Trib. Brindisi, 6 ottobre 2016, dep. 5 novembre 2018, n. 2115/16
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Oggetto del provvedimento.
Con la sentenza in commento il Tribunale di Brindisi si è pronunciato su di una complessa vicenda di conferimenti presso due impianti di recupero di rifiuti.
Secondo l’accusa vari conferitori, d’intesa con taluni intermediari e con i gestori dei due siti di ricezione, avrebbero realizzato un traffico organizzato di rifiuti (art. 260 d.lgs. n. 152/2006, ora art. 452-quaterdecies c.p.), consistente in attività di gestione di rifiuti anche pericolosi (trasporto, stoccaggio, smaltimento tramite seppellimento) fuori dei limiti consentiti dalla autorizzazione, pure esistente, ma riguardanti altre tipologie di rifiuti non pericolosi (inerti).
In sostanza i due siti, anziché recuperare rifiuti aventi certe caratteristiche e destinarli a talune operazioni di recupero, accettavano rifiuti “mascherati” nella loro reale consistenza attraverso formulari contenenti codici CER errati, li stoccavano e seppellivano in aree di cava realizzando forme di smaltimento illecito, tali, per ripetizione, dimensioni ed eterogeneità dei rifiuti, da integrare vere e proprie discariche abusive (art. 256, co. 3 d.lgs. n. 152/2006).
A taluni imputati veniva inoltre contestato di avere omesso di segnalare alle Autorità preposte l’inquinamento realizzato (art. 257, co. 1 d.lgs. n. 152/2006), e ad altri di avere simulato conferimenti di rifiuti in realtà mai effettuati, emettendo fatture per operazioni inesistenti, così realizzando reati tributari.
Il Tribunale di Brindisi ritiene provati tutti i fatti oggetto di contestazione, dichiarando la prescrizione per il più grave delitto di traffico organizzato e per i delitti tributari, mentre condanna per la contravvenzione di discarica abusiva, con conseguente confisca dei siti, ritenendo che la relativa permanenza sia cessata con il decreto di sequestro preventivo, di molto successivo agli ultimi conferimenti, così come per la contravvenzione di omessa segnalazione di sospetto inquinamento, anch’essa intesa come permanente.
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Contenuto del provvedimento.
- Il reato di traffico organizzato di rifiuti.
Il Tribunale brindisino dedica ampio spazio (pagg. 9 ss.) all’analisi dell’art. 260 d.lgs. n. 152/2006 (ora confluito nel codice penale all’art. 452-quaterdecies c.p.), nel caso di specie consistente in attività di gestione di rifiuti anche pericolosi (trasporto, stoccaggio, smaltimento tramite seppellimento) fuori dei limiti consentiti dalla autorizzazione, pure esistente, ma riguardante altre tipologie di rifiuti non pericolosi (inerti) e una tipologia di destinazione dei rifiuti (il recupero) radicalmente diversa (e dunque abusiva), da quella di smaltimento per seppellimento effettivamente realizzata. Nessun dubbio, pertanto, che le reiterate operazioni di trasporto, deposito, stoccaggio e smaltimento, effettuate con più mezzi e più persone, integrino una “attività organizzata”.
L’ingente quantitativo di rifiuti viene riscontrato attraverso l’entità dei rifiuti conferiti e risultanti dai FIR e dalle annotazioni nei registri di carico e scarico, nonché attraverso sequestri, foto e video; il profitto ingiusto viene rinvenuto, al solito, nei risparmi di spesa assicurati ai conferitori, che spuntavano prezzi di recupero (in realtà smaltimento) notevolmente più bassi di quelli che sarebbero stati praticati sul mercato ove i rifiuti fossero stati correttamente qualificati e inviati a soggetti muniti delle necessarie autorizzazioni.
Un punto sembra meritevole di approfondimento critico: secondo il Tribunale pugliese l’art. 260 concorrerebbe sempre con (eventuali) fatti di gestione abusiva di rifiuti (art. 256, d.lgs. n. 152/2006).
In realtà l’affermazione, che pure ritorna in parte della giurisprudenza (cfr. le sentenze richiamate a pag. 12 della sentenza in commento) non sembra convincente; l’avverbio “abusivamente” serve appunto per richiamare, all’interno del più grave delitto di cui all’art. 260 d.lgs. n. 15/2006, tutti i fatti (di trasporto, stoccaggio, intermediazione, smaltimento ecc.) che costituiscono le modalità tipiche della contravvenzione di gestione abusiva di rifiuti e che sono necessari anche (unitamente ad altri elementi specializzanti, quali l’attività organizzata e continuativa, il dolo specifico di ingiusto profitto e gli ingenti quantitativi di rifiuti trattati ) per realizzare il fatto tipico di cui all’art. 260 d.lgs. n. 15/2006 (ora 452-quaterdecies c.p.).
Ne consegue che i fatti di gestione abusiva di rifiuti dovrebbero ritenersi assorbiti nel più grave delitto di traffico organizzato di rifiuti [Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, III ed., Milano, 2016, 184].
- Il delitto di discarica abusiva.
La sentenza in esame segnala un (apparente?) paradosso: gli imputati, pur riconosciuti colpevoli di tutti i fatti contestati, sono stati assolti dal più grave delitto di traffico organizzato di rifiuti, dichiarato prescritto, mentre sono stati condannati per la meno grave contravvenzione di discarica abusiva e per la bagatellare contravvenzione di omessa segnalazione di sospetto inquinamento.
La ragione, come ovvio, sta nella ritenuta diversa permanenza degli ultimi due reati rispetto al primo.
In particolare, la permanenza nella discarica abusiva cesserebbe con la bonifica o quanto meno con il sequestro, mentre nel traffico organizzato con l’ultima attività posta in essere; la permanenza dell’omessa segnalazione non è argomentata nel dettaglio ma affermata apoditticamente.
Si segnala, per completezza, che l’art. 157 c.p., così come modificato dalla l. n. 68/2015, ha previsto il raddoppio dei termini di prescrizione per tutti i delitti contenuti nel titolo VI-bis del c.p. (delitti ambientali), tra i quali rientra, oggi, anche il delitto di traffico organizzato di rifiuti di cui al nuovo art. 452 quaterdecies c.p.; tuttavia tale aumento dei termini di prescrizione non può evidentemente applicarsi a fatti già esauritisi – come nella vicenda in esame – al momento della sua entrata in vigore.
3. Requiem per il nemo tenetur se detegere?
La sentenza in commento, in modo molto conciso, ritiene di dover condannare gli imputati che, autori dei reati di discarica abusiva, non hanno provveduto a segnalare il relativo inquinamento alle Autorità preposte, id est di non essersi autodenunciati dopo avere, in ipotesi, commesso un reato ambientale (nella specie, di discarica abusiva).
La questione è molto interessante, e chiama in causa da un lato la corretta interpretazione dell’art. 257 d.lgs. n. 152/2006, e dall’altra la tenuta di un principio di civiltà come il nemo tenetur se detegere.
Nello specifico, è discutibile che il contenuto dell’obbligo di denuncia sia ricollegato alla commissione di un reato – in ipotesi la contravvenzione di discarica abusiva – più che al verificarsi, come prescrive l’art. 242, richiamato dall’art. 257, co. 1 ultima parte d.lgs. n. 152/2006, di un non meglio delineato “evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito”.
E tuttavia, nella impostazione accusatoria prima, e nella decisione del Tribunale poi, sembra che tale evento potenziale (di pericolo) sia stato per così dire desunto “a fortiori” dalla realizzazione e gestione di discarica abusiva di rifiuti anche pericolosi, reato che, come noto, per interpretazione giurisprudenziale, esige il degrado (ovvero il danno), quanto meno tendenziale, dell’area sulla quale sono depositati i rifiuti.
L’interpretazione dell’art. 257 d.lgs. n. 152/2006 deve essere rispettosa, per quanto possibile, del principio del nemo tenetur se detegere, espressione costituzionale del diritto di difesa.
La lettera dell’art. 257, co. 1 ultima parte del d.lgs. n. 152/2006, rinviando all’art. 242 del medesimo testo normativo, sembra imporre al responsabile di “un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito”, un obbligo di autodenuncia (penalmente sanzionato) e un obbligo di adottare determinate misure urgenti di prevenzione (non assistito da pena).
Mi parrebbe ragionevole includere nel novero degli “obbligati” colui che ha il sospetto di avere causato un evento “potenzialmente in grado di contaminare il sito”, magari per uno sversamento puntuale e fortuito di cui al momento non sia in grado di stabilire l’impatto ambientale, e non anche colui che – come nel caso di specie – dolosamente allestisce e gestisce una discarica abusiva, o dolosamente realizza un qualsiasi reato ambientale (come la discarica abusiva o il traffico organizzato di rifiuti) certamente integrante una contaminazione.
In tale ultima ipotesi sarebbe irragionevole e contrario all’art. 24 Cost. pretendere che colui che con certezza sa di avere inquinato, ed ha agito con piena volontà di farlo, debba poi autodenunciarsi all’autorità preposta.
In definitiva, il principio nemo tenetur se detegere può dirsi (pur problematicamente ancora) rispettato fin tanto che l’oggetto della autodenuncia sia un sospetto di possibile contaminazione, e non la sicura causazione di un inquinamento certo.
Prof. Carlo Ruga Riva
Bibliografia
Sulla permanenza nel reato di discarica abusiva v. D’Avirro, Ancora dubbi sulla portata della permanenza del reato di gestione abusiva di discarica, in Dir. pen. proc. 2013, 1330 ss.; Paone, Discarica abusiva: rilevanza della fase post operativa e permanenza del reato, in A&S 2014, 267 ss; Ruga Riva, La permanenza nei reati ambientali, in A&S 2014, 803 ss.
Sul rapporto tra omessa segnalazione di sospetto inquinamento e principio del nemo tenetur se detegere v. Micheletti, sub art. 257 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in Giunta (a cura di), Codice commentato dei reati e degli illeciti ambientali, II ed., Padova, 2007, 344 s.
Sul reato di omessa segnalazione di sospetto inquinamento v. Cecchini, La vicenda Tamoil: l’avvelenamento di falde acquifere ed il c.d. disastro ambientale – C. Ass. App. Brescia, 20 giugno 2016 (dep. 6 settembre 2016), n. 8, in questo portale, par. 5.