Sommario: I) Obiettivi, metodo e contenuti della Proposta di direttiva; II) Spunti e rilievi critici.
- I) Obiettivi, metodo e contenuti della Proposta di direttiva
Del maggio dello scorso anno è la notizia della presentazione, da parte della Commissione Europea, di un nuovo ed ambizioso “pacchetto” di misure sulla lotta alla corruzione, comprensivo di una Comunicazione congiunta – dal carattere prevalentemente programmatico – e di una amplissima Proposta di direttiva[1].
Resta dunque prioritaria, nel contesto della politica penale eurounionale, la volontà di arginare il fenomeno – lato sensu[2] – della corruzione, da sempre avvertito – soprattutto ma certamente non solo – come un grave ed ingombrante ostacolo per lo sviluppo e per la crescita economica dell’Unione Europea[3].
La Proposta di direttiva – documento al quale sono specificamente dedicate le presenti annotazioni – sorprende, anzitutto, per la sua notevole estensione: trattasi di un progetto di intervento regolativo, difatti, che non s’arresta alla definizione di svariate figure di reato ed alla previsione delle correlate sanzioni, ma che involge, altresì, fondamentali istituti di parte generale (circostanze, prescrizione etc.), la responsabilità delle persone giuridiche, nonché una cospicua congerie di disposizioni processuali.
Forse meno in grado di sorprendere, al contrario, è il tempismo della stessa Proposta, laddove si consideri la strettissima contiguità temporale di quest’ultima con – le parole sono tratte dal quotidiano Le Figaro – «di gran lunga la più grave vicenda politico-finanziaria che abbia infangato l’Assemblea di Strasburgo», e cioè il ben noto scandalo Qatargate[4].
Un tempismo, questo, che sembra prestarsi a lettura quantomeno duplice: entusiastica l’una; l’altra – verso la quale, fors’anche per natura, riteniamo di dover propendere – realistica e certo maggiormente disincantata.
Ed infatti, se, per un verso, la desta reazione della Commissione restituisce una immagine “proattiva” dell’Unione Europea, intransigente e severa nella lotta alla corruzione, meno edificante, per altro verso, a noi pare l’evidente assegnazione – certo non infrequente, ma non per questo legittima – al diritto penale di una indebita funzione simbolico-comunicativa, che, distorcendone le naturali funzioni, ne intorbida la stessa essenza.
Al netto di più o meno indebiti simbolismi, le ragioni dell’intervento paiono, invece, almeno in parte condivisibili. A mezzo della Proposta, in effetti, s’intende ripensare – aggiornandolo – l’acquis comunitario in materia di lotta alla corruzione: una regolazione, cioè, oramai datata, nonché disomogenea e frammentaria[5].
A questo fine – si legge nel documento – varie le strade che, dal punto di vista metodologico, si profilavano innanzi alla Commissione: a) una azione non legislativa a livello dell’UE o a livello nazionale; b) una Proposta che recepisse le disposizioni della Convenzione di Merida (UNCAC)[6]; c) una Proposta che recepisse le disposizioni della Convenzione di Merida, ma al contempo ne superasse – a breve spiegheremo in che termini – in parte le previsioni; d) una Proposta che definisse autonomamente i diversi elementi di tutti i possibili reati di corruzione, nonché i requisiti di misure preventive come le norme sull’attività di lobbying e i conflitti di interessi[7].
Tra simili strategie d’intervento, la Commissione opta per la via, per così dire, “mediana” (punto c): sceglie, cioè, di modellare la Proposta sulla scorta della Convenzione di Merida, andando allo stesso tempo oltre gli obblighi di incriminazione dalla stessa previsti.
Ed infatti – come a diverso riguardo abbiamo già avuto modo di precisare[8] –, la Convenzione di Merida, sotto il profilo del grado di vincolatività delle relative disposizioni, staglia nitidamente la distinzione tra c.d. “mandatory offences” – e dunque reati per i quali sussiste un obbligo cogente di incriminazione per gli Stati firmatari – e reati, c.d. “non mandatory offences”, per i quali lo strumento pattizio delinea una mera facoltà per gli Stati di procedere alla criminalizzazione, una mera raccomandazione – vale a dire – a prenderne in considerazione la previsione[9].
La Proposta di direttiva mira, in buona sostanza, al superamento della descritta dicotomia, puntando – ed in questo essenzialmente sta il novum dell’intervento – a sancire obblighi di penalizzazione per quelle incriminazioni che, nell’ambito della Convenzione di Merida, erano concepite come meramente “facoltative”, e che – con semplificazione funzionale ad un più rapido discorrere – corrispondono a quelle fattispecie, per così dire, “ancillari” rispetto ai reati di corruzione in senso stretto, e cioè, tra le altre, l’abuso d’ufficio, il traffico d’influenze illecite etc.
Opzione metodologica, dunque, decisamente conservativa, ma non per questo immune da rischi: il risultato della scelta di foggiare il progetto normativo sul paradigma di Merida è che, proprio di simile Convenzione, la Proposta ripete – la dottrina lo ha lucidamente evidenziato[10] – specularmente vizi e virtù, sui quali focalizzeremo l’attenzione nel secondo paragrafo del presente scritto.
Ciò chiarito sotto il profilo degli obiettivi e del metodo, pare ora opportuno considerare – pur telegraficamente e senza alcuna pretesa di esaustività – gli aspetti contenutistici, afferenti al diritto penale sostanziale, maggiormente caratterizzanti la Proposta; documento – giova premettere alla trattazione delle singole disposizioni – le cui basi giuridiche sono state individuate dalla Commissione negli artt. 83 (par. 1), 83 (par. 2) e 82 (par. 1-d) del TFUE.
Ancor prima di entrare nel merito delle disposizioni specificamente penalistiche, vale la pena però di segnalare una significativa novità – appunto, “extrapenale” – nel panorama della disciplina europea in materia di corruzione: alle consuete norme di carattere definitorio (art. 2), difatti, seguono due disposizioni (artt. 3 e 4), che ricalcano in larga misura le disposizioni dell’UNCAC, esplicitamente disciplinanti il profilo della prevenzione della corruzione.
Disposizioni, segnatamente, con le quali oltre a fornire indicazioni – più che altro – di principio – come, ad esempio, assicurare “il massimo livello di trasparenza e responsabilità nella pubblica amministrazione” o, comunque, garantire “il libero accesso alle informazioni di interesse pubblico” – la Proposta impone anche e soprattutto agli Stati membri la previsione di organismi ad hoc, ovvero di unità organizzative specializzate, nello specifico settore della prevenzione della corruzione.
Di misura certamente minore sono le innovazioni per ciò che attiene alla descrizione delle singole fattispecie di reato (artt. 7-13), che si rivelano evidentemente plasmate sul modello – come detto – di Merida, o, comunque, di precedenti atti normativi di matrice eurounionale[11].
Con plastica simmetria tra fenomenologia criminale, per così dire, “pubblicistica” e “privatistica”, il documento, più in dettaglio, prevede obblighi di penalizzazione per i delitti di corruzione pubblica e privata (artt. 7-8); di appropriazione indebita (art. 9), volta a punire le condotte appropriative e distrattive sia del pubblico agente (c.1), che della «persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato» (c.2); di abuso d’ufficio (art. 11): norma anch’essa caratterizzata dal segnalato dualismo – pubblico (c.1) e privato (c. 2) – delle incriminazioni già menzionate.
Il catalogo dei delitti si completa – dipoi – con la previsione di obblighi d’incriminazione anche per le fattispecie di traffico d’influenze illecite (art. 10), di intralcio alla giustizia (art. 12) e di arricchimento illecito (art. 13).
Fattispecie, tutte queste, per le quali la Proposta delinea, altresì, un articolato apparato sanzionatorio (art. 15): oltre ad un nutrito inventario di pene accessorie, difatti, e per ciò che attiene alle pene principali, il documento sancisce l’obbligo di previsione della sanzione detentiva – in relazione al massimo edittale – non inferiore a 6 anni per la corruzione nel settore pubblico e l’intralcio alla giustizia, 4 anni per l’arricchimento illecito e, infine, 5 anni per le residuanti incriminazioni.
Non estranea, inoltre, alla Proposta è la previsione di una fittissima rete di circostanze attenuanti ed aggravanti (art. 18), così come l’individuazione di specifici termini di prescrizione per ciascuna delle figure di reato tipicizzate (art. 21), individuati in 15 anni per la corruzione e l’intralcio alla giustizia; 8 anni per l’arricchimento illecito; 10 anni per le altre fattispecie oggetto di disciplina.
Completano, infine, il quadro normativo, disposizioni in punto di giurisdizione (art. 20), così come la previsione della responsabilità delle persone giuridiche (artt. 16-17), la quale in nulla si discosta dal tradizionale modello comunitario, basato: i) sulla commissione del reato da parte di un soggetto in posizione apicale nell’organizzazione; ovvero ii) sull’incapacità di detti soggetti di vigilare sulle condotte penalmente rilevanti poste in essere dai dipendenti della stessa persona giuridica[12].
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- II) Spunti e rilievi critici
A compendio e specificazione delle sintetiche considerazioni sino ad ora formulate, vale la pena – conclusivamente – focalizzare l’attenzione sulle principali – e maggiormente evidenti – “zone d’ombra” della Proposta, che pur paiono, per larghi tratti, attraversare il documento oggetto d’analisi.
Un cenno al metodo: non s’intendono, in questa sede, porre in rilievo i nodi critici o, comunque, i difetti tecnici emergenti dalle singole disposizioni che compongono l’atto; ciò che s’intende, piuttosto, segnalare – e tentando d’assumere una veduta necessariamente d’insieme – sono quegli errori, per così dire, “prospettici” della Proposta, che sembrano aver – ed a monte – negativamente condizionato gli stessi contenuti del documento.
Vediamo in che termini.
Ci pare opportuno muovere dalla considerazione delle, per così dire, “rationes” dalle quali appare ispirato il progetto d’intervento regolativo: nel testo, in effetti, s’afferma, ed a più riprese, che i “delitti di corruzione” (con ciò intendendosi – rammentiamo – non soltanto la corruzione in senso stretto, ma anche l’abuso d’ufficio, il traffico d’influenze illecite etc.) costituiscono una grave minaccia per la “democrazia”, la “stabilità e la sicurezza della società”, i “valori universali su cui si fonda l’Unione Europea”, lo “Stato di diritto”.
Particolarmente icastico, sul punto, il richiamo al primo dei considerando della Proposta: «La corruzione è ancora un grave problema a livello dell’Unione in quanto minaccia la stabilità e la sicurezza delle società, fra l’altro favorendo la criminalità organizzata e altre forme gravi di criminalità. La corruzione mina le istituzioni democratiche e i valori universali su cui si fonda l’Unione, in particolare lo Stato di diritto, la democrazia, l’uguaglianza e la tutela dei diritti fondamentali».
Il risultato di simile – certo “pindarica” – catalogazione è che si finisce con l’innalzare a ratio giustificatrice dell’intervento la necessità di fornire protezione a interessi indeterminati ed impalpabili, dalla vaghezza tale, da indurre alla sostanziale inconsistenza concettuale; e ciò, beninteso, anche tenendo conto del fisiologico coefficiente di generalità e programmaticità che consuetamente caratterizza la normazione europea.
Il modulo è certo ben noto – anche se, a nostro avviso, simile “cronicizzazione” non ne costituisce affatto giustificazione – al legislatore comunitario, ma anche al frasario tipico degli strumenti internazionali e pattizi in tema di corruzione, e indubbiamente si inscrive, più in generale, nella diffusa tendenza alla enfatizzazione della diffusione e della pericolosità degli effetti del fenomeno corruttivo.
Retorica – lo si rilevi per incidens – senz’altro alimentata ed, altresì, oltremisura accentuata dai criticatissimi “indici di percezione” della corruzione; dati (para)quantitativi, questi, che – come ampiamente noto – restituiscono una dimensione distorta e perciò stesso falsante della diffusione di un determinato fenomeno criminale, e alla cui menzione – per quanto qui rileva – non si sottrae neanche la Proposta di direttiva in commento[13].
Sullo sfondo, una arrière-pensée: «se la corruzione rappresenta, realmente, una minaccia per lo Stato di diritto, la democrazia, […] i valori etici e la giustizia, […], insomma se finisce per riassumere tutti i mali del presente, non si vede come si possa rinunciare a dare prova di estrema fermezza, reagendo con misure extra-ordinarie o emergenziali»[14].
Punto vero, quindi, è che addurre – in funzione quasi, per così dire, “auto-legittimante” – la necessità di proteggere la “democrazia”, i “valori universali dell’Unione” et similia, oltre che inutile – poiché preclude di effettuare un controllo critico sulle scelte d’incriminazione – risulta, in buona sostanza, aprire la strada ad un intervento penale sostanzialmente illimitato[15].
E questo in quanto, nel diritto come altrove, la risposta (sanzionatoria) dipende sempre, ed è necessariamente condizionata, dalla domanda (di tutela).
Sempre sotto il profilo delle ragioni ispiratrici dell’intervento, altrettanto scarsamente persuasivo ci pare, ancora, il riferimento alla necessità di fornire protezione a beni di natura economica, quali, tra gli altri, la “crescita economica sostenibile”, “l’efficace e regolare funzionamento del mercato unico”, etc.
Nessuno dubita del fatto che i reati presi in considerazione dalla Proposta – e ciò naturalmente vale anche per i delitti contro la pubblica amministrazione – possano astrattamente offendere interessi aventi connotazione economicistica.
V’è, però, da considerare che nella maggior parte dei delitti tipicizzati – pensiamo, esemplificativamente, proprio al traffico d’influenze illecite o, ancora, all’abuso d’ufficio – l’offesa a detti beni economici si rivela puramente eventuale ed, al più, mediata, trattandosi di delitti la cui offesa è – di contro – univocamente diretta alla legale esplicazione della pubblica funzione.
Tutto ciò a tacere il dato che per altre incriminazioni – e cioè, ad esempio, l’intralcio alla giustizia – addurre la necessità di proteggere beni economici può apparire financo incomprensibile.
Ciò chiarito sul piano degli obiettivi di tutela, conviene ora dedicarsi alla considerazione di un ulteriore – e indubbiamente non trascurabile – profilo critico interessante il documento in analisi. Profilo, per altro, strettamente interconnesso a quanto rilevavamo a proposito degli interessi giuridici a cui l’intervento mira a fornire protezione.
Dicevamo – poc’anzi – della incertezza degli stessi obiettivi del documento: ebbene, pare – in larga misura – proprio a ciò addebitabile, quello che risulta essere il principale vizio della Proposta, vale a dire la realizzata, indebita, sovrapposizione tra fenomenologie criminali radicalmente dissimili.
Nel testo, difatti, trovano disciplina – secondo il descritto modello d’(im)perfetta specularità – la corruzione pubblica e quella privata; il peculato e l’appropriazione indebita; l’abuso d’ufficio pubblico ed il suo corrispondente privato.
Nulla di male – sia chiaro – a disciplinare in un medesimo documento normativo le elencate fattispecie, ed anzi, al contrario, ben venga un intervento di regolazione con caratteri di omogeneità e razionalità.
Il problema – “serio”, perché di rilevanza costituzionale – si pone poiché la Commissione procede alla equiparazione delle rispettive coppie di incriminazioni sia dal punto di vista sanzionatorio, che dal punto di vista dei relativi termini di prescrizione: discorso che vale sia per l’appropriazione indebita (art. 9) che per l’abuso d’ufficio (art. 11).
In breve: le condotte appropriative e/o distrattive del pubblico funzionario risultano punite alla stessa stregua delle medesime condotte poste in essere dalla «persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato»; lo stesso dicasi per l’abuso d’ufficio, laddove per «l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio» v’è un eguale trattamento sanzionatorio, sia nell’ipotesi di commissione del fatto da parte del pubblico ufficiale, che del privato.
Non dissimili aporie – senza soluzione di continuità – investono anche la disciplina della prescrizione: nella Proposta di direttiva, infatti, il peculato soggiace al medesimo termine di prescrizione dell’appropriazione indebita, così come l’abuso di funzione del pubblico ufficiale si prescrive nello stesso termine del corrispondente delitto commesso dal privato.
Banale – ma forse non superfluo – rammentare la evidentissima diversità tra le fenomenologie criminali poste equivocamente a raffronto, non foss’altro per la difformità di beni giuridici sui quali rispettivamente incidono: beni pubblicisti nell’uno caso; meramente privatistici, nell’altro.
Evidenti, dunque, ci paiono le frizioni con i principi di uguaglianza, offensività e proporzionalità sanzionatoria.
L’ultimo profilo sul quale s’appuntano le nostre censure afferisce ad un fenomeno – per vero sempre più incidente sullo statuto penale della pubblica amministrazione[16] – verso il quale pare nettamente tendere anche la Proposta di direttiva in commento.
Alludiamo – più in particolare – alla progressiva ed inesorabile “processualizzazione” delle incriminazioni e, più in generale, degli istituti e delle categorie dogmatiche del diritto penale: troppo efficace per non essere rammentata – sul punto – la emblematica metafora del “servo” / “muto” – “servo” / “loquace”[17].
Ebbene, un fulgido esempio di siffatta tendenza nell’ambito del documento in analisi è rappresentato dalla fattispecie di arricchimento illecito, descritta come “l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni da parte di un funzionario pubblico nella consapevolezza che derivano dalla commissione di uno dei reati di cui agli articoli da 7 a 12 e all’articolo 14, che il funzionario sia stato coinvolto o meno nella commissione del reato”.
Un reato, dunque, di mero “possesso”, la cui compatibilità con i principi fondamentali del diritto penale appare – s’è condivisibilmente rilevato[18] – quantomeno dubbia.
Se così è, allora, non può certamente stupire che – come riportato dalla stessa Proposta – soltanto i sistemi penali di 8 Paesi, tra i vari Stati membri, risultano corredati da una incriminazione assimilabile al descritto delitto[19].
Ma anche al di là dei possibili rilievi tecnici sulla fattispecie, il dato sul quale vale la pena di focalizzare l’attenzione – e che si riconnette a quanto poc’anzi rammentato a proposito della progressiva “processualizzazione” del diritto penale – è la giustificazione che la stessa Proposta fornisce per l’introduzione della norma in questione.
Si legge nel documento: «Il reato di arricchimento si basa sulle norme che disciplinano il reato di riciclaggio di cui alla direttiva (UE) 2018/1673 del Parlamento europeo e del Consiglio. Riguarda i casi in cui la magistratura ritiene che il reato o i reati di corruzione non possano essere provati. Come nel caso del reato presupposto del riciclaggio, l’onere della prova è di natura diversa»[20].
O ancora: «Per questo reato i pubblici ministeri avrebbero unicamente l’obbligo di provare il legame tra il bene e il coinvolgimento nella corruzione, nello stesso modo in cui dovrebbero provare la corruzione come reato presupposto del riciclaggio»[21].
Fattispecie, dunque, costruita non solo e non tanto per finalità processuali, ma dichiaratamente probatorie, con – dunque – non certo trascurabile, rinnovata, distorsione delle funzioni della norma penale.
A voler tirare le fila del discorso, quindi, plurimi paiono – e certamente sono – gli aspetti quantomeno rivedibili della Proposta, la cui eccessiva spinta verso una – forse indiscriminata, come visto – criminalizzazione, induce a chiedersi se il progetto d’intervento, nel suo complesso, possa dirsi effettivamente “sussidiario” e “proporzionato”, così come imposto dall’art. 5 TUE.
Fors’anche animata da buone intenzioni – l’aggiornamento del (datato) quadro europeo in materia di corruzione – la Proposta, nel farlo, si spinge forse troppo oltre; l’adagio delle vie dell’inferno, con quel che segue, potrà suonare tanto provocatorio, quanto però – lo si consenta – “dannatamente” calzante.
Dott. Gaetano Stefano Califano
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[1] Joint Communication of the European Commission and the High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy (to the European Parliament, the Council and the European Economic and Social Committee) on the fight against corruption, disponibile online al link: https://commission.europa.eu/publications/joint-communication-fight-against-corruption_en;
Proposal for a Directive (of the European Parliament and of the Council) on combating corruption by criminal law, COM(2023), 234 final, disponibile online al link: https://home-affairs.ec.europa.eu/proposal-directive-european-parliament-and-councilcombating-corruption-criminal-law.
[2] Discutere di “corruzione” nel contesto europeo e sovrannazionale obbliga l’interprete ad un preliminare sforzo di, per così dire, “disambiguazione”. Ed infatti, la nozione “sovrannazionale” di corruzione non abbraccia soltanto le tradizionali ipotesi criminose caratterizzate dal mercimonio illecito della pubblica funzione da parte del pubblico ufficiale (bribery), ma è concetto ben più ampio, identificabile in qualsiasi abuso di potere fiduciario finalizzato all’ottenimento di un vantaggio privato. Tale concetto (corruption), dunque, non ricomprende soltanto i delitti di corruzione stricto sensu intesi – e cioè, ad esempio, i nostrani artt. 318, 319 c.p. – ma interessa, altresì, tutte quelle fattispecie che determinano una sostanziale strumentalizzazione, da parte del soggetto agente, della propria funzione. Così si spiega la circostanza che – come più diffusamente si avrà modo di illustrare oltre – la Proposta di direttiva, oltre che per le tradizionali figure di corruzione pubblica, prevede specifici obblighi di incriminazione anche, ad esempio, per il peculato, per l’appropriazione indebita, per il traffico d’influenze illecite etc.
[3] Anticipando la trattazione di un tema che meglio sarà approfondito nel prosieguo, basti ora segnalare come le preoccupazioni per gli effetti dannosi che i delitti di corruzione producono sull’economia e sul mercato unico dell’Unione europea rivestono un ruolo affatto centrale nell’ambito dei documenti in commento: e ciò vale sia per la Comunicazione congiunta – laddove, ad esempio, si riconosce come «la corruzione è un ostacolo alla crescita economica sostenibile che distrae risorse dai risultati produttivi, compromette l’efficienza della spesa pubblica e inasprisce le disuguaglianze sociali. Ostacola il funzionamento efficace e regolare del mercato unico, crea incertezze nel fare impresa e frena gli investimenti»; sia per la Proposta di direttiva, che rivela come «per la sua stessa natura la corruzione è un fenomeno difficile da quantificare, ma finanche stime prudenziali indicano che il suo costo per l’economia dell’Unione è pari ad almeno 120 miliardi di EUR all’anno».
[4] A. ROVAN, L’onde de choc du «Qatargate» ébranle le Parlement européen, in Le Figaro, disponibile online al link: https://www.lefigaro.fr/international/soupcons-de-corruption-le-parlement-europeen-perquisitionne-ce-lundi-20221212.
[5] Così, L. SALAZAR – F. CLEMENTUCCI, Per una nuova anticorruzione europea: eu-rbi et orbi, in SP, 7-8, 2023, p. 70 e ss.
[6] United Nation Convention against Corruption, 31 october 2003.
[7] P. 15 proposta di direttiva.
[8] L. STORTONI – G.S. CALIFANO, Ex falso sequitur quodlibet: l’invocazione di vincoli sovranazionali nel dibattito sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, in DisCrimen, 2023, pp. 2 ss.
[9] Più in dettaglio, la Convenzione di Merida prevede un obbligo cogente di penalizzazione per la “corruzione di pubblici ufficiali nazionali” (art. 15), la “corruzione di pubblici ufficiali stranieri e di funzionari di organizzazioni internazionali pubbliche” (ma solo per quanto attiene al versante “attivo” del pactum sceleris, art. 16 c.1), la “sottrazione, l’appropriazione indebita od altro uso illecito di beni da parte di un pubblico ufficiale” (art. 17), il “riciclaggio dei proventi del crimine” (art. 23), l’”ostacolo al buon funzionamento della giustizia” (art. 25); meramente “facoltativa”, invece, l’incriminazione della “corruzione di pubblici ufficiali stranieri e di funzionari di organizzazione internazionali pubbliche” (art. 16, c.2), del “millantato credito” (art. 18), dell’”abuso d’ufficio” (art. 19), dell’”arricchimento illecito” (art. 20), della “corruzione nel settore privato” (art. 21), della “sottrazione di beni nel settore privato” (art. 22), della “ricettazione” (art. 24).
[10] V. MONGILLO, Strenghts and weaknesses of the Proposal for a EU directive on combating corruption, in SP, 7, 2023, p. 4.
[11] Basti pensare, ad esempio, alla definizione della corruzione privata, che riprende in larga misura la nozione della medesima incriminazione fornita dalla Decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio del 22 luglio 2003; o, ancora, il peculato, la cui condotta tipica risulta – fatto salvo per il profilo della necessaria lesione degli interessi finanziari dell’Ue – pienamente sovrapponibile alla descrizione apprestatane dalla Direttiva PIF 2017/1371.
[12] V. MONGILLO, Strenghts and weaknesses of the Proposal for a EU directive on combating corruption, cit., p. 15.
[13] Ed infatti, ad esempio, a p.1 della Proposta si legge come: «I dati dell’indagine Eurobarometro 2022 segnalano che il 68 % dei cittadini dell’UE e il 62 % delle imprese con sede nell’UE ritengono che la corruzione sia diffusa nel loro paese».
[14] V. MONGILLO, Il contrasto alla corruzione tra suggestioni del “tipo d’autore” e derive emergenziali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2, 2020, p. 982.
[15] Sulla dimostrazione di come la sussistenza di un contesto – più o meno posticciamente – emergenziale funga da legittimazione ad una risposta penale particolarmente severa, o comunque derogatoria rispetto ai principi fondamentali, la letteratura è vastissima. Per una recente riflessione sul delicatissimo problema del bilanciamento tra esigenze punitive e garanzie nell’emergenza pandemica, cfr. D. CASTRONUOVO, I limiti sostanziali del potere punitivo nell’emergenza pandemica: modelli causali vs. modelli precauzionali, in LP, 2020, pp. 6 ss.
[16] L. STORTONI, A proposito di leggi…miracolose!, in Ius17@ unibo.it – Studi e materiali di diritto penale, 3, 2012, p. 52.
[17] T. PADOVANI, Il crepuscolo della legalità nel processo penale. Riflessioni antistoriche sulle dimensioni processuali della legalità, in Ind. pen., 2, 1999, p. 528.
[18] Con riguardo, infatti, al ne bis in idem, la dottrina ha rilevato: «The most problematic hypothesis from the point of view of the constitutional principles of the Member States, however, concerns the incrimination of the mere “possession” of an asset derived from an offence when the same public official who holds it is the perpetrator of the predicate crime. Such a scenario is contrary to the substantive principle of ne bis in idem: imagine the case of a public official punished twice for the same facts, in particular on the one hand for passive bribery and on the other hand for unlawful possession of the bribe obtained». Così, V. MONGILLO, Strenghts and weaknesses of the Proposal for a EU directive on combating corruption, cit., p. 13.
[19] Pp. 12-13 Proposta di direttiva.
[20] P. 25 Proposta di direttiva.
[21] P. 19 Proposta di direttiva.