Tribunale di Cassino, sez. penale, collegio A, sent. N. 162/2020 R.G. Sent. (ud. del 6 febbraio 2020).
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Oggetto del provvedimento.
Con la sentenza in commento il Tribunale di Cassino, Sezione Penale collegiale, si pronuncia su un’intricata vicenda giudiziaria che trae origine da un’indagine avente ad oggetto una presunta gestione non autorizzata di rifiuti e un presunto traffico illecito di rottami ferrosi nel porto di Gaeta.
Più precisamente, i compendi ferrosi in questione, provenienti da vari produttori nel territorio nazionale, risultavano essere acquistati da una società straniera con sede all’estero, e depositati in Italia per essere imbarcati, ad opera di altra impresa portuale italiana, sulle navi destinate a trasportare i rottami in paesi extra-europei, dove sarebbero stati utilizzati in fonderie per essere avviati ad un nuovo ciclo produttivo.
All’esito delle indagini, la Procura della Repubblica competente, ravvisando una serie di asserite difformità sostanziali e violazioni di prescrizioni – tra cui quelle di cui al regolamento 333/2011/UE recante i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE – contestava agli imputati e alle imprese interessate la commissione di illeciti ambientali penalmente rilevanti, oltre alla realizzazione di plurime condotte integranti reati contro la pubblica amministrazione.
Le questioni giuridiche affrontate dal Collegio giudicante sono numerose e l’attenzione della presente nota si concentrerà in particolare su due di esse.
Da un lato, si analizzerà l’interconnessione tra la qualificazione degli illeciti ambientali come reati di pericolo, la loro integrazione e i limiti dell’attribuzione soggettiva della responsabilità a tutti i vari soggetti coinvolti nella c.d. catena di gestione dei rifiuti.
Dall’altro lato, si farà brevemente richiamo alla rilevanza della pronuncia assolutoria in relazione all’interpretazione del reato di cui agli artt. 319, 321 riferiti agli artt. 319, 319 bis c.p., con particolare riferimento ai principi di diritto affermati in tema di necessario accertamento del legame sinallagmatico tra utilità e atti contrari ai doveri d’ufficio al fine di ritenere penalmente rilevante la condotta contestata agli imputati.
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Contenuto del provvedimento.
La sentenza n. 162/2020 emessa dal Tribunale di Cassino, Sezione Penale collegiale, trae origine da una vicenda peculiare che ha alla base un contratto stipulato tra i legali rappresentanti di due società, in forza del quale, la prima società, straniera, nell’ambito della sua attività di commercio all’ingrosso di rottami metallici, affidava in esclusiva alla seconda, impresa portuale italiana operante nel porto di Gaeta, i servizi di ricezione, pesatura, pre-accumulo, stoccaggio e imbarco dei rottami ferrosi.
Per quanto di maggiore interesse ai fini della presente nota, il contratto in questione prevedeva che l’impresa portuale italiana, nei quindici giorni precedenti all’imbarco, richiedesse, in nome e per conto della prima, l’autorizzazione alla occupazione dell’area demaniale presso le autorità competenti, sulla quale effettuare il pre-accumulo del materiale in attesa dell’imbarco.
Sempre questa società avrebbe poi dovuto interessarsi al rilascio delle autorizzazioni per la movimentazione del prodotto da parte degli enti competenti. Dal canto suo, la prima società, invece, si impegnava, direttamente o incaricando aziende specializzate, ad «accertare preventivamente al pre-accumulo in area portuale che i rottami di ferro corrispond[essero] pienamente alle specifiche CECA CAT. 01/02/03/04 ASI, CAEF, E UNI e che rientr[assero] nelle tipologie descritte dal Regolamento UE n. 333/2011 del Consiglio del 31.03.2011 e, quindi, non potessero essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio; e respingere prontamente merce eventualmente non conforme».
Ciò premesso, la tesi accusatoria nel procedimento in questione sosteneva che i materiali ferrosi in oggetto, a causa di varie irregolarità e difetti di conformità, non avessero mai cessato la loro qualità di rifiuto ai sensi della direttiva 2008/98/CE, e ciò, segnatamente, per la mancata realizzazione delle condizioni previste all’art. 3 del reg. U.E. 333 del 2011.
Per tale motivo, ad avviso del pubblico ministero procedente, solo soggetti autorizzati alla gestione di rifiuti e nel rispetto delle prescrizioni normative dettate per il trasporto, il deposito e la gestione in genere dei rifiuti – secondo la normativa euro-unitaria e nazionale – avrebbero potuto compiere le operazioni concernenti i compendi ferrosi oggetto di indagine e realizzate dalle società coinvolte.
Al contrario, tali requisiti autorizzatori e di conformità alle prescrizioni imposte, non sarebbero stati osservati dagli imputati, che orientavano le loro condotte alla gestione di merce che aveva oramai cessato la qualifica di rifiuto, così violando, secondo la pubblica accusa, inter alios, gli artt. 256 e 259 D.Lgs. 12 del 2006 contestati ai capi a) e b) dell’imputazione, nonché gli artt. 5 e 25 undecies, comma 2, lett. b) punti 1) e 2), e lettera e) del D.Lgs. 231/2001 contestati alle società interessate sub capi l), m), n) dell’imputazione.
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1. Attività di gestione di rifiuti non autorizzata e traffico illecito di rottami ferrosi: l’accertamento del pericolo. Accertamento dell’offensività in applicazione del regolamento UE 333 del 2011.
Preliminarmente, al fine di meglio capire le ragioni giuridiche poste alla base delle accuse formulate dal Pubblico Ministero nel procedimento in esame, occorre ricostruire sinteticamente la disciplina introdotta dal regolamento n. 333/2011/UE, recante i criteri che determinano le ipotesi in cui alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio.
Segnatamente, il regolamento in parola è il primo atto adottato dalla Commissione europea in esecuzione dell’art. 6 della direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE per il tramite del quale il Legislatore euro-unitario dispone che singole categorie di rifiuti possano cessare di essere considerate tali, così da rientrare nel ciclo produttivo o commerciale dei beni, qualora siano sottoposti a un’operazione di recupero e soddisfino alcuni criteri specifici stabiliti dalla stessa Commissione (c.d. meccanismo End of waste, conforme a quanto stabilito a livello nazionale dall’art. 184 ter D.Lgs. 152/2006).
Oltre a determinare i casi nei quali i rottami di ferro, acciaio e alluminio, inclusi i rottami di leghe di alluminio (art. 1), cessano di essere considerati rifiuti (artt. 3-4), il regolamento n. 333/2011/UE prevede, altresì, che, per raggiungere tale obiettivo/risultato, debbano essere effettuate tutta una serie di procedure preventive (burocratiche e materiali quanto alla gestione ed al trattamento dei rifiuti da operarsi già nel luogo di produzione) imprescindibili per la corretta attuazione della normativa (artt. 5-6).
Per quanto maggiormente rileva ai fini espositivi, l’art. 5, comma 1, del reg. U.E. prescrive che il produttore o l’importatore redigano, per ciascuna partita di rottami metallici, una dichiarazione di conformità, mentre l’art. 6 impone che il produttore di rottami applichi al processo di lavorazione del materiale un sistema di gestione della qualità atto a dimostrare il rispetto di criteri normativi, certificato da un organismo, terzo, di valutazione di conformità.
Rilevante, poi, con riferimento alla pronuncia in commento, risulta anche l’Allegato I del reg. U.E. che combina tra loro i criteri dettati per i rottami di ferro e acciaio con gli obblighi minimi di monitoraggio interno che dovrebbero assicurare la conformità del prodotto ai parametri euro-unitari.
Ciò precisato, nel caso di specie, il Pubblico Ministero, in applicazione del citato regolamento, ha contestato agli imputati: a) la differenza di peso tra quanto indicato nelle dichiarazioni di conformità che accompagnano il materiale ferroso e quanto risulta dalla “pesatura effettiva”; b) la presenza nel cumulo di rottami ferrosi di un contenitore sotto pressione, chiuso o insufficientemente aperto, in contrasto con quanto prescritto dal punto 1.7 dell’allegato I del Regolamento; c) la presenza nel cumulo di rottami ferrosi di materiali sporchi d’olio in contrasto con il punto 1.4, dell’allegato I del Regolamento; d) la presenza nel cumulo di rottami ferrosi di materiali che presentano caratteristiche di pericolo in contrasto con quanto prescritto dal punto 1.6 dell’allegato I del Regolamento; e) altri materiali estranei (tra cui, a titolo esemplificativo, copertoni di macchine e materiali plastici) che non rientravano nella soglia di tolleranza del 2% di cui al punto 1.2. dell’allegato I del Regolamento.
A fronte di tali accuse, al fine di accertare (o meno) la responsabilità penale degli imputati per i reati di cui agli artt. 256, comma 1, lett. a) e b) e comma 2 e 259, comma 1 D.Lgs. 152/2006, il Tribunale di Cassino si è trovato, dunque, a dover valutare in primis l’effettiva violazione delle prescrizioni imposte dal Reg. U.E. (prima fase del giudizio) e, in seconda istanza, e solo in caso di esito positivo del primo accertamento, l’integrazione delle fattispecie contravvenzionali contestate, notoriamente qualificate da dottrina e giurisprudenza come reati di pericolo (seconda fase del giudizio).
A tale riguardo, appare meritevole di attenzione il ragionamento logico-giuridico seguito dai giudici di primo grado per escludere il raggiungimento della prova della violazione delle prescrizioni del regolamento 333/2011/UE, così come contestate dalla pubblica accusa, delimitando il campo di osservazione della presente scheda di commento alle sole difformità sostanziali di cui alle lett. b), c), d).
Innanzitutto, il Tribunale di Cassino, nel valutare la fondatezza dell’interpretazione seguita dal P.M., ha argomentato come essa non fosse allineata al significato letterale delle prescrizioni regolamentari richiamate in tesi di accusa.
Più precisamente, il Collegio sostiene che, secondo la ratio legis, le prescrizioni di cui al Reg. U.E. introducono una «valutazione di pericolosità dei materiali» rispetto ad eventi specifici (quali, ad esempio, l’esplosione in una fornace metallurgica) e non, invece, un divieto in termini assoluti di trattamento dei compendi ferrosi allorquando il pericolo non sussista in concreto.
Inoltre, vale la pena sottolineare che la sentenza nel riferirsi al reg. U.E. 333 del 2011, ha affermato che «pur trattandosi di una prescrizione che non costituisce direttamente una fattispecie incriminatrice», occorre pur sempre fare ricorso alla teorica dei reati di pericolo (così come elaborata dalla dottrina), per escludere la rilevanza delle condotte poste in essere dagli imputati, asseritamente in contrasto con il regolamento U.E. più volte menzionato.
Condivisibilmente, il pericolo viene inteso dal Collegio come elemento della fattispecie complessa derivante dal combinato disposto tra la disposizione di cui all’art. 256 (lo stesso vale per l’art. 259) D.Lgs. n. 152/2006 e, ad esempio, il punto 1.7 dell’allegato I del reg. U.E. n.333/2011 (o, anche, il punto 1.6 del medesimo allegato) che fissa i criteri e gli obblighi di controllo in materia di mancata lesività dei rottami ferrosi.
A tale specifico riguardo, e a giustificazione del ragionamento seguito, l’organo giudicante nel richiamare la connessione tra l’introduzione, nel nostro ordinamento, di fattispecie di pericolo e l’anticipazione della tutela in ragione del bene giuridico protetto, fa riferimento alle contravvenzioni di cui ai capi a) e b) dell’imputazione.
Il Giudice di prime cure, dimostra, poi, di aderire a quell’orientamento (dottrinale e giurisprudenziale) secondo cui esistono tre diverse tipologie di reati pericolo, alla cui diversa qualificazione e definizione consegue l’individuazione di diversi criteri di accertamento in fase di giudizio.
Il Tribunale di Cassino, infatti, nel richiamare la distinzione tra reati di pericolo concreto, reati di pericolo presunto e reati di pericolo astratto, definiti anche astratto-concreto, o illeciti di idoneità, afferma che proprio a tale ultima categoria «pare appartenere il precetto di cui all’allegato 1.7 dell’allegato I del regolamento 333 del 2011, che proibisce la presenza tra i rottami ferrosi di contenitori […] che possano causare un’esplosione».
Negli stessi termini, del resto, pare ragionare anche con riferimento alle altre presunte violazioni del reg. U.E. contestate.
Secondo il Collegio, dunque, il riferimento alla possibilità di causare un’esplosione di cui al punto 1.7, imporrebbe un accertamento sull’idoneità in concreto del materiale in questione a determinare l’evento esplosivo.
Con riferimento alla violazione del punto 1.6 dell’allegato I del reg. U.E. 333/2011, invece, occorrerebbe accertare se i RAEE, rinvenuti nel cumulo di materiale oggetto di indagine, possano – o meno – essere considerati pericolosi, tenuto conto della presenza di talune sostanze o di una certa concentrazione di esse in base alla direttiva euro-unitaria vigente.
In difetto di tale accertata pericolosità (in concreto), nessuna violazione penalmente rilevante può dirsi riscontrata.
In altri termini, ad avviso dell’Organo Giudicante, gli ineludibili accertamenti in relazione all’offensività della condotta, nel caso di specie, non sarebbero stati effettuati; né sarebbe emerso alcunché in sede di istruttoria, ragion per cui – prosegue il Tribunale – non è possibile affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sussistenza delle caratteristiche di pericolosità in seno ai compendi ferrosi.
Ancora, secondo il Tribunale di Cassino, non essendo ravvisabile la prova delle violazioni della disciplina regolamentare, non può che venire a cadere la premessa dell’ipotesi accusatoria ovvero che i rottami in questione, a causa delle paventate difformità con i parametri euro-unitari, non hanno mai cessato la qualifica di rifiuti.
Ragionando diversamente, si correrebbe il rischio di una sovrapposizione pericolosa, questa sì, tra fattispecie penali e mera violazione di prescrizioni amministrative, con buona pace dei principi di offensività, proporzionalità ed extrema ratio.
Sia pur variamente strutturati, del resto, gli illeciti ambientali risultano comunque tutti (o quasi tutti) riconducibili alla categoria dei reati cosiddetti di pericolo presunto, la cui realizzazione viene in essere, non quando sia effettivamente leso il bene giuridico protetto, ma a seguito della realizzazione di condotte che il Legislatore ha assunto come generalmente pericolose, sulla base di leggi di scienza o esperienza.
In altre parole, nei reati di percilo presunto, secondo l’impostazione prevalente in dottrina, sarebbe sufficiente porre in essere un comportamento che non rientri negli standard di sicurezza imposti in via preventiva, perché scatti la presunzione di messa in pericolo del bene ambiente e sia, così, integrato il reato.
A tale riguardo, la stessa giurisprudenza di legittimità, ha di recente affermato che il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata, contestato anch’esso anche agli imputati, è un reato di pericolo, la cui valutazione di offensività del bene giuridico protetto va retrocessa al momento della condotta secondo un giudizio prognostico “ex ante”, essendo irrilevante l’assenza, in concreto, di qualsivoglia lesione, successivamente riscontrata (Cass. Pen., Sez. III, 31.5.2019, n. 47822; Cass. Pen. Sez. III, 17.01.2012, n. 19439).
Sempre ad avviso della Corte di Cassazione, il pericolo di offesa al bene giuridico protetto sorge quando, secondo un giudizio ex ante e secondo le evidenze disponibili certificate dalla migliore scienza ed esperienza, appare probabile che, secondo l’id quod plerumque accidit, dalla condotta consegua l’evento lesivo che il legislatore, anticipando il momento della tutela, intende scongiurare (Cass. Pen., Sez. III, 18.10.2018, n. 4973. Su analoghe posizioni si pone la dottrina: Bernasconi, Ruga Riva)).
Pertanto, se oggi il problema non è più quello di legittimare il ricorso da parte del Legislatore alla categoria del pericolo astratto o a quella del pericolo presunto, in particolare quando ad essere in gioco siano beni collettivi, superindividuali «la cui offesa può essere principalmente soltanto il risultato del cumularsi di una pluralità di condotte, ciascuna delle quali da sola non è in grado di creare un pericolo concreto per il bene» (Marinucci-Dolcini), come avviene nel caso dei reati ambientali, cionondiméno non si possono punire fatti apparentemente riconducibili al tipo, ma in realtà privi della pericolosità pronosticata in sede legislativa e, per l’effetto, inoffensivi.
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2. Responsabilizzazione e cooperazione dei soggetti coinvolti nella catena di gestione dei rifiuti. L’attribuzione della responsabilità sotto il profilo soggettivo e il principio di affidamento.
Come sopra anticipato, ai capi a) e b) dell’imputazione, venivano contestate agli imputati, legali rappresentati delle società succitate, in cooperazione colposa tra loro ex art. 113 c.p., le contravvenzioni di attività di gestione di rifiuti, pericolosi e non pericolosi, non autorizzata, e di trasporto e spedizione illecita degli stessi.
Sotto il profilo soggettivo, secondo la tesi accusatoria, le condotte descritte sarebbero da addebitarsi agli imputati a titolo colposo, in quanto le difformità dalle prescrizioni del reg. U.E. 333 del 2011 «sarebbero state rilevabili ictu oculi e dunque la mancata gestione dei materiali in questione come rifiuti» da parte di soggetti a ciò autorizzati integrerebbe una violazione della diligenza richiesta nel porre in essere le operazioni commerciali in questione.
A tale riguardo, partendo proprio dalla contestata rilevabilità ictu oculi delle difformità, si ritiene di peculiare interesse la parte della motivazione in cui il Collegio affronta il problema della attribuzione soggettiva delle condotte agli imputati, prestando particolare attenzione al fatto che gli stessi, nella loro qualità di detentori, ricevevano i rottami in contestazione dai produttori degli stessi, nell’apparente rispetto di tutte le prescrizioni burocratiche e pratico-operative richiamate al paragrafo 1.
Il vero punctum dolens, come correttamente osservato dal Tribunale, ruota attorno al profilo della c.d. componente oggettiva della colpa.
Più precisamente, nel caso in esame, sostiene l’Organo Giudicante «occorre dunque verificare se sussiste, o è ricavabile dal contesto ordinamentale di riferimento, in capo al detentore successivo di rottami ferrosi una regola cautelare che imponga allo stesso di verificarne la conformità alla disciplina normativa anche in presenza della cessione del rottame da parte del produttore realizzata con gli elementi formali da cui sarebbe deducibile la cessazione della qualifica di rifiuti».
In altri termini, il Giudice di primo grado, riferendosi alla componente normativa della colpa, si interroga sul se e a quali condizioni il rispetto delle sole prescrizioni formali da parte del produttore, ovvero del detentore che cede ad un altro detentore rottami metallici che per la prima volta hanno cessato di essere considerati rifiuti, dispensi gli altri soggetti coinvolti nella catena di gestione dei rifiuti, da ulteriori accertamenti circa la effettiva cessazione della qualifica di rifiuto del materiale ricevuto, pesato, pre-accumulato, imbarcato e poi spedito.
Quella che puntualmente in sentenza viene definita «responsabilizzazione e cooperazione» di tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti, pare in realtà legittimare una qualificazione delle fattispecie contestate a titolo di colpa in relazione ad attività che vedono coinvolti beni di alto rango, quale l’ambiente, integrate nell’espletamento di attività produttive ed imprenditoriali, come fenomeni criminosi che si realizzano in forma prevalentemente plurisoggettiva, sia essa sincronica o diacronica, consapevole o meno.
Tale lettura implica in sé che la responsabilità per la produzione, messa in circolazione, smaltimento e successivo reimpiego di materiali pericolosi si contraddistingua innanzitutto per essere un’ipotesi di responsabilità plurisoggettiva, nell’ambito della quale i soggetti coinvolti possono essere, secondo i dettami del reg. U.E., produttore, importatore, organo certificatore, personale qualificato e detentore.
Ad un esame critico, e ponendo a confronto anche altre attività proprie della c.d. società del rischio, quali la produzione industriale o l’attività d’équipe, in relazione a tale profilo si potrebbe prospettare che le attività di produzione, gestione, smaltimento dei rifiuti rappresentino oggi, in una visione di insieme, una sorta di “concatenazione funzionale e cronologica di posizioni” nell’ambito della quale tutti i soggetti potenzialmente coinvolti possono ben apportare il proprio contributo causale e psicologico alla realizzazione dell’evento dannoso e/o pericoloso, anche per la necessaria frammentazione in più fasi dell’attività produttiva, distributiva e di reimpiego dei materiali e il necessario coinvolgimento di plurime e diverse competenze.
Sotto il profilo dell’imputazione colposa, però, ciò che si deve evitare è che, in ipotesi simili a quelle in esame, si dia spazio all’imputazione dell’evento basata esclusivamente sulla teoria dell’aumento del rischio (o della mancata minimizzazione dello stesso), considerando gli apporti di tutti i soggetti coinvolti come teoricamente meritevoli di pena in quanto fattori di aumento o di omessa riduzione della lesione.
In relazione a tale aspetto, il Giudice di primo grado afferma che nella ricostruzione della regola cautelare (riferendosi quindi alla componente oggettiva della colpa) debba tenersi in considerazione il fatto che «la disciplina introdotta dal reg. U.E. 333/2011 fa discendere la perdita della qualifica di rifiuto non solo dalla presenza di elementi formali, quali la provenienza da un produttore dotato di un sistema di gestione di qualità certificato e dalla presenza della dichiarazione di conformità, ma anche dalla presenza di requisiti sostanziali, quali appunto la conformità del trattamento e dei materiali ai dettami di cui all’allegato I. Il detentore successivo, dunque, intanto può agire come detentore di una materia che ha cessato la qualifica di rifiuto, in quanto detenga un materiale che, anche sotto i profili sostanziali, sia conforme alle prescrizioni ordinamentali».
Sulla base di tali argomentazioni, dunque, il Tribunale di Cassino ritiene che il detentore successivo di rottami ferrosi che acquisti tali materiali da un produttore dotato di un sistema di gestione della qualità certificato ed in presenza di una certificazione di conformità redatta secondo le prescrizioni del reg. U.E. 333 del 2011 sia ad ogni modo tenuto a verificare anche la conformità sostanziale di tali rottami alle prescrizioni regolamentari qualora emergano comunque elementi concreti tali da sollevare dubbi in ordine alla conformità del materiale e alla veridicità della dichiarazione rilasciata dal produttore.
Con riferimento specifico al caso in esame, preme sottolineare che, per quanto riguarda le verifiche di cui ai punti 1.4, 1.6 e 1.7 dell’allegato I, il reg. U.E. 333 del 2011 impone al produttore dei rottami ferrosi il “controllo visivo” degli stessi.
Ne discende che, se come nel caso di specie, la quantità di materiali estranei riscontrata è risibile in rapporto al quantitativo complessivo e difficilmente percettibile attraverso un controllo visivo, il Collegio, in maniera del tutto condivisibile, ha concluso che non può immaginarsi di esigere uno standard di controllo superiore al detentore successivo dei rottami rispetto a quella pretesa dal produttore.
A ciò si aggiunga che gli imputati potevano fondare un legittimo affidamento sul rispetto del reg. U.E. anche in quanto, come dichiarato nelle stesse relazioni dell’ARPA acquisite agli atti, ciascuna partita di rottami proveniva da un produttore autorizzato, dotato di un sistema di gestione della qualità certificato da un ente terzo, per di più accompagnata da una “dichiarazione di conformità” che attestava il rispetto dei criteri che i rottami ferrosi debbono avere per far cessare la qualifica di rifiuto.
L’insieme di queste considerazioni ha indotto il Tribunale di Cassino ad escludere in capo agli imputati profili di responsabilità anche sotto il profilo soggettivo.
A tale specifico riguardo a parere di chi scrive il punto di maggiore riflessione in relazione a tale profilo è la parte della motivazione in cui l’Organo Giudicante ritiene che nell’individuare i criteri che presiedono a tale valutazione di conformità occorre fare richiamo alle regole generali in tema di accertamento colposo e, in particolare, al c.d. principio di affidamento.
L’essenza unitaria della responsabilità colposa, infatti, come è noto si riscontra nel rimprovero mosso al soggetto agente per aver realizzato, involontariamente, ma pur sempre attraverso la violazione di regole doverose di condotta, un fatto di reato che egli poteva evitare mediante l’osservanza, esigibile, di tali regole.
Ne consegue che la riconoscibilità ictu oculi evocata dal Collegio diventa – o meglio è – un parametro necessario ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale oltre ogni ragionevole dubbio anche e, forse a maggior ragione, in presenza di dichiarazioni di conformità, certificazioni e omologazioni e coinvolgimento di altri soggetti nella catena di gestione dei rifiuti.
Invero si può confidare nel diligente comportamento altrui, anche alla luce di quanto sostenuto e argomentato dal Giudice di prime cure, a meno che le circostanze del caso concreto non facciano ritenere che si tratti fiducia infondata.
Detto in altri termini, solo la riconoscibilità della condotta inosservante di un terzo e, quindi, di qualsiasi altro soggetto che “interferisca” con gli altri soggetti coinvolti nella catena di gestione dei rifiuti, è idonea a fondare l’addebito di colpa, in quanto solo la riconoscibilità accertata in concreto, secondo il parametro dell’homo eiusdem condicionis et professionis, consente di rimproverare all’agente la mancata adozione di unquid pluris di prudenza obiettivamente esigibile (di recente in giurisprudenza ex multis, Cass. pen. Sez. IV, 21.11.2019, n.49774).
In conformità alla vigenza nel nostro ordinamento dell’art. 27, comma 1, Cost. e del conseguente divieto di responsabilità per fatto altrui e mero versari in re illicita, infatti, l’obbligo di diligenza gravante sui consociati, legittimamente imposto dall’ordinamento nel momento in cui lo stesso autorizza lo svolgimento di attività socialmente utili ma rischiose, come la gestione di rifiuti, non può (e non deve) estendersi fino all’ultra posse. Del resto, riconoscere che possa esistere un obbligo generico e, per di più, astratto di prevedere le imprudenze altrui comporterebbe conseguenze di non poco momento anche in punto di tenuta dei principi cardine del diritto penale.
Da un lato, esso potrebbe depauperare la portata preventiva delle norme cautelari introdotte dal Legislatore o tratte dalla prassi e, dall’altro, potrebbe essere tale da legittimare un’aspettativa c.d. a contrario nel singolo.
Ancor più sinteticamente, se il terzo con cui, necessariamente o eventualmente, interagisco deve, perché così è previsto, farsi carico anche del controllo e della prevenzione delle imprudenze dipendenti dalla mia condotta, ne consegue che io sarò autorizzato ad abbassare il livello della mia attenzione verso il bene giuridico protetto.
Pertanto, per una maggiore responsabilizzazione guidata dal crisma dell’art. 27, comma 1, Cost. si concorda con l’interessante lettura offerta da parte della dottrina più recente (Castronuovo) che parla di giustificazione di “modelli a precauzione bilaterale e diffusa” in cui sia autore che vittima potenziale sono chiamati a prevenire la realizzazione del danno.
Nel nostro caso, dunque, dove a rilevare è una concatenazione funzionale e cronologica di posizioni, ancor meglio si dovrebbe/potrebbe parlare di “modelli a precauzione multilaterale”, in cui ad essere chiamati in causa sono tutti i soggetti potenzialmente coinvolti, ben oltre la figura del produttore.
Una delle conseguenze che da tale impostazione può derivare, è proprio il riconoscimento di quanto sia nevralgica, in certi contesti produttivi e pericolosi, la spendibilità e l’applicabilità di un principio di affidamento, anch’esso in senso multilaterale e diffuso.
Multilaterale perchè coinvolge tutti i soggetti implicati nella catena produttiva, distributiva, diffusiva del rifiuto ed in grado di incidere con il loro contributo alla realizzazione del reato oltre al produttore: distributori, organi di controllo o di certificazione della qualità, detentori, tecnici.
Diffuso (o senza tempo), perchè basato su un atteggiamento di fiducia nella prudente condotta altrui, non solo, quella futura, ma anche quella antecedente e già conclusa da soggetti terzi, ma pur sempre in posizione relazionalmente rilevante.
Pertanto, anche se non può certo essere sminuita l’importanza della consapevolezza di cooperare con altri nello svolgimento di attività utili – ma pericolose – che potrebbe giustificare l’applicazione, a seconda degli elementi concreti, dell’art. 113 c.p (così come contestato nel caso in esame), non può revocarsi in dubbio che, anche in situazioni di gestione coordinata del rischio o in presenza di circostanze contingenti, ma oggettive di correlazione tra condotte, il dovere di prevedere e prevenire le imprudenze altrui trova (e deve continuare a trovare) il suo limite naturale nella riconoscibilità del difetto e/o dell’imprudenza.
Per tale motivo, anche in caso di consapevolezza dell’apporto di condotte di terzi nello svolgimento di attività rischiose, come nel rapporto tra produttore e detentore di rifiuti, qualora in concreto non risulti evidente il difetto e/o in generale l’imprudenza, negligenza, imperizia degli altri soggetti coinvolti, sarebbe contrario al principio nullum crimen, nulla poena sine culpa ritenere comunque integrata un’ipotesi di cooperazione colposa, correttamente esclusa dal Tribunale di Cassino nel caso de quo.
Non essendo stata raggiunta la prova circa la realizzazione dei reati di cui ai capi a) e b) dell’imputazione, né sotto il profilo oggettivo né sotto il profilo soggettivo, ne discende, quale conseguenza logico-giuridica, anche l’assoluzione delle due società interessate dagli illeciti amministrativi loro ascritti ai capi l), m) e n), ex artt. 5 e 25 undecies, comma 2, lett. b) punti 1) e 2), e lettera e) del D.Lgs. 231/2001, perché il fatto non sussiste.
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3. La corruzione propria e il legame sinallagmatico tra utilità e atti contrari ai doveri d’ufficio.
Le indagini che hanno avuto ad oggetto inizialmente il traffico di rottami ferrosi hanno poi condotto anche alla contestazione ai capi da a1) a g1) di numerosi fatti che integrerebbero gli estremi di reati contro la pubblica amministrazione realizzati dall’amministratore dell’impresa portuale operante nel porto di Gaeta e dal dirigente della sede locale dell’autorità portuale, in concorso tra loro.
Di peculiare interesse il capo b1) di imputazione in cui viene contestato ai soggetti sopra indicati il delitto di corruzione propria, rispettivamente attiva e passiva, aggravata ai sensi dell’art. 319 bis c.p. per avere, nelle loro rispettive qualità, compiuto atti contrari ai doveri del proprio ufficio tra cui condotte aventi ad oggetto la stipulazione di contratti nei quali era interessata l’amministrazione di appartenenza del pubblico ufficiale (autorità portuale) in relazione al traffico di rifiuti.
Come è noto l’art. 319 c.p. riformato, punisce il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa.
Ciò premesso, l’illecito mercimonio contestato nel caso in questione sarebbe consistito per la pubblica accusa nella realizzazione di una serie di atti contrari ai doveri di ufficio ad opera del dirigente della sede locale dell’autorità portuale, in favore della predetta impresa portuale italiana coinvolta nel richiamato traffico illecito di rifiuti, a fronte del conferimento di un’utilità, da parte del legale rappresentante di quest’ultima, consistita nell’assunzione di un soggetto espressamente segnalato dal pubblico ufficiale, quale impiegato di III livello, con contratto prima a tempo determinato e poi indeterminato.
Il Collegio, dopo aver escluso il raggiungimento della prova circa la contrarietà ai doveri d’ufficio degli atti indicati al capo b1), tra cui proprio il rilascio di autorizzazioni connesse alla gestione e al traffico illecito di rottami ferrosi contestato negli altri capi di imputazione, concentra la propria attenzione sull’elemento dell’utilità prescritto dalla norma ritenendo che accertare la sussistenza di un sinallagma tra le due prestazioni, sia elemento essenziale affinché si possa affermare l’esistenza di un accordo corruttivo.
Sul punto, il Tribunale evidenzia come, anche nell’ipotesi in cui fosse raggiunta la prova della sussistenza del legame sinallagmatico tra le due prestazioni, si sarebbe pur tuttavia potuta sostenere in giudizio la realizzazione della più tenue fattispecie di cui all’art. 318 c.p. che disciplina il reato di corruzione per l’esercizio delle funzioni, alla luce dell’ormai pacifico orientamento giurisprudenziale in forza del quale tra i due reati esiste un rapporto di specialità.
A tale riguardo, merita di essere richiamata la parte della sentenza in cui il Tribunale, nel ripercorrere l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di necessità di un legame sinallagmatico tra atto e condotta funzionale (corruzione per l’esercizio della funzione) o atto contrario ai doveri d’ufficio (corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio), con specifico riferimento ai delitti di cui agli artt. 318 e 319 c.p., afferma che «non è sufficiente che il passaggio attuale o potenziale avvenga in ragione della qualità o del ruolo rivestiti dall’agente; occorrendo che l’utilità sia avvinta da un legame sinallagmatico con la realizzazione di una condotta funzionale».
Deve esservi, in pratica, una soddisfazione concreta e sinallagmaticamente collegata all’atto contrario ai doveri d’ufficio e non meramente derivante dalla qualifica o dal ruolo dei soggetti coinvolti.
Traslati tali principi al caso di specie e accertato che non è stata raggiunta la prova circa il fatto che l’accordo fosse soggettivamente riconducibile al legale rappresentante dell’impresa portuale che mai si era occupato di assunzione di impiegati di medio-basso livello, e che nulla a tale proposito era emerso dalle numerosissime intercettazioni telefoniche. Osservato, inoltre, che l’utilità presunta era stata soddisfatta dopo più di un anno dalla realizzazione dei primi atti contestati, e che vi era una sproporzione non trascurabile tra utilità e atto, oltre alla considerazione che non è stata fornita la prova del fatto che tale utilità costituisse il corrispettivo per la realizzazione degli atti individuati nel capo di imputazione, il Collegio ha pronunziato una sentenza di assoluzione nei confronti di entrambi gli imputati perché il fatto non sussiste.
Concludendo, il Tribunale di Cassino non ha fatto altro che confermare un orientamento giurisprudenziale datato (Cass. Pen., sez. VI, 19.09.1997), ma consolidato, secondo cui «l’incontro di consensi tra corruttore e corrotto concerne, infatti, la negoziazione illecita di un atto individuato nel suo oggetto e portata, e questo, perché il concetto di retribuzione in subiecta materia, implica una controprestazione che richiede, a sua volta, un determinato termine di riferimento». Posizione, peraltro, ribadita anche in seno alla dottrina e che trova riscontro anche nella concezione mercantile della corruzione che caratterizza la Legge 190/2012.
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Collegamenti con altre pronunce.
Sulla qualificazione delle contravvenzioni ambientali quali reati di pericolo:
Cass. Pen., Sez. III, 18.10.2018, n. 4973;
Cass. Pen., Sez. III, 31.5.2019, n. 47822;
Cass. Pen. Sez. III, 17.01.2012, n. 19439.
Sull’accertamento della responsabilità colposa e principio di affidamento:
Cass. Pen. Sez. IV, 21.11.2019, n. 49774 in Cass. Pen. 2020, 5, 2000;
Cass. Pen. Sez. IV, 12.02.2019, n. 30626 in Riv. It. Med. Leg. 2019, 4, 1555;
Cass. Pen. Sez. IV, 08.01.2019, n. 5893;
Cass. Pen. Sez. IV, 06.12.2017, n.7664;
Sul legame sinallagmatico tra utilità e condotta funzionale nei reati di corruzione:
Cass. Pen. sez. VI, 18.07.2019, n. 51126, in Cass. Pen. 2020, 7-08, 2871;
Cass. Pen., sez. VI, 26.04.2019, n. 33828;
Cass. Pen., sez. VI, 25.09.2014, n. 49226, in Cass. Pen. 2015, 1415;
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Dottrina e riferimenti bibliografici.
A. BERNASCONI, Il reato ambientale. Tipicità, offensività, antigiuridicità, colpevolezza, Pisa, 2008, 119 ss.
A. CANEPA, L’imputazione soggettiva della colpa, Torino, 2011;
M. CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura “sanzionatoria”, Padova, 1996;
M. CATENACCI, I reati ambientali e il principio di offensività, Riv. Quad. dir. pen. amb., Torino, 2010;
D. CASTRONUOVO, La colpa penale, Milano, 2009;
M. DONINI, Prassi e cultura del reato colposo, 2019, in Dir. Pen. Cont. 2019;
MANTOVANI F., Il principio di affidamento nel diritto penale, Riv. it. dir. pen. proc., 2009, 536;
MANTOVANI M., Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997;
C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016;
L. SIRACUSA, La tutela penale dell’ambiente. Bene giuridico e tecniche di incriminazione, Milano, 2007, 70 ss.
Avv. Francesca Pontis