Tribunale di Bergamo, sez. pen., sent. 2260/2021
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Oggetto del provvedimento
Con la sentenza in esame, il Tribunale di Bergamo in composizione collegiale si è pronunciato sulla responsabilità dell’Istituto di Credito UBI Banca per i delitti di cui agli art. 25-ter, comma 1, lett. Q) e S), d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in relazione ai reati presupposto di illecita influenza sull’assemblea (art. 2636 c.c.) e di ostacolo all’esercizio delle funzioni dell’autorità pubbliche (art. 2638 c.c.), nonché sulla responsabilità dei soggetti apicali del medesimo ente per i reati di cui agli artt. 81 cpv,110 c.p. e artt. 2638, comma 1 e 2, 2639 c.c. e di ostacolo alle funzioni di vigilanza della Banca d’Italia e della Consob (art. 170-bis d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), assolvendo alcuni degli imputati da tutti i reati contestati e, per l’effetto, escludendo la sussistenza della responsabilità della società.
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Contenuto del provvedimento
- I fatti
La pronuncia, nella sua complessità, si incentra sulla verifica dell’esistenza di un presunto patto parasociale volto a ostacolare l’attività di vigilanza da parte degli organi preposti, nonché ad influenzare l’assemblea di UBI.
In particolare, il nucleo dell’imputazione di cui ai capi B), C) e D) attiene alla presunta stipula di un accordo tra due enti associativi concretamente attuato nel corso di un lungo arco temporale e mai ostenso alle Autorità di regolazione, in violazione degli artt. 20 T.U.B. e 122 T.U.F.
A tale accordo tra associazioni, di cui tutti gli imputati avrebbero avuto nel tempo conoscenza, l’accusa riconosce la natura giuridica di patto parasociale a tempo indeterminato funzionale ad influenzare le decisioni degli organi sociali di UBI; sempre nel capo d’imputazione, vengono illustrate le distinte contestazioni che, sono elevate ad autonome condotte di ostacolo.
Proprio soffermandosi su tali condotte, il Tribunale affronta, in primo luogo, un tema di carattere generale, riguardante l’interferenza tra la sanzione penale di cui all’art. 2638, comma 2, c.c. e quelle amministrative di cui all’art. 193 T.U.F., in ragione delle potenziali sovrapposizioni tra la norma penale oggetto di contestazione ed alcune disposizioni amministrative di carattere sanzionatorio.
Tale analisi è atta a comprendere se, nei casi di specie, possa venire in rilievo l’art. 9, l. 24 novembre 1981, n.689, in base al quale se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa si applica esclusivamente la disposizione speciale.
L’ipotesi di un concorso apparente con prevalenza della sanzione amministrativa su quella penale va esclusa, nel caso de quo, in forza del richiamo ai criteri elaborati dalla giurisprudenza per governare fenomeni di interferenza tra diverse fattispecie incriminatrici incidenti sul medesimo episodio di vita, pacificamente estensibili, nonostante la diversa sfumature testuale tra l’art. 15 c.p. e l’art. 9 l. 689/81.
Ritiene quindi in Tribunale, sulla base di tali presupposti, che se dall’omessa comunicazione di un patto parasociale deriva un evento di ostacolo, il reato di cui all’art. 2638, c. 2, c.c. potrà dirsi integrato; è quindi escluso che tale omissione possa essere sanzionata solo nel dominio amministrativo, ben potendo invece tali condotte, ove capaci di generare ostacoli rilevanti, avere rilievo penale.
Orbene, dalle risultanze processuali si evince che la Banca d’Italia mai aveva chiesto ad UBI, nell’ambito dell’intervento di vigilanza del 2009 volto a modificare l’art. 49 dello Statuto sociale, di abbandonare il principio di pariteticità organizzato sul sistema delle derivazioni, con la conseguenza che gli imputati non avrebbero avuto la necessità di realizzare una modifica dello statuto solo fittiziamente aderente alle indicazioni dell’organo di vigilanza.
Il vero punto su cui il Tribunale ritiene di doversi focalizzare è invece verificare se nel processo di adeguamento delle regole societarie di UBI alle disposizioni di vigilanza, si fossero o meno registrate quelle azioni di inquinamento del patrimonio conoscitivo di Banca d’Italia e della Consob.
L’intervento sul futuro regolamento del Comitato Nomine richiesto dalla Banca d’Italia alla luce della modifica statutaria del 2009 avrebbe dovuto riguardare il rilievo societario accordato ad ABLP e non già, come invece la pubblica Accusa ha ritenuto di ricavare dalla lettura delle risultanze processuali, il tema della pariteticità e delle derivazioni.
Appare evidente, prosegue il Tribunale, che il sistema di governo di UBI non solo rimase saldamente ancorato al principio di pariteticità tra le derivazioni, ma altresì come il suddetto principio risultò espresso in misura se possibile ancora più marcata rispetto al testo originario del regolamento in ragione del fatto che, sul piano formale venne superato il sistema dei due sottocomitati in favore di un modello collegiale.
Del resto, se davvero si fosse voluto occultare la pariteticità per il tramite di un patto parasociale celato, non avrebbe avuto senso alcuno confermarne la vigenza nel testo del regolamento del Comitato Nomine, cioè in un atto societario di pronto reperimento per qualsiasi Autorità pubblica, ivi compresa la Banca d’Italia e la Consob.
Ciò che, in definitiva, si contesta in punto di fatto è che l’accordo parasociale tra i due enti associativi avrebbe alimentato un governo di fatto della banca del tutto difforme di quello disciplinato dalle fonti societarie per il tramite dell’eterodirezione offerta dagli organi della Banca.
Il Collegio rileva anzitutto come, alla luce del tenore letterale dell’imputazione, la cornice giuridica entro cui incastonare il patto oggetto di contestazione non sia quella di un sindacato di voto quanto, piuttosto, quella offerta dalla figura dei c.d. sindacati di gestione, cioè quella tipologia di accordi tra soci che hanno lo scopo di realizzare un’influenza dominante su una società.
La prova di tale accordo si dovrebbe ricavare, in via inferenziale, dai comportamenti assunti dagli imputati in relazione a due classi di condotte: influenza gestoria e il processo di individuazione delle nomine alle cariche di vertice dell’istituto di credito.
Tuttavia la stessa ABPL, del tutto consapevole della particolare incidenza della sua azione associativa sul versante delle nomine di UBI, assolse agli adempimenti informativi previsti dall’art.122 TUF, pur non ritenendo il proprio statuto suscettibile di configurare un patto parasociale.
In definitiva, il Collegio non ha ravvisato alcun percorso probatorio suscettibile di condurre alla prova dell’esistenza di un patto parasociale tra le due associazioni, la cui omessa comunicazione avrebbe potuto ostacolare, nel corso del tempo, le funzioni proprie delle Autorità di Vigilanza.
Di particolare interesse, ai fini della trattazione, risulta anche il capo F) (artt. 81 cpv, 110 c.p. e 2636 c.c.).
La ratio della disposizione di cui all’art. 2636 c.c. è quella di garantire, nel più generale quadro del corretto funzionamento degli organi societari, la trasparenza e la regolarità del processo formativo della volontà dell’assemblea che, oltre a dover essere frutto di libero consenso, deve essere effettuato nel rispetto della legge e dello statuto.
Dalla collocazione sistematica della disposizione e dal suo stesso tenore letterale, si evince infatti che è la tutela dell’organo assembleare e, più in generale, la formazione della volontà di quest’ultimo attraverso un suo regolare funzionamento.
L’art. 2636 c.c. presidia dunque un interesse di natura superindividuale e istituzionale, che vede nell’organo assembleare, che esercita poteri di indirizzo e di intervento sulla gestione sociale, il luogo in cui si concentrano e mediano le diverse e contrapposte posizioni in ragione dell’interesse della società.
La tutela del principio maggioritario non risponde poi a esigenze contingenti, non è posto cioè a garanzia della opportunità o della economicità delle singole delibere, ma è il principio tecnico di ispirazione democratica e liberale prescelto dal legislatore quale cardine per il funzionamento di importanti organi tra cui l’assemblea, senza che assumano rilievo estremi di danno (o di pericolo di danno) per interessi patrimoniali.
L’art. 2636 c.c. non contiene infetti alcun riferimento a tali interessi, non potendosi inferire tale limitazione neppure dalla previsione del dolo specifico di profitto, non necessariamente patrimoniale, che il soggetto agente deve perseguire, inserito nella nuova formulazione della norma.
Tale ottica, incentrata sul rispetto del principio di maggioranza, implica che solo le condotte di simulazione o di frode che determinano un ribaltamento dei rapporti tra maggioranza e minoranza possano assumere rilievo ai fini dell’integrazione della fattispecie. Proprio l’inquadramento della norma, eguale posta a presidio di condotte lesive del corretto funzionamento degli organi sociali, esclude che il reato si circoscriva alla sola tutela delle minoranze azionarie se non, addirittura, al solo interesse del singolo socio.
Nel caso in esame il Tribunale ha ritenuto sussistente la fattispecie di cui all’art. 2636 c.c. solamente nella forma tentata in quanto l’evento, cioè l’influenza illecita dell’assemblea dei soci e la coartazione della volontà dei singoli soci, non può dirsi essersi verificato.
Difatti, le operazioni volte alla raccolta delle deleghe bianche, attuata attraverso un’organizzata rete tra le direzioni territoriali, le filiali e i centri esterni, hanno permesso di ampliare il numero di votanti, i quali, senza tali modalità fraudolente non avrebbero mai espresso il loro voto.
Per tale reato è tuttavia intervenuta, con riferimento ad alcuni imputati, sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizioni e per altri sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p..
- Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (ex art. 2638, comma 1 e 2, c.c.)
La vicenda processuale oggetto del presente commento concerne, in larga misura, l’asserito ostacolo alla vigilanza operato dai vertici della UBI, in violazione dell’art. 2638 c.c..
Tale norma prevede due fattispecie alternative a forma vincolata, connotate entrambe da una finalità specifica, cioè ostacolare le funzioni di vigilanza[1].
Nelle comunicazioni alle Autorità di vigilanza previste in base alla legge rientrano l’esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economico-patrimoniale dell’ente, ovvero l’occultamento con mezzi fraudolenti in tutto o in parte di fatti che i soggetti attivi qualificati avrebbero dovuto comunicare sulla medesima situazione[2].
Il delitto di false informazioni all’autorità di vigilanza è dunque un reato di mera condotta, che si consuma nel momento in cui viene posta in essere una delle due condotte tipiche alternativamente previste dalla disposizione incriminatrice, celandosi così all’organo di vigilanza la realtà economica, patrimoniale o finanziaria dei soggetti sottoposti al controllo[3].
Per quanto attiene il primo comma, l’interesse protetto è il corretto funzionamento degli organi pubblici di vigilanza posti dalla legge a tutela del mercato e del risparmio.
L’elemento soggettivo è dato dal dolo specifico, secondo un modello di tutela anticipata del bene giuridico trattandosi di un reato di pericolo concreto.
La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto deve ritenersi configurabile il reato anche nel caso in cui la falsità sia contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, atteso che dal novero dei fatti materiali, indicati dall’attuale norma incriminatrice come possibile oggetto della falsità, vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo. Invero, l’espressione, riferita agli stessi fatti, ancorché soggetti a valutazione, va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l’oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all’autorità di vigilanza di fatti non corrispondenti al vero[4].
Riguardo poi alla seconda modalità di realizzazione del delitto di false informazioni all’autorità di vigilanza, deve essere subito precisato che non si tratta di una condotta omissiva. È necessario, infatti, che la condotta di occultamento sia corredata dal ricorso a mezzi fraudolenti e non si risolva nel mero silenzio sull’esistenza dei fatti da comunicare; fatti che devono poi chiaramente essere rilevanti per la situazione economico-patrimoniale della società.
Questa figura criminosa, a differenza di quella prevista al primo comma, è a forma libera: il legislatore non descrive infatti le modalità di realizzazione della stessa limitandosi ad prevedere che sono puniti gli agenti qualificati che in qualsiasi forma ne ostacolano le funzioni[5].
La condotta tipica è polarizzata sull’evento naturalistico (l’ostacolo), ed è costituita dal realizzare, comunque, un ostacolo all’esercizio delle funzioni delle Autorità pubbliche di vigilanza. L’evento di ostacolo può essere dunque integrato con qualsiasi comportamento anche omissivo, che impedisce alla Autorità di vigilanza di esercitare le proprie funzioni[6].
Il reato previsto dal comma 2 dell’art. 2638 c.c. è dunque un delitto di evento, che richiede la verificazione di un effettivo ostacolo alle funzioni di vigilanza, quale conseguenza di una condotta che può assumere qualsiasi forma anche omissiva[7].
In pratica, la condotta vietata è identificata soltanto attraverso il nesso eziologico con l’impedimento alle funzioni di vigilanza, includendovi anche ipotesi di carattere omissivo[8].
Ne deriva che, mentre il delitto di cui al comma 1 dell’art. 2638 c.c. è un reato di mera condotta, il reato previsto dal secondo comma è un delitto di evento, che richiede la verificazione di un effettivo e rilevante ostacolo alla funzione di vigilanza, quale conseguenza di una condotta che può assumere qualsiasi forma[9].
Per quanto invece concerne i rapporti tra l’art. 2638 c.c. e l’art. 170-bis TUF è opportuno fare una breve precisazione.
L’art. 170-bis TUF contiene una clausola di riserva esplicita; infatti, prescrive il legislatore che lo stesso trova applicazione “fuori dai casi previsti dall’art. 2638 c.c.”.
Il problema è individuare quindi, quali sono i casi in cui il 2638 c.c. non si considera applicabile.
Rispetto all’elemento oggettivo, va sottolineato che l’art. 170-bis T.U.F. è una fattispecie di danno, poiché ai fini della sua configurazione il legislatore richiede il verificarsi di un ostacolo[10].
Da ciò si ricava che il vero ambito di sovrapposizione con l’art. 2638 c.c. si riferisce esclusivamente al suo secondo comma, essendo il primo una fattispecie di pericolo[11].
Premesso ciò, i casi che possono essere ricondotti alla norma del T.U.F. ricomprendono quelle condotte attuate da soggetti non qualificati e quindi non rientranti nel novero dei soggetti della norma codicistica, o quelle condotte che sono imputabili a titolo di dolo eventuale che non possono costituire, per gli argomenti già esposti sopra, reato ai sensi dell’art. 2638 c.c.[12].
Orbene la sentenza in esame ha fatto buon governo dei principi dettati dalla dottrina e dalla giurisprudenza circa la configurabilità del reato in esame.
Se difatti il perno della prospettazione accusatoria formulata dal Pubblico Ministero si basava sull’esistenza di un patto parasociale a tempo indeterminato tra i coimputati che avrebbe avuto lo scopo celare, alle autorità preposte, il reale funzionamento del Comitato Nomine ancora improntato ai principi di pariteticità e alternanza e di garantire ai vertici della UBI il controllo del gruppo in maniera difforme dalla documentazione societaria ed in contrasto con le disposizioni in materia, nonché la possibilità di influenzare l’assemblea dei soci, il Tribunale ha ritenuto insussistente tale accusa, rilevando che il sistema di governo di UBI è rimasto, di fatto, aderente al principio di pariteticità tra le derivazioni, anche a seguito delle modifiche dell’art. 49 dello Statuto sociale.
Ad aggiungersi che, se davvero si fosse voluto occultare la pariteticità per il tramite di un patto parasociale celato, non avrebbe avuto senso alcuno confermarne la vigenza nel testo del regolamento del Comitato Nomine, cioè in un atto societario di pronto reperimento per qualsiasi Autorità pubblica.
La mancata esistenza del patto parasociale e quindi il conseguente venire meno dell’elemento cardine intorno al quale avrebbe ruotato il meccanismo dell’ostacolo ovvero della omessa comunicazione alle Autorità di vigilanza, ha quindi portato il Tribunale ad assolvere gli imputati dai capi B), C) e D) perché il fatto non sussiste.
Con riferimento invece al capo E) è stata affermata la penale responsabilità di uno degli imputati, sempre in relazione agli artt. 2638 c.c. e 170-bis TUF, per avere omesso di comunicare alla CONSOB delle informazioni inerenti dei finanziamenti disposti dalla UBI a società per delle edificazioni su delle proprietà a lui riconducibili.
- Illecita influenza sull’assemblea (ex art. 2636 c.c.)
Il secondo macro-tema affrontato nella sentenza in esame è relativo al delitto di influenza illecita sull’assemblea disciplinato dall’art. 2636 c.c..
Con la riforma del diritto penale societario, di cui al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, il legislatore ha sostituito la precedente fattispecie di illecita influenza sulla formazione della maggioranza assembleare, prevista dall’abrogato 2630, comma 1, n. 3, c.c., con la nuova fattispecie di cui all’art. 2636 c.c..
La norma in commento è volta alla repressione delle condotte tese all’inquinamento della volontà assembleare, quale momento centrale della vita societaria.
La riforma del 2002 ha introdotto espressamente il concetto di atti simulati o fraudolenti, comportando che il nucleo dell’illecito è ora da ricondursi al mendacio, ossia ad un falso che, in tanto è incriminato, in quanto produca effetti distorsivi sulla determinazione delle maggioranze assembleari.
Da ciò discende che la dottrina[13] maggioritaria ritiene che il bene protetto vada rintracciato nel ruolo della verità o della trasparenza nel processo di formazione delle maggioranze assembleari.
Nella nuova formulazione, l’art. 2636 c.c. si rivolge, non tanto alla violazione di norme (penali, civilistiche, statutarie), quanto al particolare disvalore della condotta connotata da fraudolenza, simulazione e idoneità ingannatoria, causa del formarsi della maggioranza.
Il ricorso ai mezzi illeciti, nella previgente disposizione, quale formula di chiusura comprensiva di ogni altra ipotesi non specificatamente descritta, era parso di portata troppo ampia e generica, considerato l’elevato numero di violazioni che nella pratica societaria configurano comportamenti sì illeciti, ma non fraudolenti[14].
Pertanto, durante la vigenza dell’abrogata fattispecie, era stato sollevato dagli interpreti il problema della delimitazione della fattispecie, chiedendosi se la condotta di determinazione dovesse essere valutata in modo autonomo rispetto ai parametri di illiceità propri del diritto civile[15].
L’attuale art. 2636 c.c. configura un reato comune, che può essere commesso da chiunque ed, in particolare, da tutti i soggetti i cui interessi si intersecano con il piano dell’agire societario[16].
La condotta tipizzata dall’art. 2636 c.c., richiede – rispetto al previgente art. 2630, comma 1, n. 3, c.c. – un elemento di frode integrato da comportamenti artificiosi, aventi carattere simulatorio idonei a realizzare un inganno, sicché il precetto sanzionato si configura come reato a forma vincolata; inoltre – essendo il reato posto a tutela dell’interesse al corretto funzionamento dell’organo assembleare – per la sua consumazione è necessario che la condotta abbia effettivamente inciso sulla formazione della maggioranza, trattandosi di fattispecie criminosa costruita come reato di evento posto che per la consumazione del reato è richiesta l’effettiva determinazione della maggioranza nell’assemblea, ed è preordinato a tutelare l’interesse al corretto funzionamento dell’organo assembleare .
La nozione di atti simulati assume quindi una portata più ampia dell’accezione civilistica, per la ragione che essa non evoca soltanto l’istituto della simulazione regolato dagli artt. 1414 c.c. e ss., ma include qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze richieste per l’approvazione delle deliberazioni assembleari e di conseguire, così, risultati vietati dalla legge o dallo statuto della società.
Nella nozione di atti fraudolenti, invece, confluiscono sia le altre condotte prima espressamente tipizzate, e cioè l’avvalersi di quote non collocate o il fare esercitare sotto altro nome il diritto di voto spettante alle proprie azioni o quote, sia le rimanenti condotte prima qualificabili come alti mezzi illeciti.
Ai fini della sussistenza del reato si richiede quindi che il soggetto agente abbia posto in essere un comportamento obiettivamente idoneo ad ingannare e soggettivamente orientato dall’agente al conseguimento di tale obiettivo che determini, ai fini della consumazione del delitto, un risultato assembleare diverso.
Ne consegue che integra il delitto di cui all’art. 2636 c.c. ogni operazione che consenta di addivenire a risultati vietati dalla legge o contrari allo statuto, assumendo rilievo il risultato che aggira tali disposizioni.
In dottrina[17], per quanto riguarda la condotta, è stato evidenziato, innanzitutto, come il nucleo centrale dell’incriminazione rispetto al passato sia costituito dal fatto che la maggioranza deve determinarsi in assemblea, richiedendo, la norma in maniera univoca e chiara, la presenza di un evento e cioè che la maggioranza assembleare si formi (artificiosamente) per effetto della condotta illecita.
Si è perciò indicato, come punto di riferimento, il meccanismo descritto nell’art. 1414 c.c. per la simulazione contrattuale e in generale, anche nella ricostruzione della nozione di frode, un rinvio alle categorie civilistiche.
Pertanto, nei casi di interposizione reale, non fittizia, ci si troverebbe di fronte atti formalmente leciti ed orientati ad un fine a sua volta lecito, sottratti all’applicazione della fattispecie.
Nel novero degli atti fraudolenti rientrerebbero, invece, le condotte di fraudolenta elusione delle disposizioni civilistiche che regolano l’esercizio del diritto di voto, come ad esempio, l’impiego di azioni o quote non collocate, condotta peraltro già rilevante in base alla precedente disposizione[18].
Una delle novità a seguito della riforma del 2002 è la chiara delineazione della natura di reato di evento dell’illecita influenza, che si realizza con l’effettiva determinazione, tramite il compimento di atti simulati o fraudolenti, di una maggioranza assembleare, diversa da quella che si sarebbe verificata senza l’impiego della simulazione o della frode.
A seguito delle suesposte modifiche, l’evento naturalistico deve quindi essere esclusivamente riconducibile a una condotta di determinazione connotata dalla fraudolenza o dalla simulazione, caratterizzazioni che esprimono il nucleo di disvalore penale. Occorre, in altri termini, che si dimostri la sussistenza del nesso causale tra gli atti simulati e fraudolenti e l’alterazione della maggioranza assembleare[19].
Il reato di cui all’art. 2636 c.c., in definitiva, si caratterizza oggi, per essere un reato comune di evento, a forma vincolata, punibile a titolo di dolo specifico.
Orbene nel caso de quo il collegio giudicante, oltre a rilevare l’intervenuto termine di prescrizione per il reato in parola, ritiene che l’evento non si sia verificato.
Difatti lo schema logico per dimostrare la consumazione del reato è quello della prova di resistenza della maggioranza sospetta: dai voti favorevoli a una certa delibera devono, idealmente, essere detratti tutti i voti imputabili alle condotte illecite (figli, cioè, di simulazione o frode) e ciò al fine di verificare se, nonostante tale sottrazione, la maggioranza assembleare che si assume viziata si sarebbe ugualmente formata.
Se la risposta è positiva, la prova dell’evento è fallita e si apre il tema del tentativo, in caso contrario il reato può dirsi consumato.
Come evidenziato in precedenza, l’art. 2636 c.c. è configurato come un reato di evento la cui compatibilità con il tentativo è, sul piano dogmatico, incontroversa.
Sì avrà quindi tentativo in presenza di atti idonei e diretti in modo non equivoco a determinare, con atti simulati o fraudolenti, la maggioranza in assemblea.
Trattandosi poi di reato di evento a forma vincolata, sono esecutivi e dunque punibili a titolo di tentativo solo quegli atti che realizzano, anche solo in forma parziale, la condotta tipica e che abbiano messo in pericolo il nucleo di interessi presidiati dalla norma incriminatrice.
Deve altresì precisarsi, sempre in via generale, che nella fattispecie tentata l’evento è elemento negativo di fattispecie: ne consegue che, se l’evento del reato si verifica, non c’è tentativo ma consumazione configurandosi al contrario la fattispecie tentata ogni qualvolta l’evento delineato dalla norma non si verifica per fattori estranei alla condotta dell’agente.
Orbene nel caso in esame il Tribunale ritiene che sussista l’art. 2636 c.c. nella forma tentata, ma essendo spirato il termine di prescrizione ha doverosamente pronunciato, per alcuni imputati, sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione e, per altri, sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p. in quanto risultati, sulla base del compendio processuale raccolto, all’evidenza estranei da ogni profilo di collegamento probatorio con l’azione tipica.
- La responsabilità dell’ente
L’insussistenza dei fatti di reato ascritti alle persone fisiche comporta, di per sé, l’insussistenza dell’illecito amministrativo ascritto all’ente collettivo, rispetto al quale, tuttavia, il Tribunale offre alcune precisazioni.
Decisivo risulta infatti la nozione di interesse e vantaggio, presupposto per affermare la penale responsabilità della persona giuridica.
L’analisi dei fatti porta il Tribunale ad affermare che il vantaggio non sia neppure ipotizzato, risolvendosi nella stessa consumazione del reato: esso non ha infatti una autonoma descrizione, ma costituisce una mera contestualizzazione del fatto.
Così ricostruito la vicenda, appare invero assai arduo ravvisare un qualsiasi legame tra il reato ritenuto in forma tentata dal Collegio e una qualsivoglia situazione favorevole per l’ente.
Al più deve evidenziarsi che gli imputati hanno agito in contrasto con l’interesse della banca, la quale appare atteggiarsi quale vittima dell’illecito, piuttosto che beneficiata dello stesso.
Correttamente, quindi, il Tribunale ha pronunciato sentenza di assoluzione nei confronti della persona giuridica per difetto di interesse dell’ente.
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Collegamenti con altre pronunce
- Con riferimento all’art. 2638 c.c..
- pen., Sez. V, 29.05.2019, n.29377
- Vicenza, Sez. pen., 2020, n. 348
- civ., Sez. II, 05.04.2017, n.8855
- pen., Sez. I, 07.12.2017, n.15537
- pen., Sez. V, 08.01.2016, n.6916
- pen., Sez. V, 29.05.2019, n. 2937
- Sull’art. 2636 c.c.
- pen., Sez. V, 29.05.2019, n.29377
- pen., Sez. V, 21.05.2013, n.17939
- pen., Sez. I, 03.03.2009, n.17854
- In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi
- pen., SS. UU., 25.09.2014, n.11170
- pen., Sez. V, 28.11.2013, n.10265
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- FOFFANI, D. CASTRONUOVO (a cura di), Casi di diritto penale dell’economia, Bologna, 2015.
- FOFFANI, Violazioni di obblighi concernenti le funzioni di amministrazione attiva nella società di capitali e cooperative, in N. MAZZACUVA (a cura di), I reati societari e la tutela penale del mercato mobiliare, Torino, 1990.
- MESSORI, L’ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza Orientamenti (e disorientamenti) giurisprudenziali nell’applicazione dell’art. 2638 c.c., in Arch. Pen., n. 3, 2020.
- GAMBARDELLA, I delitti di false informazioni e di ostacolo alle funzioni delle Autorità di vigilanza, in Giustizia insieme, 2017.
- ZANCHETTI, Illecita influenza sull’assemblea, in A. ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002.
- MAZZACUVA, E. AMATI, Diritto penale dell’economia, 2018.
- MAZZACUVA (a cura di), I reati societari e la tutela penale del mercato mobiliare, Torino, 1990.
- ARDIA, La tutela penale dell’assemblea, in A. ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino, 2005.
- ZANNOTTI, Diritto penale dell’economia, Milano, 2017.
- SEMINARA, Diritto penale commerciale, I, Torino, 2018.
- SEMINARA, voce Reati societari (le fattispecie), in Enc. dir., Annali, IX, Milano, 2016.
- NAPOLEONI, I reati societari, Milano, 1992.
[1] E.M. AMBROSETTI, E. MEZZETTI, M. RONCO, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2016.
[2] R. ZANNOTTI, Diritto penale dell’economia, Milano, 2017.
[3] A. ROSSI, Illeciti penali e amministrativi in materia societaria, Milano, 2012.; N. MAZZACUVA, E. AMATI, Diritto penale dell’economia, 2018; A. ALESSANDRI, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in A. ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002; F. CONSULICH, Il caso Antonveneta: abuso di informazioni privilegiate e ostacolo alle funzioni di vigilanza, in L. FOFFANI, D. CASTRONUOVO (a cura di), Casi di diritto penale dell’economia, I, Bologna, 2015.
[4] M. GAMBARDELLA, I delitti di false informazioni e di ostacolo alle funzioni delle Autorità di vigilanza, in Giustizia insieme, 2017; L. MESSORI, L’ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza Orientamenti (e disorientamenti) giurisprudenziali nell’applicazione dell’art. 2638 c.c., in Arch. Pen., n. 3, 2020.
[5] Sul punto la Corte di Cassazione (Cass.pen., Sez. V, 29/05/2019, n.29377) ha stabilito che: “L’evento del reato previsto dall’art. 2638, comma 2, c.c. può essere integrato, oltre che dall’impedimento “in toto” dell’esercizio della funzione di vigilanza, dall’effettivo e rilevante ostacolo frapposto al dispiegarsi della funzione, con comportamenti di qualsiasi forma, comunque tali da determinare difficoltà di considerevole spessore o un significativo rallentamento – e non il mero ritardo – dell’attività di controllo. (In motivazione, la Corte ha richiamato la necessità di fornire della disposizione in esame un’interpretazione conforme al canone costituzionale di offensività e sistematicamente coerente con le previsioni degli artt. 187-quinquiesdecies d.lg. 24 febbraio 1998, n. 58 e 306 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209).
[6] A. NISCO, Il caso Bnl-Unipol: abuso di informazioni privilegiate e ostacolo alle funzioni di vigilanza, in L. FOFFANI, D. CASTRONUOVO (a cura di), Op. cit., Bologna, 2015.
[7] Cfr. Sub. Art. 2638 c.c.
[8] A. SALERNO, La sentenza sulla Banca Popolare di Vicenza sui delitti di aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza e falso in prospetto, in Dir.pen.eco.imp., 2021.
[9] M. GAMBARDELLA, Op. cit..
[10] S. SEMINARA, voce Reati societari (le fattispecie), in Enc. dir., Annali, IX, Milano, 2016; F.M. FRASCHETTI, La natura dei reati di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza e di aggiotaggio manipolativo, in Cass. pen., 2014.
[11] F. GIUNTA, Lineamenti dl diritto penale dell’economia, Torino, 2004.
[12] B. ALBERTINI, Sub. art. 2638 c.c., in A. LANZI E A. CADOPPI (a cura di), I reati societari, Padova, 2007; L. CORNACCHIA, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza, in Giur. comm., 2017.
[13] F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari. I reati e illeciti amministrativi, societari e bancari. La responsabilità degli enti, C.F. GROSSO (a cura di), Milano, 2007; M. ZANCHETTI, Illecita influenza sull’assemblea, in A. ALESSANDRI (a cura di), Op. cit..
[14] V. NAPOLEONI, I reati societari, Milano, 1992; L. FOFFANI, Violazioni di obblighi concernenti le funzioni di amministrazione attiva nella società di capitali e cooperative, in N. MAZZACUVA (a cura di), I reati societari e la tutela penale del mercato mobiliare, Torino, 1990.
[15] L.D. CERQUA, F. CERQUA, L’illecita influenza sull’assemblea, in L. CANZIO, D. CERQUA, L. LUPARÌA (a cura di), Diritto penale delle società, Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica, Milano, 2016; A. MANGIONE, Illecita influenza sull’assemblea (art. 2636 c.c.), in A. GIARDA, S. SEMINARA (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002.
[16] Cfr. Sub. Art. 2636.
[17] E. MUSCO, I nuovi reati societari, Milano, 2007; P. ARDIA, La tutela penale dell’assemblea, in A. ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino, 2005.
[18] S. SEMINARA, Diritto penale commerciale, I, Torino, 2018; G. MARTIELLO, Illecita influenza sull’assemblea, in F. GIUNTA (a cura di), I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, Torino, 2002.
[19] F. MUCCIARELLI, Aggiotaggio, in A. ALESSANDRI (a cura di), Op. cit.; C. CARRARA, Il delitto di illecita influenza sull’assemblea (art. 2636 c.c.), in Dir.pen.proc., n. 3, 2010.