Tribunale penale di Ancona, in composizione collegiale, sent. n. 1033/2020 (ud. 8 ottobre 2020, dep. 2 novembre 2020).
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Oggetto del provvedimento
Il Tribunale di Ancona in composizione collegiale si è trovato recentemente ad affrontare la questione della configurabilità dei reati di impedito controllo, di cui all’articolo 2625, comma 2, c.c., e di infedeltà patrimoniale, di cui all’art. 2634 c.c., a carico dell’amministratore di società a responsabilità limitata e del prossimo congiunto di costui, socio al 50% della medesima compagine societaria, concorrente esterno nei reati ipotizzati, ai danni della società e dell’altro socio per il restante 50% nonché coamministratore. L’imputato è stato chiamato a rispondere anche del reato di appropriazione indebita, cui all’art. 646 c.p., per aver indebitamente tratto dal conto corrente intestato alla società una somma di denaro, poi fatta confluire nel proprio conto corrente personale.
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Contenuto del provvedimento
La pronuncia in commento ha affrontato numerose questioni giuridiche sottese al caso in oggetto, in cui agli imputati era stato, anzitutto, contestato di aver precluso al socio-amministratore (parte lesa, costituitosi parte civile), lo svolgimento delle attività di controllo sulla società, anche mediante l’espediente della stipula di un contratto di affitto di ramo d’azienda, che, di fatto, aveva sottratto a costui l’intera gestione della struttura alberghiera di titolarità della società oltre ai profitti derivanti dalla stessa, cagionando alla società e al predetto socio un danno individuato dalla Pubblica Accusa nell’impossibilità, da un lato, di risolvere il contratto di affitto in parola, dall’altro lato, di attivarsi per impedire il compimento, da parte del (solo) coamministratore imputato, del reato di appropriazione indebita, ex art. 646 c.p.
Il predetto contratto di affitto di ramo di azienda era stato stipulato dal coamministratore imputato, con la complicità del proprio congiunto (quale extraneus concorrente morale nei reati ascritti), con una società affittuaria creata allo scopo e riconducibile agli stessi imputati, i quali si trovavano, così, in una posizione di conflitto di interessi con quelli della società cedente. Il prezzo convenuto per l’affitto del bene si era mostrato palesemente vile ed incongruo e tale da aver cagionato intenzionalmente alla cedente un danno patrimoniale, consistito in una deminutio patrimonii e nel mancato maggior introito che si sarebbe potuto ottenere mediante la gestione autonoma dell’impresa. In tal modo, peraltro, l’altro coamministratore e socio (che aveva avuto conoscenza del contratto di affitto in questione solo a seguito della stipula dello stesso atto, sottoscritto unicamente dal coamministratore imputato, per via dei suoi pari poteri gestori esercitabili anche in via disgiunta), era stato estromesso de plano dall’amministrazione e dalla gestione della società, nonché quale socio dai proventi dell’attività svolta dall’impresa.
I temi di peculiare interesse rinvenienti dalla decisione in questione, riguardano, in particolare: a)l’individuazione e la prova del danno provocato dalle condotte di impedito controllo, quale elemento costitutivo del reato di cui all’art. 2625, comma 2, c.c., nonchè la necessaria sussistenza del nesso eziologico tra il danno stesso e le condotte di impedimento; b) la definizione del danno quale evento del reato di infedeltà patrimoniale, di cui all’art. 2634 c.c.; c) il concetto di conflitto di interessi rilevante ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale.
- Il danno quale elemento costitutivo del reato di cui all’art. 2625, comma 2, c.c.
La pronuncia in commento, dopo aver tratteggiato in maniera analitica i fatti sottesi alle varie ipotesi accusatorie, evidenzia come, dall’istruttoria dibattimentale, sia emersa con chiarezza la sussistenza dei fatti di impedito controllo contestati agli imputati. Tali fatti, nello specifico, sono consistiti: nella repentina estromissione fisica del socio amministratore dai locali della sede sociale, ove erano conservate tutte le scritture contabili della società e il relativo archivio, avvenuta dapprima con la sostituzione della serratura del portone di accesso, poi con le perentorie diffide verbali ad allontanarsi e a non ritornare presso la sede sociale; nel fatto di aver impedito, tramite modifica unilaterale delle credenziali password, l’accesso di quest’ultimo alle caselle mail e pec con le quali veniva gestita l’attività amministrativa dell’impresa anche all’esterno; nel rifiuto e/o nell’ingiustificato ritardo nella trasmissione e consegna della documentazione contabile della società, necessaria affinché il socio coamministratore potesse assolvere tutte le incombenze amministrative e gestorie attribuitegli per legge nell’esercizio dell’impresa.Purtuttavia, il Collegio giudicante, sebbene abbia ritenuto che tali condotte ostruzionistiche, accompagnate dalla volontà di pretermettere il soggetto passivo del reato dalla gestione della società, siano state capaci di integrare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo di cui all’art. 2625, comma 1, c.c., ha evidenziato come tali comportamenti illeciti non fossero, invece, sufficienti ad integrare il reato di cui all’art. 2625, comma 2, c.c., difettando, nel caso de quo, l’evento naturalistico del reato, ovvero il danno, quale elemento costitutivo tipico della fattispecie delittuosa.
A tale riguardo il Tribunale di Ancona ha rilevato in sentenza come il duplice pregiudizio per il socio – rappresentato, per un verso, dalla profilata impossibilità per costui di attivarsi al fine di risolvere il predetto contratto d’affitto di ramo d’azienda e, per altro verso, dall’impossibilità del medesimo di impedire i citati fatti di appropriazione indebita -, nella prima ipotesi, non poteva sussistere, mentre, nella seconda ipotesi, non poteva ritenersi eziologicamente correlato alla condotta, pur accertata, di impedito controllo.
Nello specifico, con riferimento al primo profilo di danno individuato in sede di imputazione e consistito nell’impossibilità per il socio di risolvere il contratto d’affitto del ramo d’azienda, il Giudice di prime cure ha evidenziato come lo stesso nocumento, nel caso di specie, non si fosse profilato, poiché il socio sarebbe stato comunque in grado di attivarsi tempestivamente in sede civile per chiedere la risoluzione del contratto in parola, a prescindere dall’esito fruttuoso delle azioni da costui intraprese; mentre, con riguardo al secondo profilo di danno, il Tribunale ha evidenziato come l’appropriazione indebita delle somme appartenenti alla società non fosse causalmente riconducibile alle condotte di impedito controllo, quanto piuttosto al fatto che l’imputato amministratore, con poteri disgiunti e parificati rispetto all’altro coamministratore, aveva potere di accesso autonomo al conto corrente della società, da cui ha sottratto l’importo in contestazione.
L’organo giudicante si è da ultimo soffermato sulla posizione della c.d. extranea imputata, socia al 50% della società lesa, precisando che, in materia di reati societari, è pacificamente configurabile il concorso di persone, come affermato da costante giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 21.04.2017 n. 35767, dep. 20.07.2017; Cass. pen., Sez. V, 15.05.1999, n. 7600, dep. 11.06.1999).
Sulla scorta delle considerazioni di cui sopra il Collegio, limitatamente all’ipotesi delittuosa contestata di cui all’art. 2625, comma 2, c.c., ha pronunciato sentenza assolutoria nei confronti di entrambi gli imputati, con la formula perché il fatto non sussiste, per difetto dell’elemento costitutivo del danno ad integrazione della fattispecie di cui all’art. 2625, comma 2, c.c.
Ha, però, ordinato la trasmissione degli atti all’Ufficio sanzioni della Camera di Commercio per l’illecito amministrativo di cui al primo comma della disposizione da ultimo citata.
Come innanzi evidenziato, la sentenza qui annotata esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 2625, comma 2, c.c., dal momento che, da un lato è stato ritenuto insussistente, sul piano probatorio, il danno individuato nell’impossibilità per il socio di attivarsi ai fini della risoluzione del contratto pregiudizievole; dall’altro lato, è stato evidenziato che non sussiste nesso eziologico tra il prospettato nocumento della impossibilità di impedire l’appropriazione indebita dell’amministratore indagato e la sua condotta di impedito od ostacolato controllo.
In proposito, occorre rammentare che la disposizione incriminatrice di cui all’art. 2625 c.c. si articola su una duplice struttura, che suddivide la norma nelle due corrispondenti ipotesi di illeciti, rispettivamente rinvenibili al primo e al secondo comma; nel primo caso, la disposizione normativa in questione assume la forma dell’illecito amministrativo; nel secondo caso, quella dell’illecito penale, a seconda che sia o meno realizzato un danno ai soci, come conseguenza eziologicamente discendente dalle condotte di impedito controllo.
Tornando al caso per cui è stata pronunciata la sentenza qui annotata, il Tribunale collegiale di Ancona, al fine di accertare o meno la responsabilità penale degli imputati per il reato di cui all’art. 2625, comma 2, c.c., si è trovato a dover valutare, in prima istanza, se il danno, così come prospettato nell’imputazione e ravvisato nel duplice pregiudizio sopra delineato, fosse davvero sussistente; in seconda battuta, se il pregiudizio, ancorchè sussistente, fosse causalmente riconducibile alla condotta di impedito controllo e, dunque, rilevante ai fini dell’integrazione del delitto ascritto agli imputati.
Con riferimento, pertanto, al primo profilo, il problema che si è posto il Collegio ha specificamente riguardato il tema della prova della sussistenza del danno, così come dedotto in imputazione.
In questa prospettiva, la prova del danno non è stata ritenuta raggiunta, poiché, come si evince dal testo della pronuncia in commento, l’indagine del Tribunale è rimasta circoscritta alla osservazione circa la possibilità per il socio di attivarsi ai fini della risoluzione del contratto pregiudizievole, dal momento che lo stesso si era potuto procurare tempestivamente l’atto negoziale ed intraprendere azioni giudiziarie finalizzate alla eventuale rimozione degli effetti lesivi del contratto d’affitto di ramo aziendale.
D’altra parte, recente giurisprudenza di legittimità ha affermato la necessità che il danno, elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice in questione, debba essere adeguatamente identificato e provato (Cass. pen., Sez. 5, 14.07.2017 n. 44053, dep. 25.09.2017).
Rispetto, poi, al secondo danno ipotizzato nell’incolpazione, la questione affrontata dall’organo giudicante ha riguardato specificamente il tema del collegamento causale, che necessariamente deve sussistere tra il danno e la condotta di impedito controllo tenuta dall’agente, senza il quale non può ritenersi integrata la fattispecie delittuosa di cui al comma secondo dell’art. 2625 c.c.
Sotto questo secondo aspetto, per comprendere le motivazioni a sostegno della scelta decisionale svolta in sentenza, occorre dapprima evidenziare come il reato si consumi con il verificarsi dell’evento dannoso che, in quanto tale, non può non essere connesso sul piano eziologico alla condotta di impedito controllo.
D’altronde, è proprio il tenore letterale della norma da ultimo citata, che esordisce testualmente con l’espressione «se la condotta ha cagionato un danno ai soci», a far propendere per qualificare il danno alla stregua di elemento costitutivo del reato e non di condizione obiettiva di punibilità. Ne consegue, perciò, la necessità che la condotta di impedito od ostacolato controllo dell’agente esplichi efficacia eziologica rispetto alla verificazione del danno in capo ai soci.
Nello stesso senso, infatti, un attento commentatore ha evidenziato come anche «la giurisprudenza di legittimità (cfr. cass. sez. V, sent. n. 11639, 18.01.2012, dep. il 27.03.2012; cass. sez. V, sent. n. 38393, 16.04.2012) sia a tutt’oggi orientata a considerare il danno ai soci un elemento imprescindibile della fattispecie delittuosa di impedito controllo, anziché alla stregua di una mera condizione di punibilità, come l’utilizzo della formula “se la condotta ha cagionato un danno ai soci” nell’incipit del II° comma dell’art. 2625 c.c. ha fatto pensare a qualche commentatore (V. Plantamura, La responsabilità degli amministratori per l’impedimento delle attività di controllo nella riforma del diritto penale societario, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2002, fasc. 1-2, 345-352)» (Tribunale di Rimini, sent. 11 luglio 2017, in Dpei.it, con nota di S. Bruno. Senza la prova del danno (patrimoniale) ai soci, gli amministratori non rispondono del reato di impedito controllo di cui all’art. 2625, n. 2, c.c.).
La consumazione del reato in esame, perciò, si perfeziona con il verificarsi dell’evento di danno previsto dalla norma, necessariamente successivo alla condotta dell’impedimento del controllo, poiché a questa legata da un rapporto di causalità. In base alla ricostruzione interpretativa della Suprema Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. V, 27.03.2012, n. 11639; Cass. pen., Sez. V, 25.09.2017, n. 44053) il danno descritto dalla fattispecie normativa in esame rappresenta pertanto l’evento consumativo del reato.
Ne consegue che solo la prova della sussistenza di esso e del suo legame di derivazione causale della condotta di impedimento del controllo possono integrare la fattispecie delittuosa prevista dal secondo comma dell’art. 2625 c.c.
Il Collegio giudicante, pertanto, di fronte al danno che sarebbe derivato al socio dall’impossibilità di impedire i sopra descritti fatti di appropriazione indebita ad opera del coamministratore imputato, ha osservato come questo pregiudizio non potesse ritenersi eziologicamente correlato alla condotta, pur accertata, di impedito od ostacolato controllo, in quanto esso è derivato (lo si è già accennato) dalla possibilità, per l’amministratore imputato, di accedere autonomamente ai conti della società, in forza dei propri poteri disgiunti, amministrativi e gestori, ad esso spettanti per statuto.
2. Sulla definizione del danno evento del reato di infedeltà patrimoniale.
La pronuncia in commento prosegue, poi, con la disamina dei fatti di cui all’imputazione, affermando che «sono invece integrati tutti gli elementi costitutivi del delitto previsto dall’art. 2634 c.c.» (cfr. pag. 12, sentenza annotata), consumato dall’amministratore imputato in concorso con l’extranea, prossima congiunta di costui e socia per il 50% delle quote della società lesa.In particolare, il Collegio rileva come gli imputati, con l’espediente della stipula del contratto di affitto di ramo di azienda, abbiano intenzionalmente conseguito il trasferimento verso una società cessionaria, apparentemente terza, ma di fatto ad essi riconducibile, di tutto il margine di redditività della società cedente, sottraendo la gestione alberghiera dell’immobile di sua proprietà alla stessa.
Ad avvalorare questa tesi, invero, stanno anzitutto le emergenze istruttorie concernenti il prezzo di stipula del contratto di affitto d’azienda, apparso al Collegio manifestamente irrisorio e «dissennatamente esiguo» (cfr. pag. 13, sentenza annotata), tale, perciò, da aver cagionato un danno evidente alla società cedente, in quanto, non soltanto profilatosi distante rispetto ai valori OMI applicabili nella zona in cui si trova la struttura alberghiera affittata e alla tipologia di struttura stessa, ma addirittura inferiore ai costi minimi fissi della gestione ordinaria e straordinaria dell’azienda (questi ultimi, peraltro, sarebbero rimasti a carico della società concedente anche a seguito dello spoglio della gestione) e tale da non aver, vieppiù, consentito alla cedente di recuperare neanche le spese straordinarie ed ordinarie, già sostenute per l’avviata apertura stagionale, passata improvvisamente nelle mani della società cessionaria al momento della stipula del contratto di affitto di azienda alberghiera.
L’esiguità del canone di affitto convenuto, pregiudizievole per gli interessi societari, è stata, altresì, dedotta dal Tribunale di Ancona dalla misura largamente superiore in termini di prezzo (rispetto all’importo del canone convenuto con la cedente), offerta da altri soggetti interessati alla gestione alberghiera nel corso della fase liquidatoria, a cui la società aveva fatto ricorso, attesa la pervasiva conflittualità all’interno della compagine sociale e la mancata approvazione degli ultimi bilanci di esercizio da parte dell’assemblea.
Evidente, pertanto, che, se il prezzo di affitto della struttura alberghiera fosse stato congruo, si sarebbero dovute profilare, nel frangente della liquidazione, offerte significativamente più esigue rispetto al canone locatizio stipulato quattro anni prima, e non, invece, largamente più profittevoli per la società in liquidazione, giàcchè il bene, al momento delle offerte era stato già gravato dell’esecuzione di sequestri, dall’accesa conflittualità tra gli amministratori e dalla perdita dell’avviamento. Per tali motivi la sentenza annotata definisce il «canone talmente esiguo da determinare ex seuna perdita patrimoniale (danno emergente) alla società concedente» (cfr. pag. 13, sentenza annotata).
Alla voce di danno emergente, inoltre, il Collegio aggiunge, anche quella del lucro cessante, quale componente intrinseca e strutturale del più ampio genus di «danno patrimoniale», espressamente richiesto dalla norma di cui all’art. 2634 c.c. per la sussistenza del delitto di infedeltà patrimoniale.
Invero, nella decisione passata in rassegna viene affermato che: «non a caso, il danno patrimoniale è, notoriamente, composto da due voci, il danno emergente e il lucro cessante e non sussiste alcun elemento testuale, né tanto meno sistematico, per ritenere che l’art. 2634 c.c., quando si esprime chiaramente con riferimento a società commerciali, al “danno patrimoniale” si riferisca soltanto al danno emergente, come invece ha opinato il Tribunale del Riesame (peraltro limitandosi a considerare l’entità dei costi fissi per gli adempimenti civilistici e fiscali e non anche tutte le altre spese come sopra individuate, che vanno senz’altro a comporre lo spettro del danno emergente), e nonché invece al lucro cessante, che del “danno patrimoniale” è componente intrinseca e strutturale» (cfr. pag. 14, sentenza annotata).
La sentenza, sul punto, dà conto di una precedente ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame, facendo propria, tra le altre ragioni, una concezione di danno epurato dalla voce del lucro cessante, aveva annullato il decreto di sequestro preventivo disposto dal GIP sul bene aziendale di titolarità della società de quo.
Tale impostazione, però, è apparsa errata al Giudice di primo grado, che, difatti, nella sentenza qui annotata ha rilevato come la società lesa non fosse «un ente benefico ma una società commerciale, il suo obbiettivo statutario non era e non poteva essere solo quello di evitare danni emergenti e del pareggio di bilancio, ma anche quello di conseguire un guadagno» (cfr. pag. 14, sentenza annotata).
Ciò, a significare che la norma incriminatrice, postulando l’esigenza che il pregiudizio per la società incida sul patrimonio della stessa, ricomprende nel concetto di danno ogni privazione o diminuzione del complesso dei beni e delle sostanze economiche che compongono il patrimonio della stessa presente e futuro e, perciò, sia il danno emergente, sia il lucro cessante, in linea con l’orientamento dottrinario prevalente e consolidato.
Con il corollario che il Collegio ha ritenuto che l’esegesi restrittiva operata dal Tribunale del Riesame, nel provvedimento in sentenza richiamato, si ponesse in palese contrasto con la corretta interpretazione della nozione di danno patrimoniale rilevante quale evento del delitto di cui all’art. 2634 c.c, capace di ricomprendere nel suo alveo, sia la componente del danno emergente, sia quella di lucro cessante.
D’altra parte, la nozione di danno patrimoniale contenuta nella norma in questione non consente di prescindere dal dato normativo di stampo civilistico, rinvenibile in numerose disposizioni codicistiche, tra le quali gli artt. 1218, 1223, 2043 e 2056 c.c., che includono, sotto la propria sfera applicativa, sia il danno derivante dalla perdita subita (c.d. danno emergente), sia quello dipendente dal “mancato guadagno” (c.d. lucro cessante).
In buona sostanza, il danno patrimoniale deve essere valutato anche nella prospettiva del lucro cessante, poiché tale danno ricomprende qualsiasi diminuzione patrimoniale, capace di incidere negativamente sul patrimonio della società (M. Bellacosa; nello stesso senso, F. Antolisei; L. Conti; A D’Avirro; in senso analogo, ma in una prospettiva de jure condendo – prima dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 61/2002- , si vedano, C. Pedrazzi; L. Foffani).
La problematica di includere nella tipicità, oltre alla deminutio patrimonii, quale danno emergente, anche il mancato incremento, quale lucro cessante, è stata discussa anche da altri autori, che hanno, tuttavia, espresso opinione contraria (P. Chiaraviglio). Sostenendo, per esempio, che «il danno patrimoniale delineato dall’art. 2634 c.c. comprenderebbe solo il danno emergente e non la mera perdita di chances (carente di immediato pregiudizio economico), pena la confusione con il concetto nocumento di cui all’art. 2635 c.c.» (M. Masucci).
Sempre in adesione a tale diversa impostazione, c’è chi ha affermato che «il danno espressamente richiesto per il perfezionamento della nuova fattispecie delittuosa deve essere esclusivamente di natura patrimoniale e appare configurabile unicamente nella forma del danno emergente quale perdita patrimoniale derivante dalla condotta di reato». (A. L. Maccari).
L’interpretazione accolta dalla sentenza in commento tende, evidentemente, a superare tale ultimo orientamento esegetico, ricostruendo una nozione di danno patrimoniale più fedele al dettato normativo di matrice civilistica, in una ottica di omogeneità ordinamentale. D’altra parte, opinando diversamente, si perverrebbe ad una erronea applicazione della disposizione di cui all’art. 2634 c.c., in aderenza ad una accezione dell’elemento normativo del danno patrimoniale, non autorizzata dalla norma e, con essa, in patente conflitto.
Autorevole dottrina ha, poi, rimarcato la necessità che il danno si riverberi sul patrimonio sociale e, pertanto, che debba possedere valenza economica, esulando dal concetto di danno patrimoniale la perdita di aspettativa o qualsiasi forma di scorrettezza dell’amministratore che generi, in termini generici, semplice discredito; il danno così configurato, pertanto, dovrà essere causalmente riconducibile alla condotta dell’agente. Spetterà al Giudice il compito di verificare se il danno non si sia verificato, invece, per circostanze sopravvenute da sole idonee a cagionare l’evento, ex art. 41, comma 2, c.p. (N. Mazzacuva, E. Amati).
3. Sul concetto di conflitto di interessi rilevante ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale, di cui all’art. 2634 c.c.
La sentenza passata in rassegna afferma come sia manifestamente emerso il conflitto di interessi dei due imputati con quello della società danneggiata. L’istruttoria dibattimentale, invero, ha acclarato come la società cessionaria, subentrata nella gestione della struttura alberghiera, fosse di fatto riferibile agli imputati.Indici inequivocabili di ciò, sono rappresentati dal fatto che la società affittuaria è stata costituita esclusivamente in prossimità temporale dell’affitto di ramo d’azienda e al fine di operare quello che il difensore stesso degli imputati ha chiamato, nel corso della discussione finale, “lo strappo”; soci di questa realtà di impresa erano il fidanzato convivente dell’imputata, privo di qualsiasi pregressa esperienza imprenditoriale nell’attività ricettiva alberghiera, e il tuttofare, amico di vecchia data dei predetti due conviventi. Amministratore della società cessionaria risulta proprio quest’ultimo, che non ha conoscenze del mondo imprenditoriale, che ignora i dettagli del contratto di affitto di ramo di azienda e che neanche possiede le chiavi per far ingresso nell’albergo. Il viaggio per andare a costituire la società affittuaria era affrontato dal pur malato imputato amministratore della società lesa, che si recò ad accompagnare i due nuovi soci della futura cessionaria dai professionisti che curarono gli atti costitutivi dell’impresa. Atti che poi furono trovati in originale presso l’abitazione dell’imputato e della socia prossima congiunta di costui, assieme ad altri incartamenti necessari alla gestione amministrativa della società da ultimo costituita.
Alla luce di tali elementi, il Collegio giunge alla conclusione che furono gli imputati ad ordire ed attuare il disegno criminoso per estromettere l’altro coamministratore e socio della società danneggiata dalla gestione e dalla redditività di questa; tutto questo per trasferire nella loro personale disponibilità gli assets ed i guadagni della società lesa, creando un danno patrimoniale alla stessa apprezzabile sotto la sfera del danno emergente e del lucro cessante.
La sentenza annotata ha acclarato la sussistenza del conflitto di interessi, quale requisito tipico della fattispecie, in capo all’amministratore imputato, il quale, con la complicità dell’imputata extranea, ha posto in essere un atto di disposizione patrimoniale e, specificamente, un contratto di affitto di ramo di azienda, a favore di una società affittuaria, gestita di fatto dal compagno della predetta extranea, e della quale, proprio la stessa imputata, è risulta dipendente, oltre che essere socia della cedente, in pregiudizio della quale è stato convenuto un prezzo di affitto di azienda vile ed irrisorio.
In tale prospettiva è apparso al Collegio del tutto irrilevante che i due soggetti coinvolti nella gestione ed amministrazione della società affittuaria avessero comunque ruoli gestori e compiti amministrativi, poiché gli stessi erano comunque gli «uomini di fiducia» dell’imputato (cfr. pag. 15, sentenza annotata).
Pertanto, la nozione di conflitto di interesse rilevante ex art. 2634 c.c., quale presupposto della condotta tipica del delitto di infedeltà patrimoniale, come emerge, altresì, dall’annotata sentenza, implica la necessaria presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto in capo a chi dispone economicamente in danno alla società, a proprio o altrui vantaggio.
Perspicacemente è stato rilevato, con riguardo alla definizione della situazione di conflitto, che la stessa sussiste quando, in una determinata operazione economica, «l’interesse della società e quello del soggetto agente siano collidenti ovvero si trovino in un rapporto di obiettivo antagonismo, nel senso che gli stessi non possono essere soddisfatti contestualmente nella loro interezza» (M. Belli; nello stesso senso M. Bellacosa).
In proposito, una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che la condotta richiamata dall’art. 2634 c.c., relativa all’infedeltà patrimoniale di amministratori, direttori generali e liquidatori di una società, si materializza in atti di disposizione, in sé astrattamente leciti, ma che assumono una rilevanza penale quando chi li compie si trovi in una posizione antagonista rispetto a quella della società, quale portatore di un interesse extrasociale (Cass. pen. Sez. VI, 16.10.2020 n. 28831).
In altra decisone la Corte di legittimità ha evidenziato, per l’appunto, che la norma incriminatrice contempla situazioni di conflitto quando l’amministratore si pone in una posizione di antagonismo rispetto agli interessi della società dallo stesso amministrata, non essendo sufficiente una mera sovrapposizione con l’interesse dell’ente. Nella pronuncia in questione, si legge, infatti, che «ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c., è necessario un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra l’amministratore agente e la società, a causa del quale il primo, nell’operazione economica che deve essere deliberata, si trova in una posizione antitetica rispetto a quella dell’ente, tale da pregiudicare gli interessi patrimoniali di quest’ultimo, non essendo sufficienti situazioni di mera sovrapposizione o commistione di interessi scaturenti dalla considerazione di rapporti diversi ed estranei all’operazione deliberata per conto della società» (Cass. pen., Sez. II, 30.10.2018, n. 55412).
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Collegamenti con altre pronunce
Sul concorso di persone nei reati societari:
Cass. pen., Sez. III, 21.04.2017 n. 35767, dep. 20.07.2017;
Cass. pen., Sez. V, 15.05.1999, n. 7600, dep. 11.06.1999.
Sulla individuazione e sulla prova del danno del reato di impedito controllo:
Cass. pen., Sez. 5, 14.07.2017 n. 44053, dep.25.09.2017;
Tribunale di Rimini, sent. 11 luglio 2017;
Sul rapporto eziologico tra il danno e la condotta di impedito controllo:
Cass. pen., Sez. V, 27.03.2012, n. 11639;
Cass. pen., Sez. V, 25.09.2017, n. 44053.
Sul concetto di conflitto di interessi rilevante ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale:
Cass. pen. Sez. VI, 16.10.2020 n. 28831;
Cass. pen., Sez. II, 30.10.2018, n. 55412;
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Dottrina e riferimenti bibliografici
S. Bruno, Senza la prova del danno (patrimoniale) ai soci, gli amministratori non rispondono del reato di impedito controllo di cui all’art. 2625, n. 2, c.c. (Tribunale di Rimini, sent. 11 luglio 2017), in Dpei.it.
F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, Vol. I, Milano, 2002, 226.
M. Bellacosa, Obblighi di fedeltà dell’amministratore di società e sanzioni penali, Milano, 2006, 115.
M. Bellacosa, Obblighi di fedeltà dell’amministratore di società e sanzioni penali, Milano, 2006, 126.
M. Belli, commento sub. art. 2634, Diritto penale dell’economia – Commentario, A. Lanzi (a cura di), Dike Giuridica Editrice, 2016, 39.
P. Chiaraviglio, Infedeltà patrimoniale, in G. Canzio, L. D. Cerqua e L. Luparia (a cura di), AA.VV. Diritto penale delle società, Padova, 2016, 468.
L. Conti, Disposizioni penali in materia di società e di consorzi, in Commentario del codice civile Scajola-Branca, IV ed., Bologna-Roma, 2004, 198.
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Avv. Chiara Fiorani