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Tribunale delle Libertà di Bologna, ord del 31.1.2022

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Oggetto del provvedimento

Il Tribunale della Libertà di Bologna, decidendo in sede di rinvio, dispone il (ripristino del) sequestro preventivo ex art. 321 comma 2 c.p.p. finalizzato alla confisca delle somme di denaro corrispondenti all’ammontare complessivo delle imposte evase mediante le condotte p. e p. dall’art. 2 D.Lgs. 74/2000, applicando il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite (Cass. Pen., SS.UU., 27 maggio 2021, n. 42415) secondo il quale tutte le somme presenti sui conti correnti dell’indagato – anche quelle eventualmente versate successivamente al momento della consumazione del reato – devono essere sempre considerate prezzo o profitto del reato in ragione della natura fungibile del denaro, così risolvendo la vexata questio relativa alla natura del sequestro (e, poi, della confisca) delle somme giacenti su conto corrente bancario.

 

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Contenuto del provvedimento

Il provvedimento in esame chiude il travagliato procedimento incidentale originatosi a seguito dell’esecuzione del sequestro preventivo delle somme di denaro corrispondenti all’ammontare complessivo delle imposte evase da Alfa s.r.l., relativamente agli anni di imposta 2013, 2014, 2015, 2016 e 2017, rinvenute sui conti correnti bancari intestati alla società.

A seguito del rigetto da parte del Tribunale della Libertà, in funzione di giudice dell’appello, dell’impugnazione presentata dalla difesa avverso il provvedimento di rigetto di istanza di dissequestro adottato dal GIP di Bologna, Tizio (legale rappresentante di Alfa s.r.l.) presentava al Pubblico Ministero istanza di revoca del sequestro preventivo, limitando la richiesta alle sole somme corrispondenti all’imposta evasa nelle annualità 2013, 2014, 2015 e allegando documentazione bancaria in grado di attestare come, alla data di scadenza dei termini per il pagamento del debito fiscale, il conto corrente su cui era stato operato il sequestro non fosse ancora stato aperto e come fossero incapienti gli altri conti correnti intestati alla società. Queste due circostanze avrebbero portato ad escludere – secondo l’istante –  la possibilità di apprendere le somme rinvenute sui conti societari al momento dell’esecuzione del sequestro, non potendo le stesse essere qualificate come “risparmio di spesa” e, quindi, profitto del reato; quelle stesse provviste avrebbero dovuto necessariamente essere ricondotte a rimesse successive ai termini di pagamento delle imposte per gli anni 2013, 2014, 2015 e, perciò, successive alla data di consumazione di ciascun reato. Secondo la Difesa, il provvedimento ablativo adottato equivaleva, di fatto, ad un sequestro per equivalente nei confronti della società, da ritenersi illegittimo a mente dell’orientamento espresso da quella giurisprudenza di legittimità che ne consente l’applicazione solo nei casi in cui l’ente giuridico costituisca un mero schermo fittizio utilizzato dal reo per commettere il reato (ex pluris Cass. Pen., Sez. III, 23.01.2019, n. 22061).

Il Pubblico Ministero trasmetteva l’istanza di dissequestro parziale al GIP con parere negativo all’accoglimento, con il quale evidenziava come l’allegazione difensiva si ponesse in contrasto con il principio di diritto affermato dalla nota sentenza Lucci (sent. Cass. Pen. SS.UU., 26 giugno 2015, n. 3167, Rv. 264437 secondo cui la natura peculiare del denaro, e la confusione che lo stesso subisce nel patrimonio del destinatario del vincolo reale, comporta che la confisca sia sempre qualificabile come diretta), ed il GIP la rigettava.

Avverso l’ordinanza de qua, la difesa di Tizio interponeva nuovamente appello ex art. 322 c.p.p. chiedendone la riforma e la revoca parziale del sequestro. La Difesa ribadiva che l’onere della prova sulla derivazione degli incrementi di denaro derivanti dal reato tributario incombe sull’accusa che purtuttavia, nel caso in esame, aveva omesso di verificare l’esistenza di provvista sul conto corrente attinto dal vincolo al momento della commissione dei reati addebitati in relazione ai periodi di imposta 2013, 2014, 2015.

Il Tribunale della Libertà di Bologna si pronunciava sull’appello difensivo accogliendo la doglianza sopraesposta e disponeva così il dissequestro parziale della somma relativa all’importo IVA dovuto per le annualità sopraindicate. Rilevava il Tribunale come mancasse la prova che, con riferimento a quelle annualità, la somma sequestrata corrispondesse al profitto del reato, cioè al c.d. risparmio di spesa, come tale astrattamente suscettibile di sequestro finalizzato alla confisca diretta, così aderendo all’impostazione sostenuta dalla dottrina secondo cui la natura fungibile del denaro non è sufficiente a qualificare di per sé come profitto l’oggetto del sequestro; secondo tale orientamento è infatti necessario provare che la disponibilità della somma da sottoporre a vincolo reale rappresenti il  risparmio di spesa conseguito a mezzo del mancato versamento dell’imposta (cfr. in questi termini,C. Santoriello, Esclusa la confisca diretta delle somme depositate sul conto dopo la scadenza dei termini di versamento delle imposte, in Il Fisco, 2019, 24, p. 2380: se il contribuente è titolare di un rapporto di conto corrente bancario, le somme ivi presenti potranno essere qualificate come profitto del delitto fiscale solo se, al momento della scadenza per il pagamento del debito erariale, il conto presentava un saldo attivo, sì da potersi sostenere che il profitto dell’omesso versamento dell’imposta equivale al correlativo mancato decremento del saldo. Diversamente, se il conto corrente presenta un saldo negativo, il denaro versato successivamente può essere considerato solo come unità di misura equivalente al debito tributario non onorato).

Il Tribunale non mancava di confrontarsi con i principi di diritto già richiamati dall’accusa e cristallizzati nelle sentenze Lucci e Gubert (Cass. Pen., SS.UU., 30 gennaio 2014, n. 10561, Rv. 258647), asserendo  di non disattenderli dal momento che anche secondo quelle pronunce presupposto indefettibile della confisca diretta è la circostanza che le disponibilità economiche del percipiente si siano accresciute del prezzo o del profitto del reato, ma affermando altresì che ove vi sia  la prova che le somme non provengono da reato le stesse non sono sottoponibili a sequestro non potendo ad esse riconoscersi la caratteristica di provento del reato (l’impostazione pare collocarsi in linea con alcune pronunce di legittimità intervenute a correttivo della sentenze c.d. Lucci e Gubert, vedi infra).

Avverso la predetta ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il Pubblico Ministero, chiedendone l’annullamento con rinvio per violazione di legge in relazione agli artt. 240 co. 1 e 321 co. 2 c.p.p. e 12 bis D.Lgs. 74/2000. Con il primo motivo di ricorso veniva rilevato il contrasto tra le determinazioni del Tribunale della Libertà e la giurisprudenza di legittimità secondo la quale la confisca del profitto del reato è sempre qualificabile come diretta laddove attenga a denaro o ad altri beni di natura fungibile, senza che sia necessario ricostruirne la provenienza e il nesso di pertinenzialità con l’attività illecita, essendo sufficiente che si tratti di denaro facente parte del patrimonio del reo. Il profitto o il prezzo del reato, sia che si tratti di un incremento positivo di ricchezza ovvero di un mancato decremento, si confonde invece con le restanti disponibilità economiche del reo perdendo qualsivoglia identificabilità fisica. Sotto questo profilo il risparmio di spesa derivante dal mancato pagamento dell’imposta deve ritenersi automaticamente posta attiva del patrimonio assoggettabile a confisca, confondendosi con qualunque altra posta attiva ancorché sopravvenuta in quel patrimonio.

La Corte di Cassazione, Terza Sezione penale, con sentenza del 22 settembre 2021, n. 40068, ha accolto il ricorso del Pubblico Ministero avverso l’ordinanza di dissequestro parziale delle somme sequestrate ai fini di confisca diretta, corrispondenti al risparmio di spesa ottenuto mediante il mancato pagamento dell’imposta IVA (art. 2 D.Lgs.74/2000) relativamente alle annualità 2013, 2014, 2015, nel rispetto del principio di diritto enunciato da una recente pronuncia delle Sezioni Unite, intervenuta da ultima sul tema (Cass. Pen., SS.UU., 27 maggio 2021, n. 42415). Le SS.UU., al termine di una ricostruzione assai puntuale degli orientamenti di legittimità e  dottrinali che si sono confrontati negli ultimi due decenni sul tema della confisca diretta di denaro, hanno espresso il seguente principio di diritto: qualora il prezzo o il profitto del reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura fungibile del bene, mediante l’ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, in misura corrispondente all’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta e non per equivalente, né  risulta ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerario oggetto di ablazione. Conseguentemente, le somme giacenti sui conti correnti bancari riconducibili al reo dopo la scadenza del termine per il pagamento delle imposte (così come quelle in giacenza su conti correnti eventualmente aperti dopo tale data) costituiscono il profitto derivante dall’evasione fiscale, corrispondente quantomeno ad un mancato decremento monetario, indipendentemente dalla prova del nesso di strumentalità con il reato contestato. L’ordinanza veniva quindi annullata e gli atti restituiti al Tribunale della Libertà che, in data 24 gennaio 2022, ha rigettato l’appello presentato dalla Difesa ex art. 322 c.p.p.

Il Tribunale, che in prima battuta aveva ritenuto le allegazioni difensive idonee ad escludere la riconducibilità delle somme oggetto di apprensione al risparmio di spesa costituente il profitto del reato ex art. 2 D.Lgs. 74/2000, suscettibile di confisca, uniformandosi al principio di diritto stabilito dalla Cassazione nella pronuncia di annullamento e rinvio, torna sulla propria decisione dichiarando del tutto irrilevante la prova fornita dall’indagato in ordine all’origine lecita (rectius all’esclusione dell’origine illecita) delle somme sottoposte a vincolo ai fini di confisca.

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Collegamenti con altre pronunce

Per dovere di completezza, oltre alle pronunce già citate nel commento, si segnalano i riferimenti delle sentenze della Cassazione “Barletta” (Cass. Pen., Sez. III, ud. 30 ottobre 2017, dep. 27 febbraio 2018, n. 8995), “Bagalà” (Cass. Pen., Sez. VI, ud. 20 marzo 2018, dep. 20 aprile 2018, n. 17997), “Vincenzini” (Cass. Pen., Sez. III, ud. 12 luglio 2018, dep. 24 settembre 2018, n. 41104), “Ratio S.r.l.” (Cass. Pen., Sez. V, ud. 24 settembre 2018, dep. 24 ottobre 2018, n. 48625), “Star Kamin s.r.l.” (Cass. Pen., Sez. III, ud. 4 ottobre 2018, dep. 11 febbraio 2019, n. 6348) che, pur dichiarando espressamente di conformarsi ai principi delle sentenze Gubert e Lucci, secondo cui – come si è detto – il denaro che costituisce profitto del reato può essere sempre attinto dalla confisca diretta e, tenuto conto della sua natura fungibile, non necessita di  prova del nesso di derivazione da reato, avevano escluso la confisca diretta del denaro qualora l’interessato fornisca la prova della totale assenza di pertinenzialità tra la somma confiscata (o sequestrata) ed il reato commesso (o contestato).

Avv. Valentina Oleari


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