Sommario: 1. Oggetto del provvedimento – 2. Contenuto del provvedimento – 3. Premessa. Il bene giuridico tutelato dall’art. 474 c.p. – 4. La (non) rilevanza del c.d. falso grossolano – 5. I rapporti tra gli artt. 474 e 648 c.p.
1. Oggetto del provvedimento
Con la sentenza in commento, il Tribunale di Pavia ha accertato la responsabilità penale dell’imputato, condannandolo per i reati di cui agli artt. 474 e 648 c.p., legati dal vincolo della continuazione, in relazione alla vendita, nell’ambito di un regolare esercizio commerciale, di articoli riportanti marchi registrati contraffatti.
Al contempo, il giudicante ha assolto l’imputato limitatamente ad alcuni prodotti, con formula dubitativa perché “il fatto non sussiste”, ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p.
La sentenza in commento consente di ripercorrere alcune questioni rilevanti nella c.d. tutela penale del marchio: in primo luogo, l’annoso dibattito sulla possibile rilevanza in tale settore del c.d. falso grossolano; in secondo luogo, i problematici rapporti tra i delitti di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.) e di ricettazione (art. 648 c.p.).
2. Contenuto del provvedimento
In seguito a un controllo presso i locali commerciali (punto vendita e magazzino) di una ditta individuale, gli operanti della Guardia di Finanza rinvenivano una ingente quantità di articoli (più di quattromila) recanti marchi figurativi la cui genuinità era sospetta. Tali articoli presentavano alcune divergenze rispetto ai prodotti originali quali l’assenza dell’ologramma termosaldato, la scarsa qualità dei materiali, la mancanza delle etichette e dei cartellini pendenti, oltre alla presenza della dicitura “made in China”. L’imputato non riusciva a fornire alcuna spiegazione né documentazione attestante la legittima provenienza della merce.
I prodotti venivano sottoposti a perizia, all’esito della quale veniva accertata la loro natura non genuina e l’idoneità degli stessi a trarre in inganno il consumatore medio.
In estrema sintesi, a fronte della contestazione del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.), il giudice di primo grado perviene alla condanna, allineandosi all’orientamento giurisprudenziale maggioritario in tema di contraffazione grossolana.
Con riferimento invece all’altro capo di imputazione, relativo al delitto di ricettazione (art. 648 c.p.), il giudice, in piena continuità con l’orientamento maggioritario, ammette il concorso tra i due delitti contestati in virtù della loro eterogeneità strutturale e condanna l’imputato.
Infine, limitatamente ai prodotti verso i quali non era stata disposta perizia, il giudice assolve con la formula dubitativa ex art. 530, cpv., c.p.p., poiché l’assenza di una perizia non consente di affermare al di là di ogni ragionevole dubbio la natura non genuina degli stessi.
3. Premessa. Il bene giuridico tutelato dall’art. 474 c.p.
Come anticipato, la sentenza in commento offre lo spunto per alcune considerazioni in materia di marchi contraffatti.
Come noto, il delitto previsto dall’art. 474 c.p., sanzionando sia l’introduzione nel territorio nazionale che la messa in commercio di prodotti con marchi contraffatti, presuppone logicamente la realizzazione del fatto descritto dall’art. 473 c.p. (che sanziona invece la condotta di contraffazione), delineando così un microsistema di tutela penale dei marchi registrati. Le due incriminazioni fotografano un iter criminis bifasico che parte dalla contraffazione e si snoda poi nella vendita del bene non genuino[1]. In questo senso si spiega la presenza della clausola di sussidiarietà prevista all’incipit dei due commi di cui si compone il primo.
La contiguità genetica e logica delle due incriminazioni consente di affermare – pacificamente[2] – l’identità del bene giuridico tutelato.
Tuttavia, l’individuazione del bene protetto da tali delitti è sempre stato oggetto di discussione, in un ambito in cui è forte l’influenza della normativa extra-penale. Infatti, come vedremo, il dibattito in dottrina è caratterizzato da un forte aggancio alle riflessioni civilistico-industriali sulle funzioni svolte dal marchio[3].
L’orientamento prevalente tradizionalmente individua il bene giuridico tutelato nella fede pubblica, poiché gli artt. 473 e 474 c.p. mirano a evitare la lesione della fiducia dei consumatori attraverso la tutela di quei simboli pubblici, come i marchi registrati, che consentono di contrassegnare i prodotti industriali nella loro circolazione nel mercato[4]. La fede pubblica è dunque ricostruita come un interesse collettivo alla distinzione della fonte di provenienza (e produzione) dei prodotti collocati nel mercato[5]. In realtà, tale ricostruzione prende le mosse da quella dottrina extra-penale che individua quale funzione primaria del marchio la tutela dei consumatori; essa si fonda infatti sulla capacità distintiva del marchio, in considerazione del fatto che attraverso il marchio si realizza una facile e immediata riconducibilità del bene al proprio produttore e di conseguenza a un determinato standard qualitativo assicurato da quel produttore[6].
L’orientamento in analisi si pone dunque in piena coerenza con la collocazione sistematica nell’ambito dei delitti contro la fede pubblica e, soprattutto, con la struttura delle fattispecie incriminatrici in questione. Esse, infatti, descrivono reati di pericolo il cui disvalore può essere ricondotto all’inganno della fiducia che il pubblico indeterminato dei consumatori ripone sulla genuinità del marchio quale indicatore di provenienza – industriale e qualitativa – dei prodotti[7].
Tuttavia, non si possono tacere alcune considerazioni critiche. La fede pubblica costituisce infatti un bene giuridico superindividuale che si caratterizza per una notevole malleabilità e vaporosità, caratteristiche che lo rendono facilmente esposto a spinte espansive al fine di sopperire a presunte lacune dell’ordinamento, specie con riferimento al tema dei falsi grossolani[8].
Secondo altro orientamento, invece, gli artt. 473 e 474 c.p. tutelerebbero non la fede pubblica bensì la proprietà industriale, intesa come l’esclusività dell’utilizzo del marchio da parte del suo titolare. Pertanto, il bene tutelato sarebbe costituito dal patrimonio dei titolari del marchio[9]. Tali posizioni sono state avversate – quantomeno inizialmente – dalla dottrina penalistica maggioritaria sulla base di diverse argomentazioni. In primo luogo, la collocazione sistematica delle due incriminazioni tra i “delitti contro la fede pubblica” evidenzia la volontà del legislatore del ’30 di prescindere dalla tutela dei diritti patrimoniali del titolare del marchio[10]. Pertanto, sarebbe difficile immaginare una completa estromissione della fede pubblica quale oggetto di tutela delle fattispecie[11]. In secondo luogo, tale ricostruzione si porrebbe in contrasto con la littera legis delle fattispecie, nell’ambito delle quali non è riservato alcuno spazio esplicito al danno subito dal titolare del diritto sul marchio[12].
Ciononostante, tale orientamento ha recentemente trovato nuova linfa, grazie all’apporto della dottrina civilistica[13] e alla nuova conformazione del marchio alla luce delle riforme in campo extra-penale[14]. Secondo tale dottrina, infatti, nel nuovo assetto normativo risultante dal Codice della proprietà industriale, il marchio non sarebbe più garanzia di provenienza e qualità del prodotto, ma costituirebbe solo un mero valore patrimoniale da tutelare[15].
Un ultimo orientamento propone una ricostruzione in chiave di plurioffensività cumulativa. Si sostiene che il microsistema in questione tuteli sia l’interesse dei consumatori – la cui lesione sarebbe comunque necessaria – sia quelli economici dei titolari del diritto all’uso esclusivo del marchio[16]. Tale orientamento muove da due esigenze. In primo luogo, esso tenta di sopperire e dare maggiore concretezza alla fumosità del concetto di “fede pubblica”, attraverso l’emersione di beni più tangibili (quali appunto il patrimonio del titolare del marchio). In secondo luogo, esso mira a restringere l’area di operatività di tali fattispecie in modo da tenere esente da pena le ipotesi di falso grossolano e punire, quindi, solo condotte concretamente lesive.
Tale impostazione è però facilmente esposta a obiezioni per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, si è sottolineato come «altro è il danno o pericolo di danno concretamente identificabile in relazione ad un singolo episodio delittuoso, altro è la categoria del bene giuridico, tutelato in via generale dalla legge e offeso dal reato»[17]. In secondo luogo, in contrasto con l’obiettivo di circoscrivere l’area di punibilità, è forte il rischio che la plurioffensività venga letta dalla giurisprudenza non come cumulativa ma come alternativa, con la conseguente dilatazione della fattispecie fino ad accontentarsi dell’offesa di uno dei due beni evocati, vanificando la funzione di garanzia dell’oggetto di tutela[18].
Il dibattito è stato poi rinfocolato dalla l. 23 luglio 2009, n. 99, che ha introdotto l’art. 474-bis c.p. Tale disposizione prevede non solo la confisca – anche per equivalente – delle “cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto, il prodotto, il prezzo o il profitto”, ma anche il diritto della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno. Essa pone dunque il problema dell’individuazione della persona offesa che, evidentemente, non può identificarsi con la collettività indeterminata dei soggetti titolari del bene “pubblica fede”[19]. In dottrina, si è sottolineato che le persone offese aventi diritto alla restituzione e al risarcimento del danno – e quindi i soggetti passivi del reato – non possono che essere i titolari del marchio contraffatto e gli effettivi consumatori ingannati dal marchio contraffatto. In effetti, così ricostruita la previsione, si può affermare che l’oggetto delle restituzioni coincida con le somme pagate come corrispettivo della merce acquistata. In tal modo, l’introduzione dell’art. 474-bis c.p. sembrerebbe deporre a favore di una ricostruzione quantomeno in chiave plurioffensiva del bene giuridico tutelato[20]; ma non manca chi ritiene che, invece, la riforma abbia definitivamente spostato il bene giuridico tutelato verso la sola tutela dell’esclusività del marchio[21].
Quest’ultima posizione si fonda su due motivi. Essa fa, in primo luogo, leva sulla sanzione amministrativa di cui all’art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, riformata dalla l. n. 99/2009, che punisce il consumatore che acquista consapevolmente prodotti non genuini[22]; e in secondo luogo, sull’estensione della confisca per equivalente, prevista all’art. 474-bis c.p., anche alla “persona estranea al reato medesimo”, soggetto che tale orientamento individua nella figura del consumatore[23]. Entrambe le disposizioni, quindi, si frappongono alla possibilità di ritenere il consumatore soggetto passivo del reato: di conseguenza l’unico soggetto passivo potrebbe essere soltanto il titolare dell’esclusività del marchio.
4. La (non) rilevanza del c.d. falso grossolano
Come anticipato, la sentenza in commento affronta il dibattito sulla rilevanza del c.d. falso grossolano nella sua declinazione di contraffazione grossolana.
Il tema del falso inoffensivo perché grossolano è un tema classico dei delitti contro la pubblica fede e riguarda quelle condotte di falsificazione che, pur tipiche, risultano prive di reale capacità decettiva, in virtù della riconoscibilità ictu oculi della falsificazione[24]. Lo stesso dovrebbe dunque valere, mutatis mutandis, per la contraffazione di prodotti destinati alla vendita, recanti marchi contraffatti, che per le modalità con cui vengono presentati al pubblico non sono in grado, in concreto, di ingannare l’acquirente sulla loro genuinità.
L’estensibilità del concetto di “falso grossolano” al settore della contraffazione di marchi risente però inevitabilmente delle difficoltà riscontrate dagli interpreti nell’individuare il bene giuridico tutelato dall’art. 474 c.p., a partire dalla vaghezza e dalla vaporosità del concetto di fede pubblica[25].
Secondo un primo orientamento[26], sostenuto da una parte della giurisprudenza di merito[27] e inizialmente anche dalla Cassazione[28], le ipotesi di contraffazione grossolana vanno escluse dall’ambito di operatività delle fattispecie di cui agli art. 473 e 474 c.p., in quanto costituirebbero un’ipotesi di reato impossibile ex art. 49, comma 2, c.p. Come si vede, e come già è stato osservato[29], tale orientamento rievoca la c.d. concezione realistica del reato[30]. La conseguenza di questa impostazione è che essa permette di valorizzare – per valutare la reale capacità decettiva – anche elementi ultronei rispetto al marchio abusivamente apposto, quali il modico prezzo di vendita, la scarsa qualità del prodotto recante il marchio contraffatto, l’assenza di tagliandi o ologrammi.
Chiara esemplificazione di questa posizione, è la considerazione per cui «l’offerta da parte dei venditori ambulanti di prodotti “griffati” è ormai accolta dalla clientela con un diffuso e sottinteso scetticismo circa l’autenticità dei marchi, con un’accettazione implicita della provenienza aliena dei prodotti stessi, dato il loro prezzo e l’evidente approssimazione dei segni a quelli effettivi che la clientela di comune esperienza ben conosce nelle reali caratteristiche distintive»[31].
L’orientamento maggioritario[32], invece, afferma la rilevanza penale anche della contraffazione grossolana negando di conseguenza ogni rilievo a elementi estranei al marchio stesso, perché l’attitudine della contraffazione a generare confusione deve essere valutata non solo con riferimento al momento dell’acquisto, bensì anche in relazione al successivo utilizzo in pubblico degli oggetti[33].
In tale questione, emerge chiaramente l’incidenza del dibattito sul bene giuridico tutelato dalla fattispecie in parola. Infatti, se il bene è individuato nella fede pubblica, e per essa s’intende l’affidamento che la generalità ripone sulla funzione distintiva del marchio, allora l’attenzione si deve focalizzare esclusivamente sul marchio, mentre ogni elemento esteriore a esso è irrilevante, con la conseguente punibilità delle ipotesi di contraffazione grossolana[34].
Al contrario, se si declina la fede pubblica nell’ottica della tutela degli interessi dell’acquirente e della sua libertà di scelta, allora bisogna escludere la punibilità della contraffazione grossolana perché non verrebbe in questione la capacità distintiva del marchio, bensì la sua attitudine a garantire la libera determinazione dell’acquirente nel singolo rapporto giuridico[35].
A quest’ultimo orientamento è stato però obiettato che esso si scontrerebbe con la littera legis, con la struttura e con la natura dei delitti in questione[36]. Infatti, se è vero che la fattispecie descritta nell’art. 474 c.p. configura un reato di pericolo presunto che sanziona condotte prodromiche rispetto alla vendita del prodotto contraffatto[37] (detenzione per la vendita, messa in vendita o messa in circolazione), il suo disvalore risiede nel rischio di diffusione di prodotti che, se immessi nel mercato, potrebbero trarre in inganno i consumatori sulla provenienza dei prodotti falsamente contrassegnati[38].
Di conseguenza, il delitto rappresenterebbe una tutela anticipata della fiducia che il pubblico indeterminato di consumatori ripone nella funzione distintiva del marchio, per cui ricomprenderebbe nel suo ambito operativo anche le ipotesi di contraffazione che, seppur grossolana, potrebbe creare le condizioni favorevoli per la realizzazione di condotte lesive della fede pubblica.
Come anticipato, la sentenza in commento si allinea proprio a quest’orientamento maggioritario, che configura l’art. 474 c.p. in termini di reato di pericolo presunto, affermando la punibilità ex art. 474 c.p. anche delle ipotesi di contraffazione grossolana.
Su tale conclusione non si possono però tacere alcune considerazioni critiche.
Secondo larga parte della dottrina, l’esistenza nell’ordinamento di reati di pericolo presunto sarebbe giustificata solo in presenza di alcuni presupposti: l’importanza dei beni giuridici tutelati (essenzialmente beni primari o altamente personali come la vita e la salute), e la difficoltà per il giudice di accertare in concreto l’effettiva esposizione a pericolo del bene e la preesistenza di regole, scientifiche o di esperienza, che consentano di affermare l’esistenza di un collegamento diretto tra condotta e un determinato evento[39]. Ebbene, tali requisiti impediscono di considerare l’art. 474 c.p. come un reato di pericolo presunto perché il bene giuridico tutelato non rientra tra i beni c.d. “primari”, né sussistono particolari difficoltà nell’accertare l’esposizione a pericolo della fede pubblica: risulta abbastanza agevole accertare la natura contraffatta di un bene tramite perizia. Infatti, se, da un lato, vi sono regole di esperienza che consentono di affermare che un prodotto contraffatto può generare un errore, dall’altro, però, esistono regole di esperienza che consentono di affermare che determinate circostanze del prodotto contraffatto escludono il pericolo di errore sulla sua provenienza[40].
Pertanto, il delitto in questione non andrebbe qualificato in termini di pericolo astratto, bensì di pericolo concreto, con la conseguente irrilevanza penale della contraffazione grossolana del marchio, anche in relazione alle condizioni di vendita di quest’ultimo.
Detto ciò, nel caso di specie, pur essendo presenti elementi estranei al marchio (quali l’assenza dell’ologramma termosaldato, di etichette e cartelli pendenti, la scarsa qualità dei materiali e la presenza della dicitura “made in china” apposta all’interno dei prodotti) che avrebbero potuto deporre per una valutazione di grossolanità della contraffazione, il giudice valorizza invece il fatto che «la totalità delle perizie in parola evidenziava come i prodotti in sequestro presentassero le caratteristiche estetiche peculiari dei marchi tutelati, con lievi e talvolta impercettibili difformità (anche e soprattutto nella qualità dei materiali e nelle rifiniture), tali da produrre nell’utilizzatore informato la stessa impressione generale derivante dal modello originale, nonché da trarre in inganno il consumatore medio, atteso il carattere non sincrono della prova comparativa effettuava al momento dell’acquisto».
Pertanto, pur fermo restando quanto appena rilevato, la sola necessità di effettuare indagini ulteriori risulta qui chiaramente sufficiente a escludere la grossolanità della contraffazione, la quale – si ricorda – deve essere evidente ictu oculi da parte di chiunque[41].
5. I dibattuti rapporti tra l’art. 474 c.p. e l’art. 648 c.p.
La sentenza in epigrafe affronta anche un’altra questione rilevante in materia della tutela penale dei segni distintivi: il problematico rapporto tra la disposizione qui in parola e il reato di ricettazione, previsto dall’art. 648 c.p.
La problematicità riguarda l’ipotesi, come nel caso di specie, in cui taluno detenga per la vendita, o metta in vendita, prodotti riportanti marchi contraffatti dopo averli acquistati o ricevuti conoscendone la natura non genuina.
La sentenza si allinea all’orientamento giurisprudenziale maggioritario che ammette la possibilità del concorso tra le due fattispecie incriminatrici[42]. Bisogna, però, procedere per gradi al fine di comprendere il motivo di tale orientamento.
Il primo nodo interpretativo da affrontare riguarda la possibilità stessa che si possa ritenere configurata la ricettazione quando l’acquisto o la ricezione abbiano ad oggetto cose riportanti marchi contraffatti. Questione che va affrontata preliminarmente perché – evidentemente – se tali ipotesi non rientrassero nell’ambito applicativo della ricettazione non si porrebbe, a monte, alcun problema di concorso apparente o reale tra norme.
Il dibattito sull’esatta operatività dell’art. 648 c.p. ruota attorno all’interpretazione dell’inciso “cose provenienti da un qualsiasi delitto”, espressione che, data la sua ampiezza, ha dato adito a non pochi contrasti interpretativi. Più precisamente, parte della dottrina[43] e della giurisprudenza[44] attraverso una più restrittiva interpretazione di tale requisito hanno escluso la configurabilità della ricettazione nel caso di oggetti riportanti marchi contraffatti. Questo perché, si sostiene, ai fini della configurabilità del delitto di ricettazione non sarebbe sufficiente un generico collegamento con un precedente delitto, ma sarebbe richiesta una diretta connessione con i reati presupposto e ciò può avvenire solamente attraverso quei reati che hanno consentito di acquistare la disponibilità del bene a colui che poi lo cede[45].
Dunque, la locuzione “proveniente da delitto” alluderebbe a un illecito penale che abbia determinato il trasferimento della cosa in capo a colui che poi effettuerà la vendita[46].
Alla luce di ciò, i reati come quelli di contraffazione del marchio non potrebbero essere ricompresi tra i reati presupposto della ricettazione, in quanto da essi non si determinerebbe alcun trasferimento del bene nella sfera del soggetto che poi andrà a venderla. Infatti, la contraffazione non sottrae in alcun modo il marchio genuino alla titolarità o disponibilità dell’autentico titolare[47]: vista la natura di bene immateriale del marchio, sono possibili solo condotte usurpatorie, che non intaccano la disponibilità della cosa[48]. Per questi motivi, secondo tale orientamento, si potrebbe parlare – con riferimento alla ricezione di cose riportanti marchi contraffatti – non di beni provenienti da reato, bensì di beni prodotti del reato[49], con conseguente esclusione della configurazione della ricettazione.
Al contrario, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario ritiene che anche i beni contraffatti possano essere oggetto di ricettazione. Tale posizione muove, in primo luogo, dalla ratio di tale incriminazione e da una interpretazione estensiva del concetto di “provenienza da reato”. Con l’art. 648 c.p., infatti, il legislatore, nel sanzionare l’acquisto o la ricezione di cose provenienti da qualsiasi delitto, avrebbe voluto colpire ogni acquisizione consapevole di beni caratterizzati da un’origine delittuosa, se e in quanto le condotte tipiche descritte dalla fattispecie siano idonee a rafforzare l’offesa arrecata con il fatto criminoso presupposto. Quest’ultimo non deve essere necessariamente un delitto contro il patrimonio, ma può essere di qualsiasi natura, come confermato dall’inciso “qualsiasi”[50]. Inoltre, l’espressione “cose provenienti da reato” si palesa ampia e non vi sono ragioni – né letterali, né logiche – per interpretarla come limitata a quanto costituisce il provento del reato e non quale espressione volta a ricomprendere anche i beni prodotti da reato; infatti, si specifica, proviene da reato ciò che col reato è creato[51].
Pertanto, la contraffazione potrebbe costituire il delitto presupposto della ricettazione perché tra il marchio contraffatto e il prodotto sussiste un rapporto di immedesimazione tale per cui diviene impossibile – anche concettualmente – una loro scissione, con la conseguenza che gli oggetti falsamente contrassegnati possono considerarsi come cosa proveniente da reato[52].
In secondo luogo, poi, si sottolinea che la tesi opposta si allontana dal dato normativo testuale perché è innegabile che le condotte descritte nell’art. 474 c.p., oltre a violare la pubblica fede, realizzano un’offesa ai diritti di proprietà industriale facenti capo al titolare del marchio. Pertanto, la fattispecie tipica della ricettazione dovrebbe ritenersi integrata, perché la cosa che viene ricevuta reca «un attributo che essa non potrebbe avere, il quale viene valutato dal mercato in termini positivi ed è conseguente alla ingerenza indebita nell’altrui creazione o diritto di esclusiva»[53].
Una volta verificata la configurabilità della ricettazione nel caso di ricezione di beni contraffatti, bisogna verificare se i due delitti possano concorrere o meno. Come già detto, l’orientamento maggioritario si determina in senso favorevole al concorso.
In particolare, si esclude la configurazione di un rapporto di specialità, vista l’eterogeneità sia dell’elemento materiale che di quello psicologico[54]. Secondo l’opinione maggioritaria, infatti, se da un punto di vista naturalistico le condotte di acquisto e ricezione risultano implicitamente contenute nella disponibilità della cosa, dal punto di vista logico-normativo esse risultano inevitabilmente eterogenee rispetto alla condotta detentiva. Infatti, mentre quest’ultima descrive un’azione permanente, le condotte di ricezione o acquisto delineano una azione istantanea. In breve, la diversità strutturale e ontologica delle condotte esclude l’applicazione del principio di specialità ex art. 15 c.p.[55].
Esclusa la possibilità di ricorrere al rapporto di specialità, rimane la possibilità di utilizzare criteri c.d. valoriali o sostanziali nel valutare il concorso tra le due fattispecie in questione; il riferimento va in particolare al c.d. criterio della consunzione[56]. Mentre in giurisprudenza è ormai consolidato l’ostracismo verso i criteri preterlegali, con la conseguente ammissibilità del solo criterio di specialità[57], in dottrina essi sono stati anche di recente riproposti[58].
Tuttavia, anche ammettendo una simile operazione interpretativa, i problemi permangono. Come noto, infatti, l’individuazione della norma prevalente dovrebbe essere condotta in base alla maggiore gravità della sanzione prevista, ma il presupposto sarebbe comunque quello di una progressione offensiva. Nel caso di specie, invece, la fattispecie da applicare sarebbe quella che punisce l’antefatto, cioè la ricettazione, dal momento che il commercio di prodotti con segni contraffatti (il fatto-reato che per la sua struttura potrebbe essere assorbente) viene sottoposto a un trattamento più lieve.
Pertanto, convincente appare la soluzione del giudicante nella pronuncia in esame, che ha concluso per l’applicazione in concorso di entrambe le fattispecie.
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Dott. Gilberto Halili
Dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Università del Salento
Bibliografia
[1] A. Alessandri, Tutela penale dei segni distintivi (voce), in Dig. disc. pen., vol. XIV, Utet, Torino, 1999, p. 456.; F. Cingari, La tutela penale dei marchi e dei segni distintivi, Ipsoa, Asiago, 2008, p. 44; G. Marinucci, Falsità in segni distintivi delle opere dell’ingegno e dei prodotti industriali (voce), in Enc. dir., vol. XVI, Giuffrè, Milano, 1967, p. 653; Id., Il diritto penale dei marchi, Giuffrè, Milano, 1962, p.103; A. Rossi Vannini, I segni distintivi: riflessi penali, in L. Conti (a cura di), Il diritto penale dell’impresa, Cedam, Padova, 2001, p. 705.
[2] V., ex multis, A. Alessandri, Problemi attuali del diritto penale industriale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1989, p. 989; Id., Tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 434; E. Infante, La falsificazione e l’uso dei segni falsi, in A. Cadoppi – S. Canestrari – A. Manna – M. Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale. Vol.V: I delitti contro la fede pubblica e l’economia pubblica, Utet, Milano, 2022, p. 236; G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, cit., p. 103.
[3] La dottrina civilistica individua tradizionalmente tre funzioni svolte dal marchio nel contesto economico e commerciale: funzione distintiva della provenienza (Herkunftsfunktion), funzione di garanzia della qualità (Garantiefunktion) e funzione di suggestione (o attrattiva) del pubblico dei consumatori (Werbefunktion). Sul punto: A. Alessandri, Tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 435; G. Cocco, Sub art. 473 c.p., in M. Ronco – B. Romano (a cura di), Codice penale commentato, Utet, Milano, 2012, p. 2280; G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, cit., pp. 11 ss.; G. Sena, Marchio di impresa (natura e funzioni) (voce), in Dig. disc. priv., vol. IX, Utet, Torino, 1993, pp. 292 ss.; A. Vanzetti, Natura e funzioni giuridiche del marchio. Problemi attuali del diritto industriale, in AA.VV., Problemi attuali del diritto industriale, Giuffrè, Milano, 1977, p. 1164.
[4] In dottrina: A. Alessandri, Tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 434; Id., Problemi attuali del diritto penale industriale, cit., pp. 987 ss.; F. Cingari, Marchi, brevetti e segni distintivi (tutela penale dei) (voce), in Enc. dir., ann., vol. VII, Giuffrè, Milano, 2013, p. 692; Id., La tutela penale dei marchi, cit., p. 49; G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, cit., pp. 66 ss.; C. Pedrazzi, Volgarizzazione e pseudovolgarizzazione del marchio e riflessi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1961, p. 849; in giurisprudenza: Cass. pen., Sez. V, 12.03.2008, n. 21787, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 323; Cass. pen., Sez. V, 15.7.2008, n. 37553, in Foro it., 2009, p. 625; Cass. pen., Sez. II, 17.3.2009, n. 2351 in Riv. pen., 2010, p. 418; Cass. pen., Sez. V, 18.05.2021, n. 23709, in Riv. dir. Ind., 2021, p. 330.
[5] A. Alessandri, Problemi attuali del diritto penale industriale, cit., p. 989; L. Locatelli, Dell’esame comparativo tra il marchio contraffatto e quello originale e dell’uso del nome geografico come marchio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, p. 230; G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, cit., p. 80; C. Pedrazzi, Volgarizzazione e pseudovolgarizzazione, cit., p. 849; Id., Appunti sulla tutela penale delle denominazioni di origine, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1956, p. 583.
[6] Tale dottrina civilistica, anche in seguito alla riforma del 1992 (D.Lgs. n. 480/1992), sostiene che la funzione preminente del marchio è la sua capacità distintiva della provenienza. Una provenienza, però, che cambia aspetto e non va più intesa come fonte aziendale, ma come centro di ideazione del prodotto e individuazione di standard qualitativi (v. A. Vanzetti, La nuova legge marchi. Commento articolo per articolo della legge marchi e delle disposizioni transitorie del d.lgs. n. 480/92, Giuffrè, Milano, 2001, p. 3 ss.). Per una ricostruzione più approfondita: A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 435-437; F. Cingari, Marchi, brevetti e segni distintivi (voce), cit., p. 690-692.
[7] A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 456; F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., p. 73; G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, cit., p. 82; A. Rossi Vannini, La tutela penale dei segni distintivi, cit., p. 115.
[8] Per una ricostruzione sulle diverse interpretazioni giurisprudenziali del concetto di pubblica fede, v. I. Giacona, Punibilità della vendita di merci grossolanamente contraffatte. Nota a sentenza Cass. pen. Sez. V, 12 marzo 2008, n. 21787, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, pp. 324 ss.
[9] G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale e della struttura produttiva italiana: prospettive e ripercussioni della Legge 23 luglio 2009, Cedam, Padova, 2009, pp. 94 ss.; Id., Falsità in marchi e brevetti (473/474quater), in G. Cocco – E. M. Ambrosetti (a cura di), Trattato breve di diritto penale. Parte speciale, Vol. II, I reati contro i beni economici, Cedam, Padova, 2015, pp. 417 ss.; A. Sandulli, La tutela penale della proprietà industriale, in Giust. pen., 1936, II, p. 30. Anche in giurisprudenza si è sostenuto che la fattispecie di cui all’art. 474 c.p. «non mira a tutelare il consumatore dalle piccole o grandi frodi di chi pone in vendita merce, ma è posta a tutela dei marchi e segni distintivi, costituendo una protezione per i titolari degli stessi» (Cass. pen., Sez. V, 25 settembre 2000, n. 11071., in Riv. pen., 2001, p. 273 ss.; Cass. pen., Sez. II, 12 aprile 2005, n. 17113, in Riv. pen., 2006, p. 701).
[10] G. Marinucci, Falsità in segni distintivi delle opere dell’ingegno (voce), cit., p. 657.
[11] I. Giacona, Punibilità della vendita di merci grossolanamente contraffatte, cit., p. 327
[12] G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, cit., pp. 66 ss.
[13] Osserva tale dottrina che nessuna norma del codice della proprietà industriale assicura al marchio la funzione distintiva intesa come riconducibilità a un centro di ideazione del prodotto e individuazione di standard qualitativi. In tal senso è emblematica la circostanza che l’art. 23 c.p.i., nei suoi primi due commi, consentendo il frazionamento del marchio, permette la compresenza nel mercato di infiniti centri ideativi e produttivi autonomi, svuotando di ogni senso l’istanza di riconducibilità del prodotto. Per una migliore ricostruzione della dottrina civilistica, v. G. Cocco, Sub art. 473 c.p., cit., p. 2290; G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale, pp. 95 ss.
[14] Il riferimento va inevitabilmente al D.Lgs. n. 30/2005 (il c.d. Codice della proprietà industriale), ma ancor prima alle riforme apportate dal D.Lgs. n. 480/1992.
[15] G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale, cit., pp. 98 ss.; Id., Falsità in marchi e brevetti, cit., p. 417.
[16] Si sostiene che nei reati contro la pubblica fede si riscontrerebbero «due offese: una comune a tutti i delitti della categoria, l’altra che varia da delitto a delitto. La prima concerne la pubblica fede; la seconda l’interesse specifico che è salvaguardato dall’integrità dei mezzi probatori». In tal senso: F. Antolisei, Sull’essenza dei delitti contro la fede pubblica, in Riv. it. dir. pen., 1951, p. 634; Sostengono la tesi della plurioffensività anche: G. Azzali, La tutela penale del marchio di impresa, Giuffrè, Milano, 1955, p. 61; F. Bricola, Il problema del falso consentito, in Arch. pen., 1959, p. 281; G.L. Gatta, La disciplina della contraffazione del marchio di impresa nel codice penale (artt. 473 e 474): tutela del consumatore e/o produttore, in Dir. pen. cont., 01.10.2012, pp. 1 ss.; E. Palombi, La tutela dell’avviamento dell’impresa, in E. Palombi – G. Pica (a cura di), Diritto penale dell’economia e dell’impresa, vol. I, Utet, Torino, 1996, p. 78; A. Rossi Vannini, La tutela penale dei segni distintivi, in A. Di Amato (a cura di), Trattato di diritto penale dell’impresa, IV, Cedam, Padova, 1993, pp. 136 – 139; Anche in giurisprudenza sono state avanzate ricostruzioni in chiave plurioffensiva, in tale senso: Cass. pen., Sez. V, 18 novembre 1999, n. 5523, in Riv. pen., 2000, p. 224; Cass. Pen., Sez. II, 11 ottobre 2005, n. 44297, in CED Cass. pen. 2005; Cass. pen., Sez. II, 20.11.2009, n. 4217, in Cass. pen., 2011, p. 643.
[17] C. Fiore, Il falso autorizzato non punibile, in Arch. pen., 1960, p. 319; I. Giacona, Introduzione ai reati contro la fede pubblica, in A. Cadoppi – S. Canestrari – A. Manna – M. Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale. Vol.V: I delitti contro la fede pubblica, cit., p. 4; Id., Punibilità della vendita di merci grossolanamente contraffatte, cit., p. 327; Id., La problematica dell’offesa nei delitti di falso documentale, Giappichelli, Torino, 2007, p. 9.
[18] L. Camaldo, Una recente pronuncia della Cassazione sul “falso grossolano ” nella contraffazione di marchi: un orientamento criticabile, in Riv. dir. ind., 2000, p. 215; G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale, pp. 81 ss.; G. Cocco, Sub art. 473 c.p., cit., p. 2288. Si oppone specificatamente a tale punto I. Giacona, Punibilità della vendita di merci grossolanamente contraffatte, cit., p. 328, che afferma come «in realtà, ai fini della sussistenza del falso grossolano basta che la condotta risulti inoffensiva rispetto a uno soltanto dei due beni. Infatti, come si è già detto, la tesi della plurioffensività implica una restrizione della punibilità, richiedendosi l’offesa di più beni, e non di uno solo di essi».
[19] R. Bricchetti – L. Pistorelli, Sanzionato anche il difetto di vigilanza, in Guida dir., 2009, p. 27; E. Infante, La falsificazione e l’uso dei segni falsi, p. 236.
[20] Ibidem.
[21] G. Cocco, Sub art. 473 c.p., cit., p. 2290; G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale, cit., pp. 104 ss.; Id., Falsità in marchi e brevetti, cit., pp. 417 ss.
[22] Si sottolinea che, così facendo, la grossolanità del falso passa dall’essere un possibile fattore di esclusione della responsabilità del soggetto agente ex art. 474 c.p., a divenire fattore di estensione dell’illecito – seppur a titolo di responsabilità amministrativa – anche verso il consumatore. Infatti, la punibilità di quest’ultimo passa proprio dalla conoscibilità della contraffazione. In tal senso: G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale, cit., p. 60 ss.
[23] G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale, cit., pp. 40 ss.; Id., Falsità in marchi e brevetti, cit., p. 423.
[24] Per una puntuale ricostruzione del dibattito sul tema del falso inoffensivo si rimanda a I. Giacona, La problematica dell’offesa nei delitti di falso documentale, cit., pp. 37 ss.
[25] F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., p. 51; I. Giacona, Punibilità della vendita di merci grossolanamente contraffatte, cit., pp. 324-325; Id., La problematica dell’offesa nei delitti di falso documentale, cit., pp. 7 ss.
[26] I. Giacona, Punibilità della vendita di merci grossolanamente contraffatte, cit., pp. 329-330.
[27] Trib. Bolzano, 2 agosto 2005, in Riv. dir. ind., 2006, pp. 10 ss.; Trib. Bologna, 13 marzo 2012, in Dir. pen. econ. imp., con nota di V. Valentini.
[28] Cass. pen., Sez. V, 17.06.1999, n. 2119, in Cass. pen., 2000, p. 1962 s.; Cass. pen., Sez. II, 15.11.2005., n.45545 in CED Cass. pen. 2005; Cass. pen., Sez. II, 03.04.2008, n. 16281, in Cass. pen. 2009, p. 3868.
[29] F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., p. 50.; I. Giacona, Introduzione ai reati contro la fede pubblica, cit., p. 18.
[30] Sulla concezione realistica del reato, si rinvia a: M. Romano, Commentario sistematico del codice penale. Vol. I. art. 1-84, 3 ed., Giuffrè, Milano, 2004, pp. 513 ss.
[31] Cass. pen., Sez. V, 17.06.1999, n. 2119, in Cass. pen., 2000, p. 1962 ss.
[32] V., ex multis, A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., pp. 446-447; F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., p. 50.
[33] In giurisprudenza, ex multis, Cass. Pen., Sez. V, 14.02.2008, n. 11240 in Cass. pen., 2009, p. 1547; Cass. pen., Sez. V, 12. 03. 2008, n. 21787, in Dir. gius. online, 2008; Cass. pen., Sez. V, 17.04.2008, n. 33324, in Cass. pen. 2009, p. 4730.
[34] F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., p. 53.
[35] D. Sangiorgio, Contraffazione di marchi e tutela penale della proprietà industriale e intellettuale, Cedam, Padova, 2006, pp. 34 ss.
[36] A. Alessandri, Tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., pp. 444-445; F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., p. 53.
[37] A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 456; F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., p. 73; G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, cit., p. 82; A. Rossi Vannini, La tutela penale dei segni distintivi, cit., p. 115.
[38] F. Cingari, La tutela penale dei marchi, cit., pp. 54-55.
[39] Cfr. F. Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, II ed., Giuffrè, Milano, 1994, p. 223 ss.; A. Gargani, Il danno qualificato dal pericolo. Profili sistematici e politico-criminali dei delitti contro l’incolumità pubblica, Giappichelli, Torino, 2005, p. 181 ss.; T. Padovani, Diritto penale, XII ed., Giuffrè, Milano, 2019, p. 172 ss.; A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, 9 ed., Giuffrè, Milano, 2020, p. 270 ss; M. Parodi Giusino, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Giuffrè, Milano, 1990, p. 399 ss.; D. Pulitanò, Offensività del reato (principio di) (voce), in Enc. dir., Annali VIII, giuffrè, Milano, 2015, p. 676 ss.
[40] M. Alesci, La Cassazione di fronte ai fatti di «contraffazione palese» di prodotti industriali, in Arch. Pen., n. 2, 2022, p. 26 ss.
[41] In tal senso, cfr. Cass. pen., Sez. V, 07.10.1992, in Cass. pen., 1994, p. 305; Cass. pen., Sez. V, 9.3.1999, n. 4254, in Cass. pen., 2000, p. 1630.
[42] Cass., Sez. un., 09.01.2001, n. 23427, in Cass. pen., 2001, p. 3019; Cass. pen., Sez. II, 04.03.2008, n. 12452, in CED Cass., n. 239745; Cass. pen., Sez. II, 20.03.2019, n. 21469, in Cass. pen., 2020, p. 2423; Cass. pen., Sez. II, 14.07.2020, n. 23687 in Riv. dir. ind., 2020, p. 410.
[43] A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 459; F. Cingari, Marchi, brevetti e segni distintivi (voce), cit., p. 699.
[44] Cass. pen., Sez. V, 03.03.1998, n. 1315, in Cass. pen., 1999, p. 1129.
[45] A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 459; F. Cingari, Marchi, brevetti e segni distintivi (voce), cit., p. 699, G. Pecorella, Ricettazione (voce), in Noviss. dig. it., vol. XV, Utet, Torino, 1968, p. 943.
[46] A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 459; F. Cingari, Marchi, brevetti e segni distintivi (voce), cit., p. 699; M. Papa, La vendita di prodotti con marchi contraffatti: spunti sui rapporti tra ricettazione e norme disciplinanti la circolazione di cose illecite, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1985, p. 759.
[47] A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 459.
[48] A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 459; F. Cingari, Marchi, brevetti e segni distintivi (voce), cit., p. 699; M. Papa, La vendita di prodotti con marchi contraffatti, cit., p. 754.
[49] Cass. pen., sez. V, 03/03/1998, n. 1315, in Cass. pen., 1999, p. 1129, dove si osserva che «requisito essenziale della fattispecie prevista dall’art. 648 c.p. è che la cosa (ricevuta o acquistata) provenga da un delitto, sia cioè “provento” di reato, acquisita per mezzo di un reato; mentre le opere abusive o con marchi contraffatti, in quanto risultato di lavorazioni o manipolazioni di cose materiali, sono creazioni o produzioni illecite e quindi “prodotto” e non “provento” di reato, onde nel caso di detenzione per la vendita di opere abusivamente duplicate o di prodotti con marchi contraffatti, non sussiste il delitto di ricettazione con riguardo al momento della ricezione o acquisto di tali opere o prodotti, che resta penalmente irrilevante se effettuato senza fini di commercio e diffusione».
[50] Cass., Sez. un., 09.01.2001, n. 23427, in Cass. pen., 2001, p. 3019.
[51] Ibidem.
[52] A. Rossi Vannini, La tutela penale dei segni distintivi, cit., p. 226; Cass., Sez. un., 09.01.2001, n. 23427, in Cass. pen., 2001, p. 3019; negano, invece, la sussistenza di un rapporto di immedesimazione tra marchio e prodotto: A. Alessandri, La tutela penale dei segni distintivi (voce), cit., p. 459; F. Cingari, Marchi, brevetti e segni distintivi (voce), cit., p. 699; M. Zanchetti, Ricettazione (voce), in Dig. disc. pen., vol. XII, 1997, p. 181.
[53] Cass., Sez. un., 09.01.2001, n. 23427, in Cass. pen., 2001, p. 3019.
[54] Si ricorda che il rapporto di specialità sussiste quando, ai sensi dell’art. 15 c.p., due norme regolano la stessa materia, dove per specialità deve intendersi quel rapporto logico-astratto tra norme, per cui la fattispecie speciale contiene tutti gli elementi di quella generale, più alcuni elementi suoi propri. Bisogna, quindi, effettuare un raffronto logico-strutturale tra le fattispecie in questione e, visto che tale specie di concorso presuppone l’univocità dell’azione, occorre partire dalle condotte ivi descritte. Il riscontro di una eterogeneità, infatti, consentirebbe di escludere immediatamente la possibilità di un rapporto di specialità. In tal senso: G. De Francesco, Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, Giuffrè, Milano, 1980, p. 68; M. Papa, La vendita di prodotti con marchi contraffatti, cit., p. 734.
[55] Cass., Sez. un., 09.01.2001, n. 23427, in Cass. pen., 2001, p. 3019; M. Papa, La vendita di prodotti con marchi contraffatti, cit., p. 734 – 736; A. Rossi Vannini, La tutela penale dei segni distintivi, cit., p. 227.
[56] Il criterio di consunzione si fonda su un giudizio di valore, in base al quale se più fattispecie si riferiscono a un quadro di vita unitario, si dovrebbe applicare solamente quella che esaurisce in sé l’intero disvalore del fatto. Un criterio, quindi, che presuppone l’unitarietà normativo-sociale del fatto.
[57] Per una ricostruzione v. L. Bin, sub art. 15, in T. Padovani (a cura di), Codice penale commentato. Tomo I (Artt. 1-360), Giuffrè, Milano, 2019, p. 143 ss.
[58] Per una riproposizione del criterio della consunzione vedasi da ultimo: I. Giacona, Concorso apparente di reati e istanze di ne bis in idem sostanziale, Giappichelli, Torino, 2022, p. 125 ss; M. Scoletta, Idem crimen. Dal “fatto” al “tipo” nel concorso apparente di norme penali, Giappichelli, Torino, 2023, p. 454 ss.