Nota a Tribunale Firenze, Ufficio del GUP, 6 luglio 2021, n. 710
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- Oggetto del provvedimento
Con la sentenza in commento, il GUP del Tribunale di Firenze ha assolto la legale rappresentante di una s.r.l. dal reato di cui all’art. 2, d.lgs. 74/2000, perché «il fatto non sussiste», ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p.
La prospettazione accusatoria era incentrata su di un’ipotesi di dichiarazione fraudolenta innervata da diversi episodi di sovrafatturazione, atteso che l’imputata aveva utilizzato, in cinque dichiarazioni fiscali sulle imposte sui redditi, fatture relative a servizi di sponsorizzazione artificiosamente aumentate di valore «almeno peril 20% del loro imponibile».
La pronuncia, che il GUP incentra«sull’assoluta mancanza di materiale probatorio idoneo a sostenere l’accusa», dato «il carattere presuntivo di quanto accertato dalla P.G.», permette di ripercorrere – nel peculiare contesto del rito abbreviato –il tema afferente all’utilizzabilità e al relativo valore probatorio in sede penale delle presunzioni e delle ricostruzioni induttive assunte,in ambito tributario, alla stregua dei paradigmi tipici del procedimento amministrativo di accertamento fiscale.
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- Contenuto del provvedimento
In seguito ad un controllo fiscale, condotto dai militari della Tenenza della Guardia di Finanza di Borgo San Lorenzo nei confronti del legale rappresentante di un panificio costituito in s.r.l., emergeva la sussistenza di sedici fatture,per operazioni ritenutein parte inesistenti (“almeno per il 20% del rispettivo imponibile”), emesse, senza applicazione di I.V.A.,tra il 2010 e il 2016, da una società avente sede legale a Londra.
Posto che tali documenti erano stati registrati nelle scritture contabili obbligatorie della compagine rappresentata dall’imputata e detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria, gli accertatori ritenevano di contestare il delitto di cui all’art. 2, d.lgs. 74/2000, giacché nelle successive dichiarazioni annuali d’imposta il panificio avrebbe di fatto indicato, con finalità di evasione, costi «gonfiati», e dunque «fittizi», per circa 20.000 euro.
A ben vedere, il convincimento degli inquirenti circa l’effettiva integrazione, nel caso di specie, dei crismi tipici della frode fiscale ai sensi del citato art. 2, d.lgs. 74/2000, risultava precipuamente incentrato su due rilievi a matrice presuntiva, con conseguente ricostruzione di tipo induttivo.
In tale ottica si asseriva, per un verso, che le fatture “incriminate” – afferenti a costi di sponsorizzazione di due squadre di basket locali di cui la LTD emittente aveva acquistato i diritti di sfruttamento d’immagine e degli spazi pubblicitari – provenivano da una società “esterovestita”, in quanto la circostanza che nella «filiera della sponsorizzazione» si aggiungesse un «anello non nazionale», che da Londra dovesse «promuovere i rapporti con le locali imprese italiane sostenitrici delle squadre di pallacanestro, cui poi far sottoscrivere i contratti» (cfr. c.n.r.) era ritenuta priva di apprezzabile motivazione. Da qui l’anomalia di rapporti di sponsorizzazione costituiti e vigenti in Italia, intercorrenti tra imprese e società sportive operanti nel medesimo territorio, che vedevano l’interposizione della menzionata LTD londinese.
Per altro verso, la Guardia di Finanza – riferendosi agli esiti di indagini effettuate dai colleghi di Imola nel corso di un procedimento penale di competenza della Procura di Bologna e relativo ad altre operazioni ascrivibili alla medesima compagine britannica – rappresentava che quest’ultima, una volta ricevuto il pagamento dell’intero corrispettivo di ogni fattura, era solita restituirne una parte «ritenuta non inferiore al20%» all’imputata, utilizzando conti correnti bancari accesi all’interno della Repubblica di San Marino.
Pur riconoscendo che le contestazioni mosse all’imputata fossero basate su presunzioni e induzioni «indubbiamente valide sotto il profilo tributario», il GUP riteneva al contempo che le stesse, traslate nel giudizio penale,avessero al più valore indiziario, con eventuale possibilità di assumere a dignità di prova solo se destinatarie di riscontro oggettivo in distinti elementi o in altre presunzioni e purché gravi, precise e concordanti. Possibilità che, nel caso di specie, non era dato in alcun modo riconoscere, stante «l’assoluta mancanza di ulteriori elementi probatori certi».
Pertanto, l’esito assolutorio «perché il fatto non sussiste», espresso con la formula dubitativa di cui all’art. 530, co. 2, c.p.p., è stato il naturale approdo di un simile tratto motivazionale, peraltro confortato da analoga conclusione propugnata dal P.M. d’udienza nella sua requisitoria. Il fatto che queste considerazioni siano state formulate nell’alveo di un rito abbreviato – dunque di un giudizio, per definizione, a “contrazione probatoria” – assume particolare pregio, atteso che, da un’angolatura generale, l’essenza garantista del c.d. “doppio binario”, così come chiaramente declinato dal vigente codice di rito, vive in realtà una stagione tormentata, nella quale i cogenti limiti al passaggio di prove dal contesto tributario alla sede penale vengono non di rado infranti dalla giurisprudenza di legittimità.
- Il rapporto tra procedimento tributario e giudizio penale: un “parallelismo” imperfetto.
Quello del rapporto tra accertamento tributario e procedimento penale contrassegna un tema talmente approfondito, in dottrina, da poter essere a buon diritto definito una sorta di“classico”.
Il motivo di un interesse così profondo deve rinvenirsi, quantomeno con riferimento all’ultimo ventennio, ad una evidente difficoltà nell’applicare i canoni sottesi al già ricordato principio del “doppio binario”, nonostante esso sia stato delineato con sufficiente chiarezza a livello normativo, all’indomani del varo del d.lgs. 74/2000. Basti ricordare, in particolare, la portata dell’art. 19 (che afferma il principio di specialità tra reati e illeciti amministrativi che convergano su una stessa violazione tributaria[i]), dell’art. 20 (divieto di sospensione dei procedimenti tributario e penale che abbiano ad oggetto i medesimi fatti ovvero fatti dal cui accertamento dipenda la relativa definizione) e dell’art. 21 (non eseguibilità delle sanzioni amministrative irrogate in ordine a violazioni tributarie oggetto di procedimento penale).
Al di là dei problemi che da sempre accompagnano, limitandone gli esiti, la ricerca di criteri condivisi per la definizione del rapporto di specialità, appare chiaro – come si avrà modo di evidenziare in seguito, con precipuo riferimento al tema sotteso alla sentenza in commento – che quella volontà normativa di segno “separatista” è frequentemente disattesa dalla giurisprudenza, incline a moltiplicare le occasioni di contatto tra i due tipi di procedimento, con approcci interpretativi non convincenti.
Si tratta di una questione dai confini amplissimi, che la sentenza del GUP di Firenze riporta all’attenzione del penalista, in quanto permette di riflettere, anche in prospettiva generale, sull’effettiva portata probatoria delle presunzioni tributarie all’interno del processo penale. Con congruo percorso motivazionale, la pronuncia si segnala per un corretto apprezzamento dei suddetti paradigmi inferenziali, rispetto ai quali il Giudice è chiamato a modulare il proprio libero convincimento.
Spunti di interesse, che si cercherà di affrontare senza alcuna pretesa di esaustività, sono suggeriti dal fatto che la sentenza riguarda una frode fiscale giudicata con rito abbreviato e sulla scorta esclusiva di ricostruzioni induttive, più che di presunzioni legali, compendiate nel processo verbale di constatazione redatto in sede di verifica fiscale.
- I margini di acquisizione e utilizzabilità del processo verbale di constatazione in sede penale, tra littera legis e prassi giurisprudenziale. Peculiarità del caso di specie.
Nella vicenda in oggetto, il corredo a vocazione probatoria con il quale il GUP è stato chiamato a confrontarsi, in sede di giudizio abbreviato, ha coinciso in misura pressoché esclusiva con il processo verbale di constatazione (PVC), così come redatto dalla competente Tenenza della Guardia di Finanza.
L’articolato dibattito dottrinale circa la reale natura giuridica del PVC –che trova il suo fondamento normativo nella laconica previsione dell’art. 24, l. n. 4/1929 (“Le violazioni contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante verbale”) – e la conseguente diversità di opinioni circa l’effettivo regime di utilizzabilità del medesimo nel processo penale, non pare avere scalfito il coeso approccio interpretativo della giurisprudenza di legittimità. Un’ermeneutica, quella scandita sul punto dalla Suprema Corte, “a maglie larghe”, nella misura in cui essa riconduce il PVC, quale “documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa”, alla categoria della prova documentale, come tale acquisibile e utilizzabile senza limiti particolari in sede penale, anche dibattimentale (art. 493 c.p.p.), alla stregua dell’art. 234 c.p.p.[ii]
Si staglia così un’interpretazione che, come è stato opportunamente osservato[iii], segna un evidente iato con gli auspicati stilemi di “un doppio binario a compartimenti stagni”, dato che la caleidoscopica attività documentata nel PVC (dichiarazioni, ispezioni, verifiche, accessi, valutazioni, ecc.) confluirebbe agevolmente e “in blocco” nel procedimento penale, sacrificando, tra l’altro, i principi di oralità e contraddittorio. Così che, in dottrina, non è mancato chi, allargando i plessi argomentativi, ha caldeggiato l’assoluta inutilizzabilità dei verbali di indagini amministrative nel processo penale[iv] e chi, pur riconoscendone la natura documentale, ne ha predicato un’utilizzabilità in dibattimento solo qualora non risulti possibile acquisire il corrispondente e tipico atto probatorio[v].
Sostanzialmente isolata, ma degna di attenzione, una tesi affacciatasi in passato nella giurisprudenza di merito, per la quale “il contenuto del processo verbale di constatazione è inutilizzabile soltanto nella parte contenente valutazioni e ricostruzioni, mentre è pienamente utilizzabile per le parti residue e va acquisito pertanto nel suo complesso”[vi].
Ad ogni buon conto, qualora il PVC contenga riferimenti ad attività di verifica amministrativa compiute dopo l’evidenza – desunta anche aliunde – di indizi di reato, l’art. 220 disp. att. c.p.p. porterebbe ad un logico ripudio del verbale di constatazione quale “prova extra-costituita”. Se non altro perché esso, dando conto di operazioni finalizzate all’approfondimento di una notitia criminis già riscontrata, si traduce in “una forma di documentazione di quelli che sono già atti del procedimento penale”, dunque “acquisibile e utilizzabile nella misura in cui lo sono gli atti di polizia: per quanto compiuti nel rispetto delle regole, non possono penetrare nel dibattimento, se non nei casi eccezionali e tassativi delle letture consentite”[vii].
Rispetto alle posizioni dottrinali appena tratteggiate, l’atteggiamento della giurisprudenza di Cassazione va in una direzione di senso dissonante. Pur avendo superato quel filone interpretativo che considerava il PVC “atto irripetibile”– offrendone un’accezione molto ampia e permettendo dunque la sua “sistematica” acquisizione al dibattimento ex art. 431, co. 1, lett. b), c.p.p.[viii]–, la suprema Corte continua a favorire soluzioni ermeneutiche “lasche”, dovute alla obiettiva complessità dei dati sottesi ai reati tributari, complessità che può plausibilmente essere attenuata favorendo al massimo l’ingresso in sede penale dei rilievi compiuti dagli organi accertatori amministrativi specializzati.
Tutto ciò rilevato, è bene precisare che, in generale, la scelta dell’imputato di essere giudicato con le forme del rito abbreviato incide in misura rimarchevole sul corretto apprezzamento del regime di utilizzabilità degli atti compiuti da parte degli organi accertatori e confluiti nel PVC.
In effetti, è noto che, per la giurisprudenza di legittimità, nel giudizio abbreviato sono rilevabili e deducibili esclusivamente le nullità di ordine “assoluto” e le inutilizzabilità c.d. “patologiche”[ix].
Pertanto, è indubbio che, nella vicenda in esame, la Guardia di Finanza procedente aveva esplicitamente dato atto, verbalizzandola come “premessa” nel PVC, che l’incipiente attività di verifica fiscale risultava indotta e legittimata dalla sussistenza di indizi di reità a carico della persona fisica legale rappresentante della società sotto inchiesta. Una simile asserzione, d’altronde, era l’effetto della riferita acquisizione degli atti di indagine compiuti dai colleghi di Bologna nel procedimento penale, pendente dal 2015, diretto ad accertare le condotte illecite della LTD, compagine ritenuta “esterovestita”, che aveva emesso una quantità cospicua di fatture “gonfiate” nei confronti di imprese italiane, tra le quali il panificio dell’imputata.
Di conseguenza, in ossequio al contenuto dell’art. 220 disp. att. c.p.p.[x], quella verifica fiscale, lungi dal poter rivestire carattere amministrativo, doveva assumere i crismi dell’attività di polizia giudiziaria a tutti gli effetti e sollecitare l’adozione delle forme prescritte per il rispetto delle garanzie difensive, pur minime, che la contrassegnano.
Tuttavia, l’irritualità dell’acquisizione di determinati atti probatori nel corso dell’attività ispettiva è stata “neutralizzata dalla scelta negoziale delle parti di tipo abdicativo, che fa assurgere a dignità di prova gli atti di indagine compiuti senza rispetto delle forme di rito”[xi].
Pertanto, nel processo verbale di constatazione al vaglio del GUP nel caso di specie non erano riscontrabili ipotesi di inutilizzabilità “patologica” – le uniche rilevabili, insieme alle nullità assolute, anche in abbreviato – ossia di atti assunti in modo contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento o con forme tali da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il diritto di difesa dell’imputato[xii].
Non resta dunque che riflettere più da vicino sulle valutazioni compiute dal Giudice circa l’(in)efficacia delle presunzioni e delle ricostruzioni induttive scandite all’esito della menzionata verifica fiscale.
- Presunzioni tributarie, “volatilizzazione” della prova del dolo e fulcro assolutorio della sentenza.
Non è questa la sede per cercare di offrire un quadro, anche solo abbozzato, in ordine a ratio, natura e operatività delle diverse presunzioni – legali (assolute o relative), semplici, semplicissime–tratteggiate in seno all’ordinamento tributario italiano[xiii]. Anche perché, a ben vedere, le asserzioni contenute nel PVC – plesso documentale potenzialmente “probatorio” nel caso di specie – non sono state ritenute degne di assurgere al rango di presunzioni, quantomeno nella misura in cui il GUP ne ha disconosciuto financo la natura potenzialmente indiziaria.
Come già evidenziato in precedenza, il primo dei due poli presuntivi sui quali si erano addensate le determinazioni accusatorie degli accertatori consisteva nell’asserita “esterovestizione” della LTD londinese, una qualificazione che, par di capire, non sarebbe stata dedotta dagli inquirenti alla stregua dell’art. 73, co. 3, TUIR.
Ebbene, al di là delle forti perplessità circa l’effettiva utilità di un simile riscontro –perlomeno in un caso di dichiarazione fraudolenta per operazioni parzialmente inesistenti commessa dalla controparte negoziale –, quella attribuzione avrebbe comunque consentito al GUP di confrontarsi con una presunzione legale c.d. “relativa”, e dunque idonea ad ambire, almeno secondo giurisprudenza prevalente, allo status di prova indiretta, utilizzabile e valutabile alla stregua dell’art. 192, co. 2,c.p.p.[xiv].
Da questa angolatura, quindi, sbarrato l’ingresso ad ogni ipotesi di presunzione tributaria c.d. “assoluta”[xv], vi sarebbe spazio per l’utilizzabilità, nel processo penale, della presunzione legale “relativa” e di quella“semplice”, a condizione che i) si riconosca la loro insufficienza a dar prova sic et simpliciter del fatto controverso, dovendo essa trovare riscontro in altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti (ex art. 192, co. 2, c.p.p.), ovvero ii)il Giudice accerti la sussistenza di distinti elementi probatori che possano concorrere a suffragare l’eventuale decisione di condanna[xvi].
Un punto, invero nevralgico, della questione, va precisato.
Le presunzioni tributarie, in molti casi, si traducono in inversioni dell’onere probatorio.
Se assumono tale veste, esse integrano una regola di giudizio che, valida nel contesto amministrativo-fiscale, non può essere trasposta e utilizzata nel processo penale. Detto altrimenti, non sarebbecerto legittimo ritenere provato il fatto solo perché il contribuente-imputato non sia riuscito a fornire la (contro)prova necessaria per il superamento del risultato ottenuto tramite presunzione[xvii]. In definitiva, ciò che può avere rilevanza nel contesto procedimentale penale, alle condizioni sopra evocate, non è (tanto) la presunzione tributaria bensì, al più, il dato fattuale“reale” da cui essa trae origine[xviii], che potrà essere utilizzato dal Giudice in motivazione, sub specie di prova indiretta, ove ponderato ossequiando i crismi tipici di valutazione processuale (consistenza, precisione, concordanza con altri elementi riscontrati[xix]).
In tale ipotesi, il Giudice seguirà, quale “stella polare” per la sua decisione, il principio del libero convincimento, ex art. 192, co. 1, c.p.p., ma dovrà al contempo tener conto del limite legale segnato dal comma 2 del medesimo articolo, da cui promana un onere motivazionale aggiuntivo e vincolato al libero convincimento raggiunto[xx].
Una volta condivise queste coordinate ermeneutiche, diventa a fortiori auspicabile il superamento di quel diffuso orientamento giurisprudenziale incline a svalutare, all’interno del giudizio cautelare reale, la regola valutativa compendiata nell’art. 192, co. 2, c.p.p., di fatto vanificandone l’essenza. A tacer d’altro – e pur tenendo conto della peculiare fisionomia del giudizio cautelare rispetto a quello di merito –inquieta rilevare, in quel contesto, il sovvertimento di canoni primari del processo penale, laddovela Suprema Corte ha ammesso a più riprese che la prova del c.d. fumus delicti, legittimante un provvedimento di sequestro finalizzato a confisca, possa fondarsi in via esclusiva su di un’unica presunzione tributaria, anche se di scarsa consistenza e priva di riscontri[xxi]. Se a tale approccio si salda quello, parimenti invalso, volto a ritenere sufficiente, per completare la prova del suddetto fumus, l’“astratta sussumibilità del fatto contestato in una determinata ipotesi di reato”[xxii], lo scenario diventa oltremodo desolante.
Ora, alla luce di quanto, pur rapsodicamente, sin qui rilevato, è possibile tornare al compendio motivazionale della sentenza in commento e valutare con maggiore consapevolezza la sostanziale vacuità del materiale a disposizione del GUP per la decisione “allo stato degli atti” nella vicenda in oggetto.
Atteso che la contabilità del panificio risultava tenuta con regolarità e che le fatture utilizzate in dichiarazione afferivano a servizi di consulenza per sponsorizzazioni effettivamente avvenute, l’epicentro dell’imputazione verteva sul fatto che gli importi in essa dedotti fossero stati artificiosamente gonfiati. In breve: una sovrafatturazione foriera di un’inesistenza parziale dei costi poi dedotti in dichiarazione.
In proposito, le parole con le quali il GUP “liquida” la questione relativa all’asserita “esterovestizione” della società emittente, in quanto veicolata in un’“affermazione assolutamente gratuita, priva di valore indiziario e che… “prova troppo””, risultano assonanti con i criteri probatori sopra evocati, quantomeno nella dimensione del “ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato”.
Peraltro, non pare azzardato osservare che – prima ancora che un problema di “prova” – quell’asserzione (per cui la LTD, solo formalmente londinese, doveva considerarsi italiana), così fortemente valorizzata in sede di PVC, coincideva in realtà con una circostanza sostanzialmente eccentrica rispetto al thema probandum, sol che si rifletta sull’esatta conformazione del fatto concreto contestato e dei tratti di tipicità del delitto(art. 2 d.lgs. 74/2000) ad esso riferibile.
Comunque sia, nessun dubbio può essere nutrito in merito alla rilevanza del secondo paradigma (lato sensu) presuntivo emergente dagli atti a disposizione del GUP, giacché in esso si coagulava il tipo oggettivo della fattispecie in contestazione.
In effetti, il tema della restituzione postuma di parte delle somme corrisposte dal panificio alla LTD anglosassone rivestiva ruolo “decisivo” nella vicenda in esame, contrassegnata da un utilizzo fraudolento in dichiarazione di elementi passivi fittizi, coincidenti con fatture rimborsate “almeno per il 20% del loro imponibile”, attraverso l’utilizzo di conti correnti accesi a San Marino.
Il rilievo, perentorio, per cui “alcun elemento probatorio risulta agli atti a dimostrazione dell’effettivo ritorno del denaro”, saldato alla tagliente osservazione circa l’incapacità degli inquirenti di quantificare in maniera precisa le somme restituite (citazione testuale del PVC: “…la quota parte da considerarsi fittizia per ciascuna fattura…è stata ritenuta non inferiore al 20%”) sono ampiamente sufficienti, agli occhi del GUP, per conclamare in sentenza l’insussistenza del fatto.
Ciononostante, il Giudice si spinge oltre, lamentando, neanche tanto implicitamente, l’assenza del benché minimo riferimento al prescritto dolo specifico di fattispecie: “non risulta agli atti alcuna prova in merito al fine di tali operazioni”. Per tale ragione, anche volendo ipotizzare che i citati trasferimenti di denaro a titolo di “rimborso” fossero stati effettivamente indirizzati dalla LTD londinese all’imputata, per il Giudice essi sarebbero potenzialmente compatibili con “qualsivoglia altro motivo, anche di natura commerciale”.
Vale davvero la pena, in conclusione, sottolineare il valore simbolico di questo passaggio– nel quale il GUP motiva, per così dire, “ad abundantiam”–, giacché esso permette di richiamare l’attenzione su di un elemento caratterizzante l’illiceità penale della frode fiscale, vale a dire il “fine di evadere le imposte”. Si tratta di un segmento psicologico che, pur avendo valenza decisiva nell’economia del delitto di cui all’art. 2, d.lgs. 74/2000, spesso viene inopinatamente passato sotto silenzio (ritenuto “in re ipsa”) nelle valutazioni effettuate dagli inquirenti in sede fiscale.
Avv. Antonio Bonfiglioli (PHD in diritto penale e Prof. a contratto di diritto penale presso l’Università di Bologna)
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[i]Sul tema cfr., in particolare, A. CARINCI, Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema (Relazione al Convegno su “Diritto tributario e diritto penale” presso l’Università di Bologna, 27 e 28 novembre 2014), in Rass. trib., 2015, 2, 499 ss.
[ii]Ad es.,Cass. pen., III, n. 15236/2015.
[iii] M. BUSETTO, Utilizzabilità delle prove tributarie nell’ambito del processo penale, in Lalegislazionepenale.eu, Interventi e Relazioni, 28 marzo 2020, 3.
[iv]M. BONTEMPELLI, L’accertamento amministrativo nel sistema processuale penale, Milano, 2008, 270 ss.
[v]R. ORLANDI, Atti e informazioni della autorità amministrativa nel sistema processuale penale, Milano, 1992, 140; più di recente e con diversità di accenti O. MAZZA, L’utilizzabilità processuale del verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, in Corr. Trib., 2000, 18, 1282.
[vi]Trib. Modena, 17.11.1994, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 121, con nota di Granata.
[vii]M. BUSETTO, Utilizzabilità delle prove tributarie, cit., 6.
[viii]V. ad es. Cass. pen., III, 24.9.2015, n. 46500; Cass. pen. 106/1996; in dottrina v. V. MONGILLO,Sui limiti di utilizzabilità in sede penale del processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza o dai funzionari degli uffici finanziari, in Rass. trib., 2000, 3, 2000, 1013 ss.
[ix]Cfr., ex multis, Cass. pen., III, 23.5.2018, n. 23182; Cass. pen., II, 16.4.2013, n. 19583.
[x]Per un efficace quadro sulla relativa evoluzione normativa v. M. RAMPIONI, Le c.d. indagini “anfibie”: linee di fondo sul controverso legame tra attività ispettive e processo penale, in Proc. pen. e giust., 2019, 1, 233.
[xi]Così, testualmente, Cass. pen., 23182/2018, cit., che ha ammesso l’acquisizione e la piena utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’emittente la fattura contenute nel PVC, in quanto non assunte “contra legem”; diversa conclusione in caso di acquisizione di dichiarazioni “autoindizianti” rese dal futuro indagato/imputato senza le garanzie contemplate dall’art. 63 c.p.p., con conseguente inutilizzabilità “patologica” in qualunque fase procedimentale, per Cass. pen., V, 23.9.2004, n. 43542.
[xii] V. soprattutto Cass. pen., S.U. 21.06.2000, n. 16, Tammaro.
[xiii] Al riguardo, per una recente ed organica rassegna v. F. FERRI, Valenza delle presunzioni tributarie in sede penale, in L. Salvini, F. Cagnola, Manuale professionale di diritto penale tributario, 2a ed., Torino, 2022,104 ss.; a livello istituzionale cfr. Comando Generale della Guardia di Finanza, Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare 1/2018, vol. II, parte III (cap. 3) e vol. III, parte V (cap. 1), 11 ss.
[xiv] Per l’inammissibilità di qualunque presunzione nel processo penale v.L. FERRAIOLI, voce Presunzione (dir. proc. pen.),in Enc. Dir., Milano, 1986, vol. XXXV, 310; F. CORDERO,Procedura penale, Milano, 2008, 590; più di recente E.M. CATALANO,Prove, presunzioni ed indizi, in A. Gaito (cur.), La prova penale, vol. I, Il sistema della prova, Torino, 2008, 258.
[xv]Cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. II, 22.10.2019, n. 47186.
[xvi]Cfr., ad es., Cass. pen., Sez. III, 23.6.2015, n. 30890.
[xvii] Cass. pen. 36915/2020, cit.; in senso analogo, in un’ipotesi di omessa dichiarazione ex art. 5, d.lgs. 74/2000, v. Cass. pen., Sez. III, 1.10.2021, n. 42167, per la quale l’esatta determinazione dell’imposta evasa spetta in via autonoma ed esclusiva al Giudice penale, con una verifica empirico-fattuale “che può anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario”, in quanto fondata su “criteri di natura meramente formale”.
[xviii] Cass. pen., Sez. III, 8.4.2019, n. 24152; Cass. pen., Sez. III, 6.6.2017, n. 35579, Manessi; in dottrina v.M. BUSETTO,Utilizzabilità delle prove tributarie, cit., 11.
[xix] Sui confini tra prove dirette e indirette v.C. ZAZA, Il ragionevole dubbio nella logica della prova penale, Milano, 2008, 81 s.
[xx] V. M. PICOTTI, Sulla rilevanza delle presunzioni tributarie nel procedimento cautelare reale e nell’accertamento del fatto di reato (Nota a Cass. pen., III, 5 ottobre 2018, n. 44562), in Giur. pen. web, 2019, 1,4.
[xxi] Sul tema v. L. BARON, Esterovestizione societaria e delitto di omessa dichiarazione ex art. 5, d.lgs. 74/2000: il Gip di Macerata dà puntuale applicazione ai principi fissati dalla sentenza Dolce&Gabbana, in DPEI; in giurisprudenza, tra le tante, emblematica Cass. pen., sez. III, 25.9.2014, 39460.
[xxii] Cass. pen., Sez. II, 27.6.2018, n. 35659.
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