastruttura destinata a proteggere la città di Venezia – e la laguna su cui affaccia – dal fenomeno dell’alta marea.

La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza in commento, ha confermato la condanna a due anni e sei mesi di reclusione inflitta in primo grado dal Tribunale del capoluogo lombardo, per il delitto di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bisc.p. aggravato ai sensi del terzo comma, nei confronti di un soggetto che all’epoca dei fatti possedeva la qualifica di pubblico ufficiale, in quanto parlamentare.

Nello specifico, il reo aveva sollecitato ed ottenuto – anche tramite l’intermediazione di terzi – da alcuni degli imprenditori partecipanti al Consorzio affidatario della realizzazione dell’infrastruttura il versamento a proprio favore di un’ingente somma di denaro (pari a 500.000 euro), rappresentando di poter intervenire per agevolare l’erogazione dei finanziamenti necessari all’esecuzione dei lavori, grazie alle sue relazioni con soggetti titolari di incarichi governativi (l’allora Ministro dell’Economia) e funzionari apicali dei Dicasteri a vario titolo coinvolti.

In particolare, la capacità di influenza prospettata dal condannato avrebbe riguardato un duplice profilo: da un lato l’accelerazione delle procedure di stanziamento dei finanziamenti da parte del CIPE; dall’altro l’individuazione dell’importo da destinare all’esecuzione dell’opera pubblica.

Nel corso del processo, si è avuto modo di appurare che le relazioni vantate dal reo erano reali, mentre non è stata raggiunta la prova sul suo effettivo attivarsi presso i pubblici ufficiali competenti ad esprimere le scelte governative riguardo ai finanziamenti del progetto.

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Contenuto del provvedimento

Il processo giunto innanzi alla Corte d’Appello di Milano vedeva coinvolti una pluralità di imputati.

Per quanto d’interesse in questa sede, il giudice di secondo grado era stato chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione proposta dall’allora parlamentare e consigliere del Ministro dell’Economia.

Questi – a seguito della riqualificazione giuridica del fatto oggetto dell’imputazione originaria, consistente in un addebito di corruzione propria – era stato condannato dal Tribunale milanese per il nuovo delitto di traffico di influenze illecite (innestato nel codice penale dalla l. n. 190/2012), aggravato dalla qualifica pubblicistica rivestita dal soggetto, previa verifica positiva della continuità normativa con il delitto di millantato credito.

Il collegio di appello ha ritenuto corretto tale percorso logico-giuridico.

In particolare, secondo la Corte di merito, ciò che l’imputato aveva prospettato «con il suo intervento era che le richieste del CVN – seppure di primario interesse nazionale – venissero valutate e prese in considerazione a scapito di altre e non all’esito di una ponderata valutazione dell’interesse pubblico – che pur avrebbe potuto condurre allo stesso esito – e dietro rappresentazione delle istanze del CVN di cui si sarebbe fatto espresso portatore, ma che tali interessi sarebbero stati assecondati in modo automatico ed in tempi ristretti» (p. 87).

Nella ricostruzione della Corte territoriale, l’illiceità della mediazionepromessa dall’imputato e la natura indebita del denarocorrisposto era evincibile, in primo luogo, dalla circostanza che la remunerazione fosse stata vincolata, negli accordi stretti con il Presidente del Consorzio, al raggiungimento di uno scopo utile per l’ente, per il quale l’imputato affermava di potersi spendere proficuamente.

Inoltre, gli atti al cui ottenimento era finalizzato l’accordo (la delibera del CIPE e i “decreti collegati” di stanziamento dei fondi di finanziamento del sistema MOSE), secondo i giudici di appello erano qualificabili come contrari ai doveri d’ufficio, dal momento che le parti si erano ripromesse «di piegar[ne] il contenuto ampiamente discrezionale, a tutto vantaggio del Consorzio, senza alcuna comparazione effettiva di altri legittimi interessi in gioco» (p. 89).

Riassumendo i termini della questione, le determinazioni di cui il Presidente dell’ente consortile si attendeva l’adozione non violavano alcuna disposizione di legge e potevano ritenersi conformi in obiectoall’ottimizzazione dell’interesse pubblico. Tuttavia, secondo i giudici di prime e seconde cure, i tempi, i modi e le entità dei finanziamenti erano oggetto di scelte discrezionali su cui il legale rappresentante del Consorzio intendeva influire, ad esclusivo vantaggio dell’ente stesso, attraverso l’opera di mediazione dell’imputato.

Sul punto, la Corte milanese ha ritenuto dirimente la consolidata giurisprudenza in materia di corruzione propria per un atto discrezionale. Mutuando l’iterargomentativo consueto in questa materia, si è partiti dalla considerazione secondo cui «la nozione di atto contrario ai doveri di ufficio elaborata dalla giurisprudenza in relazione al reato di corruzione, valida anche rispetto all’art. 346 bisc.p. non presuppone necessariamente un atto illecito o illegittimo perché vietato da norme imperative o in contrasto con norme giuridiche, nozione che la renderebbe incompatibile laddove venga in campo un atto discrezionale, in astratto compatibile con i divieti e gli obblighi imposti dalla legge o da altre fonti cogenti» (p. 90). Di conseguenza, sarebbe da qualificare come difforme dai doveri di ufficio anche l’atto «connotato dall’uso distorto della discrezionalità amministrativa, cioè quel procedimento condizionato non già da un percorso di attenta ed imparziale comparazione degli interessi in gioco, ma dalla percezione di un indebito compenso per raggiungere un esito determinato». In queste evenienze, nel formante giurisprudenziale, è assolutamente dominante la tesi della configurabilità della corruzione exart. 319 c.p.

Restava, infine, da verificare l’applicabilità al caso di specie della nuova fattispecie di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bisc.p., entrata in vigore un paio di anni dopo la percezione dei compensi illeciti, avvenuta nel giugno 2010.

La Corte ha dovuto, pertanto, prendere posizione sulla natura del rapporto intercorrente tra il vecchio delitto di millantato credito e la nuova fattispecie del traffico di influenze illecite, con specifico riferimento all’ipotesi in cui il soggetto che riceva la promessa o dazione di denaro non ponga in essere una pura millanteria, ma “spenda” una relazione effettivamente esistente con i funzionari pubblici.

Per la soluzione del quesito, i giudici hanno richiamato l’orientamento affermatosi ante riforma in seno alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la condotta del soggetto che vantando un’influenza effettiva verso il pubblico ufficiale si faccia dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del p.u., rappresenta un comportamento che, già prima dell’innesto del delitto di traffico di influenze nel tessuto codicistico, avrebbe potuto essere ricondotto alla fattispecie penale tipizzata dall’art. 346 c.p. Di conseguenza, de lege lata, a questa costellazione di casi risulterebbe ora applicabile l’art. 346-bisc.p., in ragione del trattamento sanzionatorio più mite e del rapporto di continuità normativa esistente, secondo lo schema della specialità, col vecchio millantato credito.

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Collegamenti con altre pronunce e osservazioni critiche

La sentenza d’appello in esamerisulta di grande interesse per perimetrare il contenuto precettivo dell’art. 346-bisc.p.

I principali snodi argomentativi suscitano, però, svariate perplessità.

La prima concerne proprio i rapporti intertemporali tra la fattispecie di millantato credito (art. 346 c.p.) e l’ipotesi del traffico di influenze illecite introdotta dalla l. n. 190/2012 (art. 346-bisc.p.).

Come si è accennato, la decisione in rassegna aderisce alla lettura secondo cui tra queste due figure criminose sussisterebbe un rapporto di continenza, sì da profilare un fenomeno successorio exart. 2, comma 4, c.p., che importa l’applicazione della legge penale più favorevole, nel caso di specie il traffico di influenze.

Questa chiave di lettura ha in più occasioni ricevuto l’avallo della Corte regolatrice, incluso il procedimentode quo, in sede di incidente cautelare.

Come ribadito, tra le tante, dalla sentenza Rigano(sez. VI, 27 gennaio 2017, n. 4113, rv. 269736), le condotte di colui che, vantando un’influenza effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore di quest’ultimo erano già riconducibili, prima della legge n. 190 del 2012, al reato di millantato credito; con la conseguenza che, a seguito di questa novella, esse ricadrebbero nella fattispecie di cui all’art. 346-bisc.p., che punisce il fatto con pena più mite.

Finora, solo un’isolata pronuncia riguardante il caso c.d. di Tempa Rossa(Cass., sez. VI, 26 febbraio 2016, n. 23355), che vedeva del pari coinvolto un parlamentare, ha implicitamente optato per la discontinuità normativa, essendo stato assolto l’imputato sul presupposto che i fatti da lui commessi, non riconducibili ad alcuna fattispecie corruttiva, «potranno rientrare nel paradigma del “traffico di influenze illecite” di cui all’art. 346-bisc.p. sempre che ne sussist[a]no i presupposti di legge; all’epoca dei fatti, però, non ancora previsto dal nostro ordinamento come reato».

Nell’impostazione oggi dominante si annida un germe di contraddizione.

Occorre, sul punto, considerare che la stessa giurisprudenza di legittimità ha tracciato nei seguenti termini l’odierno discrimine tra le figure del millantato credito e del traffico di influenze illecite: la prima presuppone che non esista il credito né la relazione con il pubblico ufficiale e tanto meno l’influenza; la seconda postulerebbe, invece, una situazione fattuale nella quale la relazione sia esistente, al pari di una qualche capacità di condizionare o, comunque, di orientare la condotta del pubblico ufficiale (Cass., sez. VI, 23 novembre 2017, n. 5333, rv. 271730; conf. Id., 27 luglio 2017, n. 37463, rv. 270607).

Tale chiave di lettura è condivisibile, alla luce della littera legise dello scopo della nuova incriminazione.

Viceversa, meno plausibile appare l’assunto di diritto intertemporale, vale a dire la tesi secondo cui una costellazione di fatti già punibili in base al dettato dell’art. 346 c.p. – quelli in cui l’accordo verta sulla promessa da parte del “venditore di influenza” di sfruttare una relazione esistente con un pubblico ufficiale per condizionarne il processo decisionale – sarebbero rifluiti nell’alveo precettivo dell’art. 346-bisc.p.

Postulare l’esistenza di un rapporto digenusspeciestra queste due fattispecie conferisce un’intonazione paradossale alla riforma “anticorruzione” del 2012: una legge animata dall’intento di potenziare (anche) il versante repressivo delle patologie lato sensucorruttive, avrebbe determinato, in parte qua, un affievolimento della tutela.

Il punto è che tale approdo ermeneutico non appare pienamente in linea con l’elaborazione giurisprudenziale anteriore alla riforma.

La giurisprudenza in discorso dà infatti per scontato il quid demonstrandum, e cioè che la prassi giudiziale avesse in passato riconosciuto come penalmente rilevanti, nel quadro del millantato credito, le condotte di chi dietro compenso offra di sfruttare la propria reale capacità di influenza presso un pubblico agente. Solo in questo caso potrebbe fondatamente arguirsi che il nuovo art. 346-bisc.p. abbia scorporato talune condotte già punibili, e persino più severamente, in baseal vecchio art. 346 c.p.

Indubbiamente, sin dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso, era emerso un indirizzo dottrinale apertamente teso a reinterpretare la fattispecie di millantato credito in termini di “traffico di influenze illecite”, anche per ragioni costituzionali legate ai beni legittimamente tutelabili in sede penale (cfr., specialmente, Pedrazzi, Millantato credito, trafic d’influence, influence peddling, in Riv. it. dir. proc. pen., 1968., 912 ss.; Tagliarini, voce Millantato credito, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, 308 ss.; Rampioni,Millantato credito,in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, 684 ss., 688; in giurisprudenza, argomentazioni analoghe, sia pure ininfluenti sul concreto esito decisorio, sono rinvenibili in Cass., sez. VI, 28 settembre 2010, rv. 24858801, richiamata dall’arresto in rassegna).

La lettura giurisprudenziale prevalente, invece, non si è mai del tutto emancipata dalla matrice semantica del millantato credito, tradizionalmente inteso come un’ipotesi qualificata di truffa a consumazione anticipata.

Vero è che in passato si tendeva ad annettere all’area semantica di questo tipo penale anche situazioni scevre da una condotta smaccatamente decettiva, vale a dire di esagerazione di un credito effettivamente vantato, implicando quindi l’art. 346 c.p. «un vantarsi non corrispondente a realtà (significativa al riguardo è la radice etimologica “millanta”, da cui l’azione del moltiplicare per mille)» (ad es. Cass., sez. VI, 4 maggio 2001, n. 20105).

Ma una cosa è l’esagerazione, amplificazione o fraudolenta ostentazione di una relazione reale, altro è l’accordo avente ad oggettotout courtla spendita di un’effettiva capacità di influenza: in questo caso non è dato rinvenire alcuna “vendita di fumo” o millanteriain senso proprio.

L’intentio legislatoris che ha animato l’epifania della nuova fattispecie pare, dunque, proprio quella di annettere rilievo penale a situazioni in cui non sia riscontrabile né un patto corruttivo (ad es. perché l’attività oggetto di mercimonio dell’influence peddler, che sia anche munito di qualifica pubblicistica, non rientri nelle competenze dell’ufficio di appartenenza), né la vera “millanteria”, cioè la falsa prospettazione di una capacità di influenza o l’ingigantimento di una influenza effettiva.

Tanto più che, in passato, varie pronunce, a partire dal noto caso Imi-Sir(Cass., sez. VI, 4 maggio 2006 n. 33435), avevano stentoreamente affermato l’irrilevanza penale delle condotte di mero traffico di influenze descritte in varie fonti internazionali (Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 1999 – art. 12; Convenzione ONU di Mérida del 2003 – art. 18) e recepite dall’Italia solo con la legge “Severino” del 2012.

Se questo è il senso del novumnormativo, la posizione assunta dalla giurisprudenza sui rapporti successori intercorrenti tra il millantatocredito e il traffico di influenze illecite si direbbe contaminata da una rivisitazionepost factum del diritto vivente consolidatosi anteriormente alla riforma.

I nodi problematici non terminano qui.

Il caso in commento è emblematico anche delle forzature applicative che l’art. 346-bisc.p. rischia di subire, per dotarlo di un qualche spazio applicativo anche nei casi in cui sia in gioco l’esercizio di poteri decisionali (altamente) discrezionali o di natura politica (ad es. un emendamento parlamentare).

Nel caso di specie, era fuori discussione che i rappresentanti del CVN si fossero ripromessi di ottenere un vantaggio dalla mediazione di un parlamentare con entrature importanti al Ministero dell’Economia e altri apparati pubblici apicali; di contro, è assai più insicuro asserire che tale beneficio fosse – nel disegno delle parti – causalmente legato ad un futuro atto contrario al diritto. Il detto vantaggio, infatti, si sostanziava nel finanziamento, sia pure in via preferenziale, di un’opera assolutamente conforme all’interesse pubblico, e al contempo consentiva di evitare alle imprese coinvolte i gravi danni correlati ai ritardi e alla discontinuità dei finanziamenti, tra cui, ad es., la necessità di ricorrere a pratiche di anticipazione bancaria per assicurare il progredire dei lavori.

Al riguardo, si è già accennato al marcato rigore verso cui tende la giurisprudenza nell’inquadrare i rapporti tra esercizio di poteri discrezionali e fattispecie corruttive. Al di là delle formule edulcoranti talvolta impiegate, essa appare allo stato ben salda nell’escludere in concreto la compatibilità della corruzione exart. 318 con l’attività discrezionale della p.a.

Tra le tante pronunce che potrebbero essere menzionate in questa sede, ci sembra paradigmatico l’indirizzo (cfr.,ex multis, Cass., sez. VI, 18 febbraio 2016, n. 6677, rv. 267187) secondo cui sussiste corruzione propria quando il p.u. dietro compenso indebito eserciti i propri poteri discrezionali rinunciando ad un’imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulti coincidente, ex post, con l’interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni. Ciò in quanto, per ritenere la corruzione propria in luogo di quella impropria, l’elemento decisivo sarebbe la “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge.

Peraltro, quest’assetto interpretativo accolla di fatto all’imputato, per sottrarsi alle maglie dell’art. 319 c.p., l’onere di dimostrare la sicura coincidenza dell’atto con quello che sarebbe stato adottato in assenza di un condizionamento corruttivo: ma si tratta, salvo casi marginali, di una probatiodiabolica, giacché la discrezionalità amministrativa implica, ex definitione, la possibilità di scegliere tra una pluralità di misure tutte astrattamente conformi al modello legale, benché non si tratti evidentemente di scelta assolutamente libera ma orientata all’interesse pubblico specifico per il cui soddisfacimento l’ordinamento conferisce un certo potere amministrativo. In definitiva, nel caso in cui l’atto discrezionale adottato dietro compenso sia, per contenuto e modalità di adozione, l’unico possibile, esso finisce per acquisire una “natura sostanzialmente vincolata” (così, esplicitamente, Cass., sez. VI, 8 novembre 1996, n. 10851, rv. 206225, richiamata dalla decisione in esame).

Secondo questo schema ermeneutico, che la Corte milanese ha ritenuto «valido anche rispetto all’art. 346-bisc.p.» (p. 90), il giudizio di contrarietà al dovere smarrisce qualsiasi legame con il contenuto oggettivo dell’atto (la sua difformità o contrarietà al pubblico interesse) e finisce per appiattirsi sul procedimento di adozione e sulle motivazioni soggettive dei protagonisti dell’accordo corruttivo.

Lo declama in modo netto un’altra sentenza recente della Corte regolatrice (Cass., sez. VI, 10 ottobre 2017, n. 46492, rv. 271383), secondo cui, anzi, tra le modalità realizzative alternativamente tipizzate dall’art. 319 c.p., l’ipotesi pertinente nel caso di accordo corruttivo avente ad oggetto l’esercizio di poteri discrezionali non è quella commissiva del compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ma quella omissiva, giacché «il comportamento abdicativo del pubblico ufficiale di fronte al dovere di una corretta comparazione degli interessi rilevanti integra invero già di per sé “l’omettere” di cui all’art. 319 c.p., e quindi anche quando l’esito raggiunto risulti coincidere ex postcon l’interesse pubblico».

Tale impostazione si traduce, di fatto, in un’interpretatio abrogansdell’art. 318 c.p. nel contesto dell’attività discrezionale della p.a., la quale poggia su un ragionamento presuntivo, quello secondo cui la corresponsione di un corrispettivo preclude in radice la possibilità di un corretto esercizio di poteri non vincolati.

Ma proprio il perno attorno a cui ruota tale presunzione – il vantaggio indebitamente corrisposto al titolare del potere amministrativo discrezionale – si dissolve nella nuova fattispecie di traffico di influenze, laddove il dolo specifico centrato sull’atto antidoveroso è chiaramente orientato a scongiurare una criminalizzazione indiscriminata dell’attività lobbistica o di rappresentanza di interessi.

In particolare, nel campo della discrezionalità della p.a., il contrassegno psicologico del fine di atto contrario è altamente problematico almeno per una delle due varianti legali del traffico di influenze, come delineate dall’art. 346-bisc.p.: quella in cui il pagamento indebito al venditore di influenza sia effettuato in vista della mediazione illecita e non della successiva corruzione del pubblico agente-bersaglio. Infatti, nel c.d. traffico oneroso di mediazioni illecite, a differenza del commercio di influenze a scopo corruttivo, appare preclusa in radice la scorciatoia presuntiva che conduce la giurisprudenza ad escludere la possibilità di un esito conforme ai doveri d’ufficio in presenza del fattore di inquinamento della discrezionalità rappresentato dalla corresponsione di una tangente o dalla sua promessa (per maggiori dettagli sulla questione, sia consentito il rinvio a V. Mongillo, Profili penali della rappresentanza di interessi: il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano, in Perc. cost., 1-2/2016, p. 106 ss.).

Il decisumdella sentenza esaminata ci pone dinanzi ad un interrogativo conclusivo: a quali condizioni può qualificarsi conforme ai doveri d’ufficio, sì da escludere la configurabilità dell’art. 346-bisc.p., una delibera del CIPE o un provvedimento legislativo volto a finanziare un’opera strategica, più in generale qualsiasi atto di natura discrezionale o politica ex se non difforme dall’interesse pubblico? Se l’assenza di condizionamenti corruttivi o pressioni “estorsive” non è sufficiente ad escludere l’antidoverosità dell’atto, l’unica possibile risposta resta, verosimilmente, questa: un atto discrezionale potrà dirsi conforme solo se adottato in una situazione di completo isolamento del decisore pubblico, vale a dire di totale estraneità a qualsiasi forma di condizionamento, intervento persuasivo, interferenza, perorazione o influenza esercitata ab externo. Ciò anche quando, come nel caso in esame, il potere esecutivo sia chiamato a compiere le proprie scelte di allocazione di risorse pubbliche, endemicamente scarse, tra obiettivi tutti meritevoli.

Nell’arresto da cui siamo partiti si rileva anche la mancata attuazione del proposito legislativo di introdurre una regolamentazione espressa dell’attività lobbistica. Traspare, inoltre, la consapevolezza della necessità politico-criminale di salvaguardare l’attività del lobbista che si limiti a prospettare ai pubblici funzionari competenti le esigenze e gli interessi del soggetto rappresentato.

Ma in un sistema in cui le risorse pubbliche sono cronicamente insufficienti a soddisfare tutte le esigenze di intervento, in cui la loro ripartizione è così rimessa a determinazioni ad alto tasso di discrezionalità politico-amministrativa, fino al punto che la destinazione dei finanziamenti ad un’opera comporta pressoché inesorabilmente l’abbandono di un’altra, il discrimen tra mediazione lecita e influenza illecita resta svincolato da qualsiasi parametro oggettivo. Tanto più quando siano altresì assenti regole prestabilite circa le modalità di realizzazione dell’attività di rappresentanza dei gruppi di pressione e dei lobbisti. Tutto ciò genera il rischio di svilire, in concreto, a mera congettura l’asserita rinuncia alla discrezionalità da parte del decisore pubblico e il suo asservimento agli interessi di una parte, in virtù dell’indirizzo ricevuto da un mediatore.

Il caso in esame rivela, a nostro avviso, la necessità di una regolamentazione amministrativa dell’attività di lobbyinge di un’accorta riforma dell’art. 346-bisc.p., che tenga conto della realtà criminologica di riferimento, alquanto variegata. Non si dovrebbe però cedere alla scorciatoia di un drastico ridimensionamento degli elementi costitutivi della fattispecie, all’unico scopo di rimuovere qualsiasi ostacolo applicativo. In tal caso il rimedio sarebbe peggiore del male da contrastare: una criminalizzazione massiva dell’attività dei portatori di interesse o, comunque, una delega in bianco alla magistratura circa le condotte da reprimere. Una panpenalizzazione sarebbe indesiderabile anche in chiave assiologica, posto che, se esercitato in modo corretto e secondo meccanismi di rigorosa trasparenza, l’intervento dei portatori di interessi privati nei processi decisionali pubblici è ingrediente positivo dei sistemi democratici maturi, funzionale all’assunzione di decisioni pubbliche consapevoli.

Sotto altro profilo, sarebbe opportuno distinguere, anche sul piano della descrizione della condotta sanzionata, il trattamento riservato al mediatore privato da quello di chi abusi di una eventuale qualifica pubblicistica, sia pure estranea al processo decisionale oggetto dell’accordo illecito.

Prof. Vincenzo Mongillo


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