Nota a Tribunale di Pavia, 6 settembre 2021 (ud. 8 giugno 2021), n. 1014.
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Abstract: Il presente contributo si propone di analizzare una decisione del Tribunale di Pavia in materia di responsabilità del datore di lavoro per infortuni auto-inferti dal lavoratore conclusasi con la assoluzione dell’imputato, cogliendo l’occasione per sviluppare alcune brevi riflessioni sullo stato dell’arte delle tematiche della interruzione del nesso causale nonché, soprattutto, dei profili relazionali della colpa, ancora assai discusse nella giurisprudenza di legittimità e di merito.
Sommario: 1. Premessa. – 2. I profili fattuali della vicenda. – 3. La ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale contenuta nella decisione. – 3.1. Il formante dottrinale. – 3.2. Il formante giurisprudenziale. – 4. Luci e (soprattutto) ombre della sentenza in commento. – 4.1. La grande assente: la culpa per relationem. – 4.2. (segue) Timide aperture giurisprudenziali ai profili relazionali della colpa. – 4.3. Effettiva interruzione del nesso causale o assenza della condotta? – 5. Conclusioni.
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- Premessa
Con una sentenza che può senz’altro definirsi ‘fuori dal coro’, il Tribunale di Pavia[1] rompe la monotonia negli epiloghi decisori della copiosa giurisprudenza[2] – di legittimità e di merito – formatasi in materia di responsabilità del datore di lavoro per infortuni auto-inferti (o inferti ad altri) da parte del lavoratore.
È tuttavia doverosa, sin da subito, una precisazione: una sentenza fuori dal coro, ma esclusivamente negli esiti.
La decisione perviene infatti alla assoluzione del datore di lavoro imputato del delitto di lesioni personali gravi colpose, ai sensi degli artt. 40 cpv., 590, co. 1 e 2 – in relazione all’art. 583, co. 1 n. 1) – e 3 c.p., purtuttavia mantenendosi fedele alla ormai decennale impostazione dogmatica adottata dalla giurisprudenza in materia, fondata – come noto – sulla eventuale (e del tutto sporadica) interruzione del nesso causale (tra la condotta del datore e l’evento lesivo) ad opera di condotte del lavoratore o di terzi. Condotte in tal senso rilevanti soltanto se idonee a superare il ‘test’ cristallizzato nelle ricorrenti, quanto anguste formule della ‘assoluta anomalia ed eccezionalità, al punto da risultare abnorme’[3] ovvero – in alternativa e più di recente – della ‘eccentricità ed esorbitanza dalla sfera di rischio del titolare della posizione di garanzia’[4].
Nihil novi – come si diceva – nella sentenza in commento, che ancora una volta imposta il ragionamento decisorio sul paradigma dell’art. 41 cpv. c.p. prediligendo – nello specifico – il secondo degli orientamenti giurisprudenziali summenzionati.
Volendo anticipare le conclusioni, dalla lettura della sentenza permane un sapore dolceamaro.
Dolce – come è intuibile – quanto agli esiti, laddove si consideri che la dottrina appare (comprensibilmente) quasi rassegnata nel rilevare come fino a quando il tema verrà impostato sul solo versante oggettivo del nesso causale, sarà sempre individuabile una qualche carenza organizzativa per ritenere che il datore di lavoro sia responsabile[5].
Amaro quanto all’impianto motivazionale, che non s’arrischia ad abbandonare l’imprinting ‘ipercolpevolista’[6] della giurisprudenza succitata. Non può infatti non suscitare stupore – specie alla luce dell’esito assolutorio – la assenza all’interno della decisione di qualsiasi richiamo ai profili di colpevolezza sottesi al caso di specie. A riguardo, giova infatti rammentare come sulla tematica in esame si registri un evidente disallineamento tra giurisprudenza e dottrina: alla prima, fedele ad una lettura degli infortuni auto-inferti in chiave puramente causale, fa fronte la dottrina più attenta, diversamente orientata a declinare la problematica in termini di colpevolezza focalizzandosi, in specie, sui c.d. profili relazionali della colpa[7].
Come noto, la quasi certezza dell’esito condannatorio del datore di lavoro ha da tempo indotto diversi studiosi ad analizzarne la condotta (anche) alla luce di un più concreto parametro di inesigibilità, capace di conferire maggiore rilievo alle plurime sfere di rischio sussistenti nell’ambiente di lavoro[8] e, in particolar modo, ad una dimensione di autoresponsabilità[9] del lavoratore. Più specificamente, la c.d. culpa per relationem troverebbe la sua ratio essendi nella transizione da un modello di sicurezza iperprotettivo ad uno partecipativo e multilaterale[10] – nel quale viene assegnato un ruolo attivo anche al lavoratore – come confermerebbe la positivizzazione dello stesso all’interno del T.U. del 2008. In altre parole (ma vi si ritornerà nel prosieguo) appare mutata la concezione che l’ordinamento avrebbe delle figure-tipo di datore e lavoratore: se un tempo il primo era da considerarsi una sorta di ‘superuomo’, ‘garante anche della correttezza dell’agire del lavoratore’[11], il quale costituiva invece costante pericolo per sé stesso, si assisterebbe oggi ad un rapporto più equilibrato, che permette di non ritenere rimproverabile il datore ad ogni costo.
A lungo trascurata dalla giurisprudenza, siffatta ‘scelta di campo’ ha – per vero cautamente – cominciato a trovare accoglimento in seno ad alcune recenti pronunce[12] della Suprema Corte, a conferma (non ancora di un mutamento di paradigma, ma se non altro) di una emersione in nuce dei profili relazionali della colpa anche nella prassi.
Un indirizzo su cui la decisione in esame non ritiene tuttavia di soffermarsi, neppure fugacemente, in tal modo sviluppando un impianto motivazionale prevedibile, ma – sia concesso – non più così attuale.
- I profili fattuali della vicenda
Il procedimento esitato nella sentenza in commento originava da due episodi, curiosamente sovrapponibili quasi in ogni profilo: a distanza di qualche mese, la stessa persona offesa subiva lo stesso tipo di infortunio scaturito dalle stesse dinamiche.
In entrambe le occasioni, infatti, la vittima – operaio addetto alla linea automatica adoperata per lo stampaggio delle spine all’interno di uno stabilimento dedicato alla lavorazione e alla rifinitura di conduttori elettro-telefonici e affini – interveniva manualmente per rimuovere alcuni cavi incastrati nello stampo inferiore della linea automatica, costituita da una pressa protetta da ripari in plexiglass e dotata di microinterruttori di sicurezza. Identiche, come anticipato, le dinamiche del primo e del secondo episodio: dopo aver arrestato la macchina, disabilitando il funzionamento dei predetti dispositivi di sicurezza e avendo altresì collocato il cartello del divieto di accesso per l’intervento in corso, il lavoratore districava manualmente i cavi; nel frattempo, tuttavia, i colleghi che lo coadiuvavano rimettevano in moto il macchinario, nonostante la persona offesa vi stesse ancora lavorando, provocando a quest’ultima lesioni personali gravi e, segnatamente, lo schiacciamento della mano sinistra[13].
Il datore di lavoro veniva tratto a giudizio per il delitto di cui agli artt. 40 cpv., 590, co. 1 e 2 – in relazione all’art. 583, co. 1, n. 1) – e 3 c.p. per non aver impedito le lesioni subite dalla persona offesa, avendo omesso di ‘adottare misure tecniche ed organizzative, tra le quali l’adozione di predeterminate modalità operative, segnali luminosi e/o acustici, dispostivi tecnici di sicurezza, ed altro’[14].
Significativi – per la risoluzione del caso – alcuni elementi fattuali emersi nel corso del dibattimento: in particolare, tutti i soggetti coinvolti avevano ricevuto adeguata informazione sulla procedura prevista per gli interventi di sicurezza; entrambi i lavoratori ‘terzi’ rispetto all’offeso riferivano di avere udito il segnale di riaccensione da parte di quest’ultimo; la stessa persona offesa ammetteva che l’intervento di manutenzione non richiedeva la presenza di più soggetti, bensì di uno solo[15]; le condizioni di comunicabilità erano buone, come confermato dalla consulenza tecnica della difesa, che accertava nel contesto lavorativo valori di rumore sotto-soglia rispetto a quelli previsti dalla normativa di settore.
- La ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale contenuta nella decisione
Come enunciato in premessa, i fatti sottesi alla decisione in commento si pongono al crocevia tra il più classico paradigma di adeguatezza causale – ricondotto all’appiglio normativo dell’art. 41, co. 2, c.p. – e i più elastici profili relazionali della colpa.
Tematica – quest’ultima – che tuttavia in sentenza non viene toccata, neppure incidentalmente.
Al contrario, il giudice pavese procede ad una ordinata ricostruzione delle fondamentali posizioni dottrinali e dello stato dell’arte giurisprudenziale, costantemente mantenendosi entro il solo spettro della causalità, ritenuto ‘il reale punto su cui bisogna focalizzare l’attenzione’[16].
Altrimenti detto, la riflessione del Tribunale appare integralmente incentrata sulla ‘valutazione in termini interruttivi del nesso causale del comportamento dei collaboratori della persona offesa’[17].
3.1. Il formante dottrinale
Nella motivazione si muove, anzitutto, dal piano dottrinale.
Più specificamente, la decisione ripercorre le diverse teorie elaborate intorno all’art. 41, co. 2, c.p., a partire dalla fondamentale bipartizione tra quanti riconoscono e quanti rinnegano un nucleo di autonomia concettuale alla suddetta disposizione[18].
Come noto, l’ambigua formulazione dell’art. 41 cpv. c.p. ha da sempre posto la dottrina di fronte all’interrogativo sulla sua reale efficacia.
Da un lato, è stata sostenuta la irrilevanza di detta norma[19], ritenuta un poco utile duplicato negativo del più generale principio della equivalenza causale, già enunciato all’art. 40, co. 1, c.p.; in detta prospettiva, essa si limiterebbe a regolare ipotesi fattuali nelle quali, ad una condotta ex ante idonea a produrre una determinata species di evento, ne succeda improvvisamente un’altra – attribuibile a soggetti terzi – che produca lo stesso tipo di risultato, con la conseguenza che la condotta iniziale non potrebbe dirsi davvero causale rispetto all’evento effettivamente integrato, risultando irrilevante in quanto ad essa si sarebbe sovrapposta una serie causale autonoma: soluzione raggiungibile – appunto – con l’ausilio del solo art. 40, co. 1, c.p.
D’altro lato, l’art. 41 cpv. c.p. è stato interpretato quale fattispecie-spia di criteri di valore ‘diversi e successivi’[20] rispetto a quelli fondanti il nesso causale – per così dire – semplice. In particolare, le varie teorie facenti capo a tale impostazione trovano un comune denominatore nella esigenza di introdurre un giudizio di congruità capace di attenuare le asperità che talora irrigidirebbero il paradigma della causalità naturale.
Su queste ultime teorie si sofferma il Tribunale pavese che, seppur in poche righe, ricostruisce esaustivamente i tratti essenziali delle dottrine della causalità adeguata, della causalità umana e della imputazione obiettiva dell’evento, gettando le basi – come si vedrà – per il prosieguo della motivazione.
Muovendo dal condivisibile assunto secondo cui l’una sarebbe nata al precipuo fine di superare le obiezioni mosse all’altra, il giudice lombardo tratta la causalità umana[21] unitamente alla causalità adeguata[22], non mancando di porne in evidenza i numerosi punti di contatto. Entrambe focalizzate su una prognosi postuma – cui si accompagna un accertamento ex ante sulla congruità della condotta rispetto alle modalità di produzione dell’evento – le due teorie differiscono quanto al rigore nei presupposti, declinati nelle formule – rispettivamente – della atipicità e eccezionalità. Formule che – tuttavia – nella decisione in esame vengono indistintamente racchiuse all’interno del concetto onnicomprensivo (benché coniato in seno alla teoria della causalità umana) di ‘dominabilità’[23].
Il giudice pavese conclude quindi la propria ricostruzione richiamando sinteticamente la dottrina della imputazione obiettiva dell’evento. Come noto, le inefficienze sottese alla causalità umana e alla causalità adeguata – alle quali è stato variamente imputato di volersi estendere al concorso di cause antecedenti e concomitanti, non potendo così rinvenire un solido appiglio nell’art. 41, co. 2, c.p., letteralmente riferito alle sole ‘cause sopravvenute’; di affidarsi a parametri ‘gravemente indefiniti e manipolabili’[24]; di sovrapporsi indebitamente al piano della colpevolezza[25] e, soprattutto, alle valutazioni in punto di prevedibilità – hanno indotto parte della dottrina al tentativo di adattare all’ordinamento interno la predetta teoria, di matrice tedesca. Teoria per l’appunto rievocata nei suoi tratti essenziali dalla decisione in commento che, ravvisandone il nucleo centrale nel ‘criterio di corrispondenza tra rischio suscitato e pericolo realizzato’[26], la definisce come volta a ricercare ‘lo scopo di tutela della norma’[27].
3.2. Il formante giurisprudenziale
Il preciso rinvio alle teorie in tema di concorso di cause sopravvenute – e, nello specifico, a quelle che riconoscono un ruolo autonomo all’art. 41, co. 2, c.p. – costituisce il ‘retroterra dottrinale’ su cui il Tribunale imposta la conseguente ricognizione giurisprudenziale.
In particolare, il giudice pavese rileva una corrispondenza tra i correttivi della causalità naturale – causalità adeguata e umana da un lato, imputazione obiettiva dell’evento dall’altro – e gli approdi giurisprudenziali che si sono succeduti in materia di responsabilità del datore di lavoro per condotte auto-inferte da parte del lavoratore. Il formante pretorio (specie di legittimità, ma seguito altresì dalla giurisprudenza di merito) si è infatti sviluppato lungo due direttive fondamentali – rispettivamente fondate sui concetti chiave di ‘abnormità’ ed ‘esorbitanza’ – nonostante non siano mancati casi di ‘convivenza’ dei medesimi all’interno di un’unica pronuncia[28].
Un orientamento più risalente riconosceva la interruzione del nesso causale soltanto a fronte di comportamenti imprevedibili e del tutto eccezionali del lavoratore – compendiati nella formula della ‘abnormità’ – risolvendosi in esiti oltremodo restrittivi. Frequenti le perplessità espresse sul punto dalla dottrina: anche a causa della consueta contestazione dell’art. 2087 c.c., che obbligherebbe il datore nei confronti di qualsiasi tipo di rischio esistente all’interno dell’ambiente di lavoro, la giurisprudenza perveniva quasi inevitabilmente alla condanna dell’imputato[29], facendo nella sostanza degradare il concetto di abnormità ad una ‘formula tralatizia di un consolidato Leitmotiv giurisprudenziale’[30].
Allo scopo di fungere da correttivo agli eccessi repressivi della formula dell’abnormità, si affermava quindi un orientamento – inaugurato dalle Sezioni Unite nel caso Thyssenkrupp[31] – che, mantenendosi negli argini oggettivi del nesso di causa, riconosceva la interruzione di quest’ultimo in presenza di condotte del lavoratore non tanto imprevedibili, quanto suscettibili di attivare ‘un rischio eccentrico ed esorbitante’ dalla sfera di rischio governata dal datore[32]. Evidente l’intento: attuare nella prassi giurisprudenziale la teoria della imputazione obiettiva dell’evento, sostituendo gli insoddisfacenti sviluppi pretori della causalità umana. Di scarso rilievo, tuttavia, le migliorie pratiche derivanti dalla suddetta sostituzione. Pur costituendo ancor oggi la formula più largamente impiegata dal formante giurisprudenziale nel risolvere i casi di imputazione colposa a seguito di infortuni auto-inferti dal lavoratore – tanto da essere adottata anche dalla decisione in commento – la stessa ha finito per ridursi a poco più che una vuota clausola di stile, potendosi sempre individuare un qualche addebito in capo al datore, laddove il rischio attivato dal lavoratore già ‘covasse’ all’interno dell’ambiente di lavoro[33].
Cambia la formula, restano immutati gli epiloghi decisori.
Eccezion fatta per la sentenza in commento (e per pochi altri casi) che, come visto, accoglie il criterio della eccentricità/esorbitanza, ma al contempo si discosta dagli esiti del trend giurisprudenziale maggioritario, pervenendo alla assoluzione del datore di lavoro.
Premessa la ricognizione degli orientamenti esistenti in tema di causalità – tra dottrina e giurisprudenza – il giudice pavese conclude infatti aderendo al predetto orientamento, sostenendo che nella prassi si ‘faccia un uso inconsapevole ma preciso proprio della teoria del rischio e dello scopo della norma violata, che, infine, corrispondono ai criteri delineati dalla teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento’[34]. Con la conseguenza che, calando tali principi nel caso di specie, ‘la sequenza causale innescata dal comportamento di [G.] e [P.] […] rappresenta certamente una sequenza autonoma, da sola sufficiente a determinare l’evento, avendo creato un’area di rischio del tutto esorbitante rispetto a quella sottesa alla regola cautelare individuata dal Pubblico Ministero’[35].
- Luci e (soprattutto) ombre della sentenza in commento
Al di là dell’epilogo decisorio, tuttavia, permangono diversi dubbi.
La sentenza in commento, pur definendo ‘inconsapevole ma preciso’ l’utilizzo che la giurisprudenza di legittimità fa dei correttivi alla teoria condizionalistica, a sua volta sembra tralasciare alcune riflessioni centrali nella analisi delle tematiche interessate dal caso di specie.
4.1. La grande assente: la culpa per relationem
Se la ricostruzione operata nella decisione del Tribunale lombardo appare esaustiva quanto agli orientamenti sviluppatisi intorno all’art. 41 cpv. c.p., la stessa si esaurisce tuttavia in una ricognizione limitata alle problematiche meramente oggettive del giudizio di responsabilità del datore per infortuni auto-inferti dal lavoratore, nella quale – al contrario – manca qualsiasi riferimento ai profili relazionali della colpa. Vero questo, è altrettanto vero che, in realtà, una tale omissione può giustificarsi nella misura in cui il giudice riesce a pervenire alla assoluzione dell’imputato già sul piano oggettivo, logicamente anteposto ad eventuali riflessioni in tema di colpevolezza e, più precisamente, di culpa per relationem. Ciò posto, riteniamo che, alla luce della sensibilità dimostrata dal tribunale pavese nella esegesi degli orientamenti anche dottrinali sottesi al nesso causale, avrebbe meritato maggiore attenzione altresì il vaglio delle dinamiche relazionali della colpa.
Ad ogni buon conto, il silenzio del giudice sulle predette tematiche non può certo definirsi un’anomalia, costituendo anzi quasi una costante nelle decisioni di legittimità e di merito: sul punto, è agevole rilevare come le inefficienze pratiche della valorizzazione dell’art. 41 cpv. c.p. in materia di responsabilità del datore di lavoro pure in presenza di condotte irrazionali del lavoratore siano avvinte alla ritrosia mostrata dalla giurisprudenza nel trattare (non tanto il tema della culpa per relationem quanto, più radicalmente) ogni valutazione in ordine alla colpevolezza dell’agente.
Circostanza resa ancor più evidente laddove si ripercorrano i passaggi motivazionali delle decisioni attinenti alla tematica in esame: terminato il vaglio sulla eventuale interruzione causale – peraltro ridotto, come visto, a poco più che una ‘formuletta pigra’ – in ogni motivazione sopraggiunge un automatismo tale per cui viene ritenuta integrata la penale responsabilità dell’imputato senza che sia spesa alcuna valutazione sui profili soggettivi di colpevolezza. Si assiste – in altri termini – ad un vero e proprio salto logico[36] tale per cui, una volta provati gli elementi sottesi all’art. 41 c.p., sarebbero per ciò solo provati altresì quelli di cui all’art. 43 c.p.: ‘una colpa appiattita sulla causalità, ed una causalità appiattita, a sua volta, sulla posizione di garanzia’[37]. Risolvendosi tale tendenza giurisprudenziale in una culpa in re ipsa[38], inaccettabile perché – oltre a sancire quasi con certezza la condanna del datore di lavoro, a prescindere da qualsiasi peculiarità emergente dal caso di specie – capace di aggirare le fondamentali istanze del principio di personalità della responsabilità penale, costituendo una forma, neanche tanto occulta, di responsabilità oggettiva.
Allo scopo di evitare un improprio assorbimento della colpa nella causalità, rigettando i descritti automatismi, forieri di un consolidamento giurisprudenziale ‘ipercolpevolista’, la dottrina si è dedicata all’approfondimento delle dinamiche relazionali della colpa, muovendo dall’essenziale presupposto secondo cui essa sarebbe connotata da una struttura intrinsecamente dinamica[39].
Dinamica quanto alle fonti regolatrici che, prestandosi sempre meno ad essere ricondotte entro i rigidi schemi di colpa generica e colpa specifica, vanno vieppiù assumendo un carattere ibrido, sottoforma di modelli organizzativi, linee guida o best pratices[40].
Dinamica, per quanto rileva in questa sede, con riguardo alle interrelazioni tra i soggetti presenti nei luoghi di lavoro.
Lo dimostrerebbero plurimi istituti: dalla cooperazione colposa al concorso di condotte colpose indipendenti; dalla delega di funzioni alla ripartizione del ‘debito di garanzia’; dal principio di affidamento al – ecco il punto fondamentale – ruolo del lavoratore nella causazione dell’evento. Ebbene, è proprio il fitto intreccio di posizioni di garanzia (se non, più in generale, di relazioni) esistenti all’interno dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, variamente suddivise tra datore, dirigenti, preposti e altresì lavoratori, a rendere manifesta l’obsolescenza della concezione del datore quale ‘nume tutelare della sicurezza fisica del lavoratore nell’azienda […] in grado non solo di prevedere, bensì anche di evitare qualsivoglia evento, compreso quello auto-procuratosi dal lavoratore per propria colpa’[41]. Con il logico corollario della inattualità in cui scade la lunga elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi intorno all’art. 41, co. 2, c.p., costantemente influenzata da un ragionamento per modelli d’agente in cui a un datore ‘totipotente’ corrispondeva un lavoratore ‘dissennato’[42].
4.2. (segue) Timide aperture giurisprudenziali ai profili relazionali della colpa
La prospettiva descritta risulta ulteriormente corroborata dalla attuale formulazione del T.U. del 2008, con il quale è stato ridisegnato un modello di sicurezza multilaterale, fondato sulla ripartizione del debito di sicurezza tra diversi attori secondo una struttura idealmente piramidale alla cui base compare la figura del lavoratore[43].
Tale rinnovata suddivisione intersoggettiva ‘a cascata’ sarebbe puntualmente rispecchiata – in giurisprudenza – dalla massima secondo cui ‘il sistema della normativa antinfortunistica si [sarebbe] lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante, era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori’[44].
Invero, nonostante per lungo tempo della predetta massima si fosse indebitamente appropriata quella giurisprudenza di settore propensa a ragionare all’interno dei rigidi schemi della causalità, rigettando qualunque vaglio dei profili sottesi alla colpevolezza, l’auspicio è che nel prossimo futuro essa possa costituire la sintesi di un ‘orizzonte ermeneutico nuovo’[45].
A riguardo, non possono che ridestare l’attenzione di una dottrina forse rassegnata alcuni recenti arresti in cui la Suprema Corte, con una evidente virata rispetto alle proprie consolidate statuizioni in materia di responsabilità del datore di lavoro, ha dato prova di recepire le esortazioni ormai da tempo provenienti dalla dottrina. In particolare, emblematica una decisione[46] in cui la Quarta Sezione, alle prese con l’ennesima condanna del datore di lavoro a fronte di una condotta gravemente colposa del lavoratore, annullava la sentenza di merito proprio valorizzando la carenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputato. La Corte, infatti, dopo avere come di consueto scartato la ipotesi di interruzione del nesso causale ai sensi dell’art. 41 cpv., c.p. aggiungeva un passaggio ulteriore, dedicato alla analisi dei profili oggettivi e soggettivi della colpa, finalmente colmando il denunciato salto logico e riportando la propria esegesi entro limiti dogmaticamente più rigorosi.
Aperture tanto rare, quanto basilari per una graduale penetrazione dei profili relazionali della colpa entro le rigide maglie della giurisprudenza di legittimità.
Peraltro, la predetta impostazione logica si prospetta tanto più interessante in quanto introduce un metodo che non imporrebbe certo alla giurisprudenza l’abbandono delle raffinate costruzioni in materia di (eventuale) interruzione del nesso causale cui è pervenuta negli anni: semplicemente – e condivisibilmente – si tratterebbe di aggiungere un elemento valutativo alla filiera logica nel vaglio di responsabilità dell’agente[47]. In altri termini, alla analisi sulla causalità viene posposta quella in materia di colpa, nel pieno rispetto di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità dell’agente, potendo così trovare adeguata rilevanza anche i profili di autoresponsabilità del lavoratore[48], da un lato; di affidamento del datore[49], dall’altro lato.
A questo punto, viene spontaneo chiedersi se una ricostruzione degli approdi giurisprudenziali in tema di responsabilità del datore per infortuni auto-inferti da parte del lavoratore o di terzi – come quella inserita nella sentenza in commento – non avrebbe dovuto quantomeno menzionare per inciso un tale cambio di paradigma che, per quanto ancora tenue, appare rilevantissimo, a prescindere dagli esiti cui la decisione in commento è pervenuta.
Nonostante il tribunale pavese abbia ritenuto di assolvere l’imputato già sul piano oggettivo-causale, logicamente anteposto alle valutazioni in tema di colpevolezza, riteniamo che un richiamo alla citata giurisprudenza sarebbe stato opportuno, specie all’interno di un iter motivazionale integralmente fondato sulla ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale dello stato dell’arte in materia di contegni gravemente colposi del lavoratore.
Di qui, la sensazione di un appagamento non pieno – al di là degli esiti pratici – da parte di una decisione che, forse, esita a tenere il passo degli assestamenti più recenti.
4.3. Effettiva interruzione del nesso causale o assenza della condotta?
Ma non è tutto.
La rigorosa adesione ai più tradizionali (e, non lo si può negare, ancor oggi ben più diffusi) orientamenti espressi in chiave prettamente causale conduce il giudice pavese verso una conclusione che suscita, per vero, talune perplessità.
Si è discusso della sostanziale ineffettività, in termini assolutori, del formante giurisprudenziale fondato sulla formula alternativa dell’abnormità/esorbitanza. Un’ineffettività pressoché costante – è bene rammentarlo – ‘vuoi perché una qualche carenza organizzativa è sempre rinvenibile nella sequenza causativa dell’infortunio e, secondo un tralatizio orientamento, chi si trova in colpa non potrebbe invocare l’affidamento sulla diligenza altrui, tanto meno se della vittima; vuoi perché la negligenza del lavoratore tende ad essere vista come la prova in re ipsa di una carenza informativa e formativa imputabile allo stesso datore di lavoro; vuoi perché si può sempre addebitare al garante di non avere controllato affinché i lavoratori non incorressero in leggerezze. In mancanza d’altro, perché «il datore di lavoro è garante anche della correttezza dell’agire del lavoratore» e tanto basta per renderlo comunque responsabile dell’infortunio’[50].
Con la conseguenza che – come è stato acutamente osservato[51] – le sole ipotesi in cui la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la interruzione del nesso di causa da parte di condotte del lavoratore o di terzi si sono verificate nei casi – estremi – in cui difettasse qualsiasi trasgressione di regole cautelari da parte del datore, mancando tout-court la stessa condotta tipica[52].
Detto altrimenti, le descritte formule di abnormità ed esorbitanza restringono a tal punto l’interpretazione dell’art. 41, co. 2, c.p. che lo stesso può trovare applicazione soltanto nelle rarissime ipotesi in cui di nesso neppure dovrebbe discutersi, mancando a monte una condotta addebitabile al datore[53]. Un’utilità pratica ridotta al minimo che, da ultimo, si traduce in un impiego distorto della disposizione. E, ci pare, a tale difetto logico non si sottrae neppure la sentenza in esame.
Significativi, a riguardo, i presupposti fattuali da cui muove il giudice pavese per impostare la motivazione e che succintamente riportiamo per comodità di consultazione. In particolare, il Tribunale evidenzia (i) il corretto adempimento degli obblighi di formazione, sia sul campo che scritta; (ii) il rispetto delle procedure di sicurezza previste dal manuale con riguardo al macchinario interessato; nonché, soprattutto, (iii) l’assenza di specifici addebiti nei confronti del datore di lavoro all’interno del capo di imputazione. Presupposti – ritiene il giudice lombardo – su cui innestare ‘la valutazione in termini interruttivi del nesso causale del comportamento dei collaboratori della persona offesa’. Con l’evidente contraddizione – tuttavia – per cui viene vagliata l’interruzione del nesso rispetto a una condotta di base che non esiste, circostanza indirettamente confermata dalla mancanza di addebiti specifici nel capo di imputazione, come afferma la decisione stessa. Il che sta a significare che la condotta antidoverosa o illecita dell’imputato non sussiste sin dapprincipio, senza la necessità di ritenere che le condotte sconsiderate tenute dai colleghi della persona offesa abbiano interrotto la serie causale originaria, innescandone una nuova. In altre parole: il solo antecedente logico dell’evento lesivo occorso in capo alla persona offesa consiste in una condotta che non riguarda il datore, bensì soggetti terzi.
A conti fatti, le conseguenze pratiche sono – per vero – poco influenti, atteso che tanto la provata assenza di violazione di regole cautelari, quanto l’accertata interruzione del nesso causale condurrebbero alla assoluzione per insussistenza del fatto. Permane, tuttavia, la imperfezione dal punto di vista dogmatico, che non a caso era stata evitata da attenta giurisprudenza di merito[54] – come è stato segnalato – valorizzando la diversità delle aree di competenza spettanti, rispettivamente, a datore di lavoro e lavoratore. D’altro canto, tale imprecisione non sembra costituire che l’ennesimo risvolto poco soddisfacente di una opzione ermeneutica – quella interamente impostata sulle dinamiche afferenti il concorso di cause sopravvenute – da sempre problematica.
La verità è che l’art. 41 cpv. c.p. può entrare in gioco soltanto laddove il lavoratore attivi un rischio quantomeno già latente all’interno dell’ambiente di lavoro, dovendosi in tal caso valutare se tale condotta presenti un concreto effetto interruttivo, non potendo rilevare laddove vi sia un unico decorso causale (non esistendo quello innescato da una azione od omissione del datore di lavoro): al contrario, l’applicazione di tale disposizione ai casi estremi come quello in commento rappresenta una scorciatoia, un commodus discessus che tuttavia tradisce i limiti di un paradigma all’evidenza ormai inadeguato – da solo – ad una rigorosa valutazione dei profili di responsabilità del datore di lavoro per infortuni auto-inferti.
- Conclusioni
Quanto evidenziato non deve però indurre ad una valutazione in termini esclusivamente critici: la sentenza in commento presenta altresì passaggi condivisibili, assumendo una natura ‘chiaroscurale’.
Dalla casistica relativa alla responsabilità del datore in presenza di comportamenti anche gravemente colposi del lavoratore traspare tutt’oggi un chiaro scollamento tra le posizioni espresse dalla dottrina e l’orientamento giurisprudenziale maggioritario. Innegabilmente, le decisioni in cui la giurisprudenza di legittimità e di merito ha fornito una lettura maggiormente conforme ai profili relazionali della colpa sono ancora piuttosto rare nonostante, negli ultimi anni, si registri – su modello di quell’orientamento in materia responsabilità professionale del medico per ipotesi di “speciale difficoltà” propenso a individualizzare il giudizio di colpevolezza colposa – un lieve aumento delle pronunce inclini a valorizzare la misura soggettiva della colpa anche nel contesto della sicurezza del lavoro[55].
In ogni caso, una esegesi limitata esclusivamente ai profili causali risulta riduttiva, oltre che scarsamente precisa in prospettiva dogmatica: constatazione resa ancor più palese dalla sostanziale unidirezionalità degli epiloghi decisori, costantemente orientati nel senso della condanna. Al contrario, l’adesione ad un orientamento – per quanto consolidato – non dovrebbe risolversi nella piana trasposizione delle massime affermate in seno al medesimo, pena il rischio – oltre a quello più evidente di portare a conclusioni poco condivisibili – di trasformare utili formule esegetiche in concetti svuotati della loro effettiva portata. Tale pare essere l’effetto verso cui sono scivolate le nozioni di abnormità e esorbitanza/eccentricità, il cui richiamo all’interno delle decisioni di legittimità e di merito appare tanto frequente quanto ineffettivo, se poi non viene mai riconosciuta la interruzione del nesso causale.
La sentenza del Tribunale di Pavia si pone nel mezzo, rendendo estremamente difficoltosa una valutazione complessiva: perviene all’assoluzione, ma la via prescelta è anomala, risolvendosi in una decisione, in parte, ambigua.
Da un latto, lo sforzo dogmatico profuso dal giudice pavese non può di certo passare inosservato. Più correttamente: non può di certo passare inosservata una sentenza di assoluzione interamente impostata sull’interruzione del nesso causale. Indubbiamente, il predetto esito decisorio deve salutarsi con favore: nella pur costante valorizzazione del paradigma dell’art. 41, co. 2, c.p., sinteticamente compendiato nella ‘teoria del rischio e dello scopo della norma violata’[56], la sentenza in commento costituisce il prodotto di un’accresciuta sensibilizzazione nei confronti della posizione del datore di lavoro in presenza di contegni gravemente colposi del lavoratore, tematica fin troppo sbilanciata verso le risposte repressive della giurisprudenza di settore, al punto da sovvertire – si è osservato[57] – lo stesso principio di sussidiarietà.
Da un altro lato, però, si tratta della ennesima, mesta conferma: la decisione non sfiora nemmeno in obiter i profili relazionali della colpa, mantenendosi saldamente entro il solco tracciato dalla giurisprudenza sul nesso di causalità, rinunciandosi a qualsiasi richiamo alla colpevolezza all’interno dell’impianto motivazionale.
Dove – paradossalmente – l’epilogo assolutorio finisce per costituire il risvolto più beffardo, per i sostenitori della culpa per relationem.
Dott. Jacopo Della Valentina
Dottore di ricerca presso l’Università di Ferrara
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[1] Trib. Pavia, 8 giugno 2021 (dep. 6 settembre 2021), n. 1014.
[2] Cfr., tra le più recenti e senza pretesa di esaustività, Cass. pen., Sez. IV, 24 giugno 2019, n. 27787; Sez. IV, 4 aprile 2019, n. 14910; Sez. IV, 20 marzo 2019, n. 12407; Sez. IV, 18 gennaio 2019, n. 2316; Sez. IV, 25 febbraio 2019, n. 8088; Sez. IV, 21 gennaio 2019, n. 2590; Sez. IV, 27 dicembre 2018, n. 58272; Sez. IV, 18 dicembre 2018, n. 56950.
[3] Per cui v. Cass. pen., Sez. IV, 14 gennaio 2014, n. 7364; Sez. IV, 2 marzo 2016, n. 8591; Sez. IV, 25 settembre 2009, n. 42502; Sez. IV, 15 novembre 2007, n. 6268; Sez. IV, 29 marzo 2007, n. 12762; Sez. IV, 12 settembre 2006, n. 31110; Sez. IV, 16 maggio 2006, n. 20272; Sez. IV, 21 giugno 2004, n. 27851, alcune delle quali citate nella sentenza in commento.
[4] In questo senso, per esempio, Cass. pen., Sez. IV, 27 marzo 2017, n. 15124; Sez. IV, 20 marzo 2019, n. 12407.
[5] In questi termini D. Castronuovo, Fenomenologie della colpa in ambito lavorativo, in Dir. pen. cont., 2016, 3, spec. 237; Id., Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Autoresponsabilità o paternalismo penale?, in Arch. pen., 2019, 2, 8; L. Carraro, Il comportamento gravemente colposo del lavoratore e la responsabilità del datore di lavoro, in Dir. pen. cont., 2019, 3, 248; nello stesso senso, cfr. altresì D. Micheletti, La responsabilità esclusiva del lavoratore per il proprio infortunio. Studio sulla tipicità passiva nel reato colposo, in Criminalia, 2014, spec. 324.
[6] Così D. Castronuovo, Profili relazionali, cit., 5.
[7] Sulla culpa per relationem cfr., in particolare, L. Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004; D. Castronuovo, Fenomenologie della colpa, cit., 236 ss.; O. Di Giovine, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, 2003; A. Perin, Colpa penale relazionale e sicurezza nei luoghi di lavoro. Brevi osservazioni fra modello teorico, realtà applicativa ed esigenze di tutela, in Dir. pen. cont., 2012, 2, 105 ss. nonché, più di recente, Id., Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale. Proposte per un metodo di giudizio, Napoli, 2020, 233 ss.
[8] Riconducibili a diversi soggetti tra cui, senza pretesa di esaustività, il delegato e i sub-delegati, i dirigenti, il R.S.P.P., i preposti, i lavoratori stessi, il fabbricante, il fornitore, l’installatore.
[9] Sul principio di autoresponsabilità v. i saggi raccolti in M. Ronco-M. Helfer (a cura di), Diritto penale e autoresponsabilità. Tra paternalismo e protezione dei soggetti, Torino, 2020. Più di recente, cfr. M.L. Mattheudakis, Prevedibilità e autoresponsabilità della “vittima”: uno sguardo critico e propositivo alla casistica, in Leg. pen., 25 ottobre 2022.
[10] Cfr. D. Castronuovo, Profili relazionali, cit., 14.
[11] D. Micheletti, op. cit., 324.
[12] In particolare, rileva Cass. pen., Sez. IV, 22 luglio 2019, n. 32507, per cui v. amplius infra, § 4.2.
[13] Più specificamente, in occasione del secondo episodio la persona offesa riportava una frattura con amputazione parziale della falange distale del pollice destro.
[14] Cfr. Trib. Pavia, sent. cit., 3 ss. (capo di imputazione).
[15] La decisione rilevava che la persona offesa stessa avesse ammesso che la effettuazione dell’intervento in assenza di soggetti terzi avrebbe persino accresciuto le condizioni di sicurezza, ‘perché soltanto il soggetto che stava operando avrebbe potuto riattivare la linea di produzione’ (cfr. Trib. Pavia, sent. cit., 5).
[16] Trib. Pavia, sent. cit., 8.
[17] Trib. Pavia, sent. cit., 6.
[18] Per una ricostruzione complessiva delle varie teorie elaborate sull’art. 41, co. 2, c.p. cfr. L. Cornacchia, Il concorso di cause colpose indipendenti: spunti problematici (Parte I), in Ind. pen., 2001, 4, 2, 645 ss.; Id., Il concorso di cause colpose indipendenti: spunti problematici (Parte II), in Ind. pen., 2001, 4, 3, 1063 ss.; A. Vallini, “Cause sopravvenute da sole sufficienti” e nessi tra condotte. Per una collocazione dell’art. 41, comma 2, c.p. nel quadro teorico della causalità “scientifica”, in Dir. pen. cont., 11 luglio 2012, nonché Id., L’art. 41, cpv., c.p. al banco di prova del diritto penale della sicurezza sul lavoro, in G. Casaroli-F. Giunta-R. Guerrini-A. Melchionda, La tutela penale della sicurezza del lavoro. Luci e ombre del diritto vivente, Pisa, 2015, 111 ss. Per ulteriori spunti v., di recente, M. Donini, Nesso di rischio e disvalore di azione-evento, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, 1, passim. Più in generale, per una sintesi delle elaborazioni della dottrina italiana sulla causalità giuridico-penale si rinvia, per tutti, a G. Caruso, Gli equivoci della dogmatica causale. Per una ricostruzione critica del versante obiettivo del reato, Torino, 2013, spec. 65 ss.
[19] Tra cui, in particolare, G. De Francesco, La colpa nel codice Zanardelli in rapporto alla successiva evoluzione dommatica, in S. Vinciguerra (a cura di), I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, 1993, 470 s.; F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1990, 401 ss.
[20] A. Vallini, “Cause sopravvenute da sole sufficienti”, cit., 4.
[21] Sulla quale v., naturalmente, F. Antolisei, Il rapporto di causalità nel diritto penale, Padova, 1934, 178 ss.
[22] Per cui cfr., ex plurimis, G. Bettiol-L. Pettoello Mantovani, Diritto penale. Parte generale, 12a ed., Padova, 1986, 310 ss.; A.A. Dalia, Le cause sopravvenute interruttive del nesso causale, Napoli, 1975, 180 ss.; E. Dolcini, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, 780 ss.
[23] Trib. Pavia, sent. cit., 9.
[24] Così A. Vallini, op. ult. cit., 7.
[25] Cfr., in particolare, G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, 8a ed., Bologna, 2019, 260 e 262.
[26] Trib. Pavia, sent. cit., 10.
[27] Sulla teoria della imputazione obiettiva dell’evento v., soprattutto, M. Donini, Imputazione oggettiva dell’evento. “Nesso di rischio” e responsabilità per fatto proprio, Torino, 2006; Id., voce Imputazione oggettiva dell’evento (dir. pen.), in Enc. dir., Annali III. Abuso del processo – Tutela dell’ambiente, Milano, 2010, 635 ss.; R. Blaiotta, La causalità nella responsabilità professionale. Tra teoria e prassi, Milano, 2004.
[28] Per esemplificazioni, si rinvia a D. Castronuovo, op. ult. cit., 9.
[29] Cfr. supra, nt. 3.
[30] In questi termini A. Roiati, Rilevanza del concorso colposo del lavoratore nell’infortunio sul lavoro, in Cass. pen., 2008, 2869; analogamente – citando la giurisprudenza stessa – parla di ‘tranquillante uniformità’ M. Grotto, L’accertamento della causalità nell’ambito degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. spunti per un dibattito, in G. Casaroli-F. Giunta-R. Guerrini-A. Melchionda, La tutela penale della sicurezza del lavoro. Luci e ombre del diritto vivente, Pisa, 2015, 296. Sulle difficoltà applicative del concetto di ‘abnormità’ nella giurisprudenza di legittimità v. F. Mucciarelli, I coefficienti soggettivi di imputazione, in B. Deidda-A. Gargani (a cura di), Trattato teorico-pratico di diritto penale. Reati contro la salute e la dignità del lavoratore, Torino, 2012, in particolare 218 ss.
[31] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014 (dep. 18 settembre 2014), n. 38343, Espenhahn e altri dalla quale, per vero, sembra trasparire una certa sovrapposizione tra i due orientamenti enunciati, specie a seguito dell’impiego del concetto di ‘area di rischio’.
[32] V. supra, nt. 4.
[33] D. Castronuovo, op. ult. cit., 9.
[34] Trib. Pavia, sent. cit., 13.
[35] Ibidem.
[36] Così D. Castronuovo, op. ult. cit., 11, ripreso altresì da L. Carraro, op. cit., 248.
[37] Chiarissima, in questi termini, O. Di Giovine, Il contributo della vittima, cit., 76.
[38] Cfr. D. Castronuovo, op. ult. cit., 6 e 17.
[39] Cfr. D. Castronuovo, Fenomenologie della colpa, cit., 224 s.
[40] Si tratta di forme ibride di regole cautelari che, nel complesso, darebbero vita ad una forma di ‘colpa protocollare’: sul punto, v. D. Castronuovo, Profili relazionali della colpa, cit., 2. Sulla crescente ‘normativizzazione’ della colpa, v. D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009, in particolare 27 ss.
[41] Così O. Di Giovine, op. cit., 75.
[42] D. Castronuovo, Fenomenologie della colpa, cit., 239; nello stesso senso A. Perin, Colpa penale relazionale e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., 113.
[43] Sulla struttura piramidale del modello di sicurezza inaugurato dal T.U. del 2008 v., diffusamente, S. Tordini Cagli, I soggetti responsabili, in D. Castronuovo-F. Curi-S. Tordini Cagli-V. Torre-V. Valentini (a cura di), Diritto penale della sicurezza del lavoro, Torino, 2021, 75 ss.; sul punto v. altresì M. Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012, 273 ss.; G. Marra, Doveri datoriali di cautela, autoresponsabilità del lavoratore e personalità della responsabilità penale, in Dir. Pen. Proc., 10, spec. 1340.
[44] Cfr. Trib. Pavia, sent. cit., 7, che richiama, in particolare, Cass. pen., Sez. IV, 5 maggio 2015, n. 41486.
[45] Così L. Carraro, op. cit., 252.
[46] Cass. pen., Sez. IV, 5 maggio 2015, n. 41486.
[47] Cfr. L. Carraro, op. cit., 253.
[48] Sulla difficoltà di rinvenire il fondamento del principio di autoresponsabilità all’interno dell’art. 41, co. 2 c.p., cfr. G. Civello, Il principio del Sibi Imputet nella teoria del reato. Contributo allo studio della responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2017, in particolare 155 ss.
[49] Sul principio di affidamento nel reato colposo si veda, per tutti, M. Mantovani, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997.
[50] Così D. Micheletti, La responsabilità esclusiva del lavoratore, cit., 324.
[51] In particolare, D. Micheletti segnala come, nei casi estremi in oggetto, la giurisprudenza ritenga integrata la responsabilità del datore ‘a prescindere dalla messa fuoco della violazione di una regola cautelare’; nello stesso senso, D. Castronuovo, Profili relazionali, cit., 15, nt. 30.
[52] Non a caso, è stato osservato come la colpa costituisca ‘prima di tutto un problema di fatto tipico’: cfr. S. Canestrari-L. Cornacchia-G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Bologna, 2007, 464.
[53] Significativa, nei termini suesposti, Cass. pen., Sez. IV, 13 agosto 2012, n. 32422, che riconosce come “l’evento quindi fu pacificamente cagionato da un comportamento assolutamente abnorme della stessa vittima tale da elidere qualsivoglia collegamento eziologico con le condotte o le omissioni [si badi, n.d.s.] (invero non connotate dal profili colposi) contestate in astratto agli imputati”.
[54] In questo senso, ci pare, Trib. Terni, 7 giugno 2012; Trib. Nuoro, 26 aprile 2012, menzionate da D. Micheletti, op. cit., 357, nt. 124 e 125; nonché, più di recente, Trib. Parma, 9 luglio 2021, n. 1051, in Dpei.it, 1° dicembre 2021, con nota di L. Pincelli, La responsabilità del datore di lavoro tra comportamento imprudente del lavoratore e principio di affidamento.
[55] Per una rassegna delle più recenti sentenze che condividono tale orientamento “soggettivizzante” sul tema cfr. D. Castronuovo, voce Colpa penale, in Enc. dir., Milano, 2021, spec. 228-230 nonché Id., Misura soggettiva, esigibilità e colpevolezza colposa: passi avanti della giurisprudenza di legittimità in tema di individualizzazione del giudizio di colpa, in Giur. it., 2021, 2218 ss.
[56] Cfr. Trib. Pavia, sent. cit., 13.
[57] Cfr., in particolare, D. Micheletti, op. cit., 323 ss.