Tribunale-di-Parma-sent.-09.07.2021-ud.-05.07.2021-n.-1051.
Oggetto del provvedimento
Con la sentenza in esame il Tribunale di Parma assolve il datore di lavoro, imputato per il delitto di lesioni personali colpose ai sensi dell’art. 590 c.p. per colpa consistita in una inadeguata valutazione dei rischi, a seguito dell’incidente occorso a un dipendente a causa dell’investimento realizzato da altro lavoratore a mezzo di un transpallet semovente. La pronuncia si presta a fungere da esempio di buon governo dei principi sulla responsabilità per colpa del datore nell’ambito della sicurezza sui luoghi di lavoro in caso di comportamento imprudente addebitabile al lavoratore.
Contenuto del provvedimento
- Il caso.
L’imputazione di lesioni personali colpose traeva origine dalla condotta dell’imputato, il quale, nella sua qualità di datore di lavoro, per colpa consistita nella violazione dell’art. 28, co. 2 lett. a), d. lgs. 81/2008 in combinato disposto con l’art. 17, lett. a), del medesimo decreto, non predisponeva un adeguato documento di valutazione dei rischi (DVR) relativamente ai pericoli corsi dai dipendenti amministrativi con funzione di “supervisori operativi” allorquando operanti all’interno dei magazzini simultaneamente agli addetti alle attività di movimentazione merci. Rischi che si concretizzavano nella giornata del 21 dicembre 2017, quando un impiegato, incaricato di controllare la corrispondenza tra la merce stoccata in magazzino e quanto riportato nella bolla di trasporto, veniva investito da un altro lavoratore alla guida di un transpallet semovente, procurandosi una frattura in sede lombare giudicata guaribile in 40 giorni.
Quanto alla dinamica dell’infortunio, si apprendeva, anche grazie alle informazioni acquisite in occasione del sopralluogo, che il dipendente della S.r.l. ***, con mansione di supervisore operativo, si trovava a svolgere l’operazione di cd. quadramento del carico, rientrante tra le sue funzioni, all’interno del magazzino, di appannaggio prevalente (ma non esclusivo) della cooperativa ***, appaltatrice della S.r.l. e deputata alle operazioni di facchinaggio. In tale frangente, un dipendente della cooperativa, alla guida di un transpallet carico di una gabbia metallica contenente colli e sporgente di circa 23 cm per lato, sopraggiungendo in retromarcia, non si avvedeva della presenza del lavoratore, che, colpito dal mezzo, cadeva a terra.
Il datore di lavoro, responsabile della predisposizione del DVR e dell’osservanza degli obblighi in materia antinfortunistica, veniva pertanto tratto in giudizio sul presupposto dell’inadeguatezza delle prescrizioni prevenzionistiche, segnatamente quelle volte ad anticipare i rischi derivanti dall’interazione tra il personale amministrativo a piedi e quello alla guida di mezzi semoventi all’interno del magazzino.
- La decisione.
Il Tribunale di Parma, dopo un’attenta ricostruzione dello svolgimento dei fatti quali risultanti dall’istruttoria dibattimentale, impreziosita dagli apporti forniti dal consulente della difesa circa le disposizioni pertinenti del DVR nonché del documento relativo alla valutazione dei rischi da interferenza (DUVRI), assolve il datore di lavoro dell’impresa appaltante dal reato di lesioni colpose provocate al dipendente di quest’ultima, ritenendo che, nel caso di specie, l’evento infausto sia dipeso esclusivamente dal comportamento imprudente del lavoratore della ditta appaltatrice, in palese violazione delle prescrizioni riportate nel DUVRI, da considerarsi invero adeguato nell’esplicita valutazione dei rischi.
Per giungere a tale conclusione, il giudicante dapprima riafferma con forza l’obbligo generale ed esclusivo gravante sul datore di lavoro ex artt. 17 e 28 d. lgs. 81/2008 secondo cui questi è tenuto alla valutazione e individuazione dei rischi legati allo svolgimento delle mansioni nel luogo di lavoro e alla conseguente elaborazione del documento, cd. “di Valutazione dei Rischi”, nel quale ciascun rischio sia attentamente misurato e accompagnato dall’indicazione delle misure di prevenzione atte a prevenirlo; quindi, ritiene che la condotta imprudente del lavoratore impegnato alla guida del mezzo, pur senza giungere ad integrare gli estremi del comportamento abnorme, e a fronte della formazione garantita a tutti i dipendenti (inclusi quelli dell’impresa appaltatrice) nonché dell’adeguata valutazione dei rischi e delle annesse cautele, avrebbe interrotto il nesso di causalità tra l’addebito mosso nei confronti del datore di lavoro e l’infortunio, avendo essa stessa determinato tale evento. Ne consegue logicamente l’esonero del datore di lavoro da qualsivoglia responsabilità penale.
- L’utilizzo della formula assolutoria “il fatto non sussiste”: la misura oggettiva della colpa.
L’opzione, fra le possibili formule assolutorie, per quella secondo cui “il fatto non sussiste” offre interessanti spunti di riflessione sul tema della ricostruzione sistematica dell’istituto della colpa, in apparenza di natura squisitamente teorico-dogmatica, ma con evidenti ricadute pratico-applicative.
Senza alcuna pretesa di esaustività su un tema storicamente assai ‘frequentato’ dalla dottrina italiana[1], occorre rammentare brevemente come la primigenia concezione psicologica della colpa – variamente composita nell’esaltare ora l’aspetto della prevedibilità o della evitabilità, ora l’elemento dell’errore, così identificando la colpa quale “difetto di volontà” o “errore inescusabile” – sia stata superata dalla cd. concezione normativa della colpa. L’incapacità di fornire un’adeguata e precisa definizione del coefficiente volontaristico sotteso all’azione costituente il reato ha cioè determinato, salvo qualche eccezione[2], il tramonto della corrente psicologica a favore di un processo di normativizzazione della colpa[3], volto a identificare il tratto saliente della stessa nel comportamento inosservante di regole cautelari di condotta funzionali alla prevenzione di danni.
D’altro canto, anche le tendenze oggettivizzanti della dottrina, spintasi sempre più nel senso di un’esasperata esaltazione della tipicità del reato colposo quale atto contrario alla diligenza doverosa, ma altresì quale accadimento di un evento naturalistico rappresentante l’estrinsecazione del rischio che il rispetto della regola cautelare avrebbe evitato, hanno finito per evidenziare alcuni profili problematici in quanto eccessivamente sganciate da qualsivoglia individualizzazione o personalizzazione del giudizio di colpa.
In un simile quadro di elaborazioni dottrinali, tutte volte a individuare il tratto caratterizzante della colpa al fine di un suo corretto inquadramento dogmatico, ma non prive di aporie logiche, si è fatta via via strada l’intermedia e più moderata teoria cd. della doppia misura della colpa[4], in grado di meglio soddisfare le costituzionali esigenze di garanzia della colpevolezza in un diritto penale “del fatto”. Secondo tale teoria, che raggruppa l’essenza di ciascuna delle teorie “unilaterali” pure[5], l’illecito colposo consta di due momenti irriducibili: un primo momento, di carattere oggettivo, attinente al piano materiale della violazione di regole doverose di condotta, siano esse generali o specifiche; un secondo momento, di tipo soggettivo, ravvisabile nella rimproverabilità al soggetto di quella inosservanza, il cui rispetto poteva essere preteso.
Orbene, è proprio con questa cadenza che si realizza il vaglio di responsabilità nel caso che ci occupa: il giudice, individuato rispettivamente nel datore di lavoro dell’appaltante il titolare della posizione di garanzia ex art. 40 cpv c.p.[6] e nell’art. 26 d. lgs. 81/2008 la fonte degli obblighi per costui in materia prevenzionistica per i rischi interferenziali in caso di affidamento di lavori mediante contratto d’appalto, verifica non solo la presenza nel DUVRI – e non già nel DVR – dell’esplicita valutazione del rischio di incidenti tra carrellisti e dipendenti amministrativi presso il magazzino, con annesse prescrizioni per i primi, ma altresì l’avvenuta formazione di tutti i lavoratori. Ne consegue l’esclusione della responsabilità del garante.
L’adesione, da parte del giudicante, alla citata “teoria mista” è senz’altro condivisibile giacché, non ravvisando la violazione di alcuna regola cautelare, ritiene logicamente non doversi procedere all’ulteriore accertamento della colpevolezza stricto sensu considerata. Per dirla altrimenti, se la colpa è anzitutto “un problema di fatto tipico”[7], in assenza di qualsivoglia condotta “oggettivamente colposa”, non residuano ragioni per interrogarsi sulla misurabilità della rimproverabilità al soggetto agente, considerato alla luce delle sue conoscenze, esperienze e capacità, di una condotta negligente che, appunto, non è stata tenuta.
Nella decisione, peraltro, si fa buon governo del principio secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l’obbligo di garantire la sicurezza di tutti coloro che si trovino nei locali adibiti al lavoro (anche dei terzi che entrino in contatto con l’azienda), gravante sul datore, non si esaurisce nella mera predisposizione scritta delle misure di prevenzione relative ai rischi specifici corsi, ma implica altresì che lo stesso si attivi per realizzare concretamente le cautele[8] e per garantire la formazione dei lavoratori[9]. A tali oneri, per vero, la giurisprudenza di legittimità accosta ormai da lungo tempo, in ossequio al dato normativo (art. 18, co. 3-bis, d. lgs. 81/2008), anche l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro sul rispetto delle prescrizioni da parte del personale[10]. Benché tale aspetto non sia stato attenzionato dal giudice nel caso in esame, non essendo la cd. culpa in vigilando oggetto di contestazione, in questa sede ci si può limitare a ricordare come la verifica dell’osservanza di tale obbligo da parte del garante (da effettuarsi sempre in concreto) si spinga fino all’apprezzamento quantomeno della conoscibilità, se non anche di una vera e propria consapevolezza, della ricorrenza di comportamenti scorretti da parte dei lavoratori[11]. Ciò in perfetta coerenza con il criterio della esigibilità dell’osservanza della regola cautelare mancata, che costituisce presupposto indefettibile del processo di individualizzazione della responsabilità colposa.
Ma se così non è, come nel caso a quo, ove si accerta un difetto di materialità dell’illecito colposo contestato, id est un difetto di tipicità, appare allora condivisibile l’approdo del giudice parmense nel senso dell’assoluzione dell’imputato con la corrispondente formula liberatoria.
Eppure, la valorizzazione compiuta nella decisione in esame della dimensione oggettiva e normativa della colpa quale primo step nell’accertamento della responsabilità penale non rappresenta affatto, in giurisprudenza, una prassi consolidata, registrandosi, al contrario, soluzioni non sempre univoche.
È difatti ad essa pressoché coeva una pronuncia in cui, all’esito di una vicenda processuale del tutto analoga, dopo aver accertato una corretta valutazione dei rischi e lo svolgimento di adeguate attività formative per i lavoratori, il Tribunale di Bologna assolve il legale rappresentante dell’impresa, imputato per le lesioni subite da un lavoratore a seguito di un incidente con altro dipendente, ponendo tuttavia l’accento sulla prevedibilità del comportamento incauto di quest’ultimo da parte del responsabile e concludendo per l’impossibilità di muovere un giudizio di rimprovero in capo a questi; da cui l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato[12].
Orbene, non è da escludere che un simile e diverso approdo, che slitta dal piano dell’elemento oggettivo-normativo del reato – pur dopo averlo ritenuto non integrato – a quello soggettivo, costituisca una reminiscenza di quel retaggio passato, abituato, come del resto suggerisce l’art. 43 c.p., a definire il reato colposo per il tramite dell’elemento psicologico quale mancata previsione di un evento prevedibile (ed evitabile).
Ad ogni modo, tornando al caso qui in esame, si può completare la riflessione relativa al tipo di formula assolutoria adoperata come segue.
A ragione si sostiene che il mancato rilevamento della violazione delle misure di prevenzione imposte al datore di lavoro, nell’impedire l’individuazione della condotta etiologicamente collegata all’infortunio, determina un vulnus sul piano della tipicità. Tuttavia, non passa inosservato il fatto che il giudice, spostando l’attenzione dalla figura del datore di lavoro a quella del lavoratore alla guida del transpallet, evidenzi sostanzialmente la condotta negligente di questi all’origine dell’incidente del ‘collega’ e, per questa via, imputi proprio al lavoratore – ancorché implicitamente – l’evento.
Vi è da chiedersi, allora, se non fosse preferibile il ricorso alla formula di proscioglimento attestante che l’imputato non ha commesso il fatto, anch’essa attinente al piano della tipicità e comunque pienamente assolutoria per il datore di lavoro ma maggiormente aderente ai fatti così come processualmente accertati, rispetto alla formula utilizzata dal giudice (perché il fatto non sussiste).
La possibile ragione di tale esito è da rinvenirsi, come meglio si dirà nel prosieguo, nel ruolo tuttora centrale del datore di lavoro quale responsabile dell’adempimento dei maggiori obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza alla luce della disciplina positiva, e in una visione del lavoratore, certo coinvolto nel sistema di sicurezza aziendale, ma ancora in massima parte inquadrato come persona “protetta” piuttosto che come responsabile.
- Il comportamento “colposo” del lavoratore quale causa interruttiva del nesso eziologico: riflessioni sul principio di affidamento.
L’argomento relativo al comportamento “colposo” del lavoratore all’origine dell’incidente, seppur speso – ancora una volta – ai fini dell’esclusione della misura oggettiva del reato per il venir meno del nesso di causalità tra la condotta addebitata all’imputato e l’evento (dunque, a conforto della conclusione assolutoria nei confronti del datore di lavoro), offre, ulteriormente, materiale di dibattito su un altro tema cruciale: quello di un pieno ed effettivo riconoscimento del cd. principio di affidamento.
Prima di ricordare, a beneficio del lettore, cosa si intende con tale espressione, può essere utile una breve digressione per dare conto delle evoluzioni che hanno interessato il grado di responsabilità del datore di lavoro in materia antinfortunistica.
Muovendo da un modello “iperprotettivo”, quasi esclusivamente incentrato sulla responsabilità del datore di lavoro quale garante della sicurezza, tenuto non solo a fornire i dispositivi di sicurezza adeguati, ma altresì ad un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, si è transitati verso un modello maggiormente collaborativo, anche detto di “sicurezza partecipata”[13]. Ci si avvede di tale modello osservando l’impianto normativo di rispettivo riferimento: se la logica prevenzionistica che ha ispirato la legislazione degli anni ’50 del secolo scorso appariva orientata a fare del datore di lavoro l’unico destinatario degli obblighi di osservanza della normativa in materia, anche in relazione a quanto tradizionalmente previsto ai sensi dell’art. 2087 c.c., in un secondo momento, le modifiche apportate dal d. lgs. n. 626 del 1994 e, da ultimo, con il d. lgs. 81/2008, hanno determinato un ampliamento della platea dei garanti della sicurezza nel lavoro[14]. Tra questi, il lavoratore, per quel che qui interessa, si è visto attribuire un ruolo attivo, non più di mero “creditore” della tutela accordata dalle norme sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, essendo in primis tenuto all’osservanza degli obblighi generali prescritti dall’attuale art. 20 T. U. sulla sicurezza, che gli impongono il rispetto della formazione, delle istruzioni e dei mezzi forniti dal datore di lavoro, nonché, più in generale, di agire sempre con diligenza, prudenza e perizia.
In questo scenario si inserisce il principio di affidamento, definibile come la possibilità per i consociati di confidare che ciascuno si comporti osservando le regole precauzionali riferibili al modello di agente proprio dell’attività svolta[15]. Ciò si traduce, nel contesto della sicurezza sul lavoro, nella legittima aspettativa in capo al datore di lavoro che abbia compiutamente adempiuto ai propri obblighi (essendo, beninteso, ancora il principale referente della legislazione antinfortunistica), a che anche gli altri soggetti con cui condivide una serie di doveri di diligenza – tra cui, appunto, i lavoratori – osservino le regole cautelari loro facenti capo.
Ne dovrebbe derivare, nella pratica, il riconoscimento, a fronte dell’adozione di tutte le misure antinfortunistiche necessarie e di un’adeguata formazione del personale, di un esonero di responsabilità del datore di lavoro qualora l’evento infausto fosse conseguenza della condotta deliberatamente assunta dal lavoratore in contrasto con le prescrizioni impartite.
Se la progressiva autoresponsabilizzazione del lavoratore[16], che sarebbe idonea a erodere le ipotesi di penale responsabilità del titolare della posizione di garanzia, ha incontrato, nella materia legata agli infortuni sul lavoro più che altrove, forti resistenze nella giurisprudenza[17] – nonostante l’avvicendamento del principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore”[18] a favore della logica legata al concetto dell’“area di rischio”[19] – parrebbe assistersi, oggi, a un’inversione di tendenza, nella cui scia si inserisce la pronuncia in commento.
Invero, accanto alle più ricorrenti e tradizionali pronunce volte a escludere la penale responsabilità del datore di lavoro in caso di comportamento “abnorme” del lavoratore, dove per tale si intende “un’attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite”, ma altresì “quella condotta che, pur rientrando nelle mansioni lavorative proprie del lavoratore […], sia consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro”[20], si affermano letture sempre più affinate del concorso colposo del lavoratore rilevante ai fini penali. In tal senso, si è giunti a riconoscere la responsabilità del garante solo nella misura in cui la condotta del dipendente, ancorché negligente, imprudente o imperita, sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della mansione svolta; ovvero, eccezionalmente, in caso di comportamento in astratto riconducibile al concetto di abnormità, ma prevedibile ed evitabile da parte del datore di lavoro in ragione della prassi invalsa tra i lavoratori (e conosciuta o conoscibile dal garante) a disattendere le prescrizioni di volta in volta considerate[21].
Nella pronuncia in commento si compie un passo ulteriore: poiché il datore di lavoro aveva vietato ai dipendenti della società appaltatrice di compiere la specifica attività di movimentazione delle gabbie utilizzando i transpallets e aveva assolto tutti i doveri a lui imposti, mentre il lavoratore aveva tenuto la condotta proibita, in spregio delle regole precauzionali previste in caso di utilizzo del mezzo, sul piano eziologico l’unica condotta riconducibile alle lesioni patite dall’altro lavoratore non può che essere quella del carrellista.
Si assiste, allora, a un importante recupero del principio di affidamento, indispensabile alla piena soddisfazione, in una materia scandita da un’intricata ripartizione di compiti e oneri quale la tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, del principio della personalità della responsabilità penale (art. 27, co. 1, Cost).
Se così non fosse, specie in un caso come quello in esame, caratterizzato dall’atteggiamento imprudente del lavoratore a fronte di una condotta corretta del datore di lavoro, ci si rivolgerebbe verso pericolose forme di responsabilità da posizione di quest’ultimo, per il sol fatto della qualifica rivestita nell’organigramma aziendale, deputato allo svolgimento di attività rischiose; ciò che, secondo illustre dottrina, finirebbe per identificare la colpa penale “come mera “allocazione” di responsabilità in capo a soggetti in posizione di garanzia”[22].
Una simile impostazione sarebbe doppiamente inaccettabile. Da un lato, si darebbe spazio a vere e proprie forme di responsabilità oggettiva, in spregio ai principi costituzionali che permeano il diritto penale; dall’altro, ne deriverebbe un ostacolo insormontabile all’esercizio di attività economiche rischiose, poiché gli operatori, costretti ad assumersi un rischio eccessivo, derivante da tutte le possibili conseguenze della propria ed altrui condotta, verosimilmente opterebbero per astenersi dall’attività stessa.
Merita, in definitiva, di essere valorizzata l’attenzione posta dal giudice del merito, nella sentenza qui in commento, nell’individuazione degli obblighi facenti capo, rispettivamente, al datore di lavoro e al dipendente, nell’ottica di un corretto accertamento della responsabilità penale per colpa. Attenzione che lascia ben sperare circa un percorso giurisprudenziale ancora in divenire, ma senz’altro un poco più orientato nel senso di un commiato da forme di responsabilità da posizione.
Collegamenti con altre pronunce
Oltre alla pronuncia già citata in sede di trattazione relativamente alla tendenza, nella pratica, ad una valorizzazione della misura soggettiva della colpa, anche in difetto di materialità della condotta tipica (Trib. Bologna, 19.10.2020, n. 2868, dep. 04.01.2021), v., ex plurimis, nella giurisprudenza di legittimità: Cass. Pen., Sez. IV, 10.02.2016, n. 8883.
È invece di poco anteriore rispetto alla decisione in commento una pronuncia della Sezione IV della Cassazione nella quale i giudici, pur richiamando l’esigenza di accertamento della conoscenza o conoscibilità da parte del garante di prassi comportamentali contrarie alle disposizioni in materia antinfortunistica in un’ottica di individualizzazione del giudizio di responsabilità, avendo riscontrato l’assenza di violazioni di regole cautelari da parte del datore di lavoro, annullano la sentenza impugnata ricorrendo alla formula assolutoria “perché il fatto non sussiste”. Il riferimento è alla già citata sentenza Cass. Pen., Sez. IV, 03.12.2020, n. 12137, dep. 31.03.2021, B.E.
Sulla eccentricità del rischio prodotto dalla condotta negligente o imprudente del lavoratore tale da condurre ad un esonero di responsabilità del datore di lavoro, si veda poi, massimamente, Cass., SS. UU., 24.04.2014, n. 38343, dep. 18.09.2014, Espenhahn e altri.
Dottrina e riferimenti bibliografici
- Bellina, La rilevanza del concorso colposo della vittima nell’infortunio sul lavoro: una timida apertura, in Cass. pen., 2008, fasc. 3, 1007 ss.
- Bin, Esistono anche dei limiti alla responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso al lavoratore imprudente: l’assenza di un rischio illecito alla base, in DPEI.
- Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Bologna, 2007.
- Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, in Studi in onore di Franco Coppi, Torino, 2011, 73 ss.
- Castronuovo, I delitti di omicidio e lesioni, in Id., F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre, V. Valentini (a cura di), Sicurezza sul lavoro: profili penali, Torino, 2019, 285 ss.
- Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009.
- Castronuovo, Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Autoresponsabilità o paternalismo penale?, in Arch. pen., 2019, fasc. 2.
- Di Giovine, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, 2003.
- Donini, R. Orlandi, La parabola della colpa, in M. Donini, R. Orlandi (a cura di), Reato colposo e modelli di responsabilità. Le forme attuali di un paradigma classico, Bologna, 2013, 18 ss.
- Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993.
- Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012.
- Mantovani, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997.
- Morgante, Spunti di riflessione su diritto penale e sicurezza del lavoro nelle recenti riforme legislative, in Cass. pen., 2010, fasc. 9, 3319 ss.
- Perin, Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale. Proposta per un metodo di giudizio, Napoli, 2020.
- Ronco, La colpa in particolare, in Id. (a cura di), Commentario sistematico al Codice Penale, II, t. 1, Bologna, 2007, 537 ss.
- Tordini Cagli, I soggetti responsabili, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre, V. Valentini (a cura di), Sicurezza sul lavoro: profili penali, Torino, 2019, 71 ss.
Dott.ssa Linda Pincelli
Dottoranda di ricerca in Diritto europeo e Ordinamenti nazionali
Università degli Studi di Ferrara – Dipartimento di Giurisprudenza
[1] V., ad es., F. Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, 14 ss. e D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009, 28 ss., nonché, per un contributo più recente, A. Perin, Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale. Proposta per un metodo di giudizio, Napoli, 2020, 17 ss.
[2] Cfr. M. Ronco, La colpa in particolare, in Id. (a cura di), Commentario sistematico al Codice Penale, II, t. 1, Bologna, 2007, 537 ss. e 581 ss.
[3] Su tale concetto, v., per una ricostruzione critica, D. Castronuovo, La colpa penale, cit., 27 ss.
[4] Sul tema si vedano, tra gli altri, Ivi, 28 ss.; S. Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, in Studi in onore di Franco Coppi, Torino, 2011, 73 ss.; M. Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012, 17 ss.
[5] Ivi, 42.
[6] Cfr., per es., S. Tordini Cagli, I soggetti responsabili, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre, V. Valentini (a cura di), Sicurezza sul lavoro: profili penali, Torino, 2019, 71 ss.
[7] Cfr. S. Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Bologna, 2007, 464.
[8] Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 03.03.2021, n. 22256.
[9] Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 08.05.2019, n. 27787, dep. 24.06.2019, in C.E.D., Rv. 276241.
[10] V. Cass. Pen., Sez. IV, 03.06.1999, n. 12115, dep. 22.10.1999, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2000, 489 ss.; per una pronuncia più recente, v. Cass. Pen., 27787/2019, già cit.
[11] Cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. IV, 03.04.2019, n. 20833, dep. 15.05.2019, Stango.
[12] Cfr. Trib. Bologna, 19.10.2020, n. 2868, dep. 04.01.2021, in questa rivista, con nota di L. Bin, Esistono anche dei limiti alla responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso al lavoratore imprudente: l’assenza di un rischio illecito alla base.
[13] Cfr. S. Tordini Cagli, I soggetti responsabili, cit., 86 e 110 ss.
[14] Sul punto, v. G. Morgante, Spunti di riflessione su diritto penale e sicurezza del lavoro nelle recenti riforme legislative, in Cass. pen., 2010, fasc. 9, 3319 ss.
[15] V., per un approfondimento, M. Mantovani, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997.
[16] Sul concetto di autoresponsabilità del lavoratore, v. D. Castronuovo, Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Autoresponsabilità o paternalismo penale?, in Arch. pen., 2019, fasc. 2, 16.
[17] In tal senso si esprimono, tra gli altri, D. Castronuovo, I delitti di omicidio e lesioni, in Id., F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre, V. Valentini (a cura di), Sicurezza sul lavoro: profili penali, cit., 329 ss.; D. Castronuovo, Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Autoresponsabilità o paternalismo penale?, cit., 5 ss.; O. Di Giovine, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, 2003, 16 e 19 ss.
[18] Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 23.11.1990, Chiavazza; Cass. Pen., Sez. IV, 14.12.1999, n. 3580.
[19] Cfr., tra le prime pronunce, Cass. Pen., Sez. IV, 23.03.2007, n. 21587, Pelosi, in Cass. pen., 2008, fasc. 3, 1007 ss., con nota di M. Bellina, La rilevanza del concorso colposo della vittima nell’infortunio sul lavoro: una timida apertura.
[20] Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 21.10.2008, n. 40821, Petrillo; più di recente, v. Cass. Pen., Sez. fer., 06.08.2020, n. 23947.
[21] Cfr., ex plurimis, Cass. Pen., 20833/2019, già cit.; Cass. Pen., Sez. IV, 16.04.2019, n. 32507, dep. 22.07.2019, Romano; Cass. Pen., Sez. IV, 03.12.2020, n. 12137, dep. 31.03.2021, B.E.
[22] Il riferimento è a M. Donini, R. Orlandi, La parabola della colpa, in M. Donini, R. Orlandi (a cura di), Reato colposo e modelli di responsabilità. Le forme attuali di un paradigma classico, Bologna, 2013, 18.