Prospettive future: verso una riforma (im)possibile del diritto penale della crisi d’impresa?
1.- Ricordo di Elio Carletti.
Anch’io, come tutti quelli che sono intervenuti, ho sempre scolpito nella memoria il ricordo indelebile della simpatia e umanità di Elio Carletti, sempre avvolta nel fumo azzurro dell’immancabile Gauloise. Come per tanti amici e colleghi bolognesi della mia generazione, anche per me il primo contatto con Elio risale a quando ero studente e lui giovane assistente della prima ora di Bricola. Tanti hanno ricordato le sue grandi qualità didattiche, manifestate soprattutto in tanti anni di insegnamento del diritto penale commerciale. A me invece toccò assistere a lezioni di Elio nel corso di diritto penale, a.a. 1980/81. Il corso naturalmente lo teneva il nostro comune Maestro, al quale la nostra Associazione è intitolata. Ma in un paio di occasioni nelle quali Bricola non riuscì a venire a lezione, il suo sostituto designato era Elio Carletti. E chi sa quanto Bricola tenesse alla didattica e al rapporto con gli studenti, può ben immaginare quanta stima e fiducia Bricola riponesse nelle qualità didattiche di Elio. Fiducia assolutamente ben riposta, e ricordo ancora la sua empatia e capacità di mantenere sempre viva l’attenzione di noi studenti.
2.- Introduzione: una disciplina antica e non (più) riformabile?
Si sono già ricordate all’inizio di questa giornata le remote origini storiche (ultrasecolari) del diritto penale fallimentare: sicuramente la componente di gran lunga più antica del diritto penale dell’economia, e non si può certo dire che non dimostri tutta la sua età! Il diritto penale fallimentare ci appare ormai come un anziano pieno di rughe e di acciacchi.
Alberto Alessandri ricordava stamattina i difetti cronici di questa disciplina (carenza di tipicità della bancarotta, problematica ricerca dell’offensività, rarefazione della colpevolezza) e richiamava le critiche di Carrara. Ma a testimonianza del fatto che non si tratta solo di un problema italiano, possiamo anche ricordare le altrettanto classiche osservazioni critiche di Binding, che nel 1902 scriveva:
“La storia del delitto di bancarotta si dipana come una costante lotta della legislazione con una materia, della quale – nonostante la grande quantità e varietà dei tentativi – non si è mai riusciti a superare la fragilità. La ragione principale di tale incapacità si deve rinvenire nella sovrapposizione fra insolvenza e fallimento e nella carenza di originalità e abilità nella necessaria generalizzazione della fattispecie”[1].
Ma rimaniamo per ora sul diritto penale fallimentare di casa nostra. Gli art. 216 ss. l.fall. (domani art. 322 ss. del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – CCI) rappresentano una componente “arcaica” del diritto penale dell’impresa, figlia dell’autoritarismo punitivo e statalista dell’epoca in cui veniva emanata la legge fallimentare del ’42 (una legge di guerra, come ricordava opportunamente il consigliere Pistorelli): una disciplina penale stridente – come si è oggi da più parti evidenziato – con la logica e la filosofia che anima il nuovo codice della crisi d’impresa.
Ma il legislatore ha scelto di non avventurarsi in una riforma del nucleo duro della vecchia disciplina penale fallimentare e dobbiamo dunque prendere atto che una simile riforma non è nell’agenda del legislatore di oggi e forse anche del prossimo futuro. Una riforma impossibile, dunque? Quantomeno una riforma non attuale, e che lascia spazio all’elaborazione interpretativa di dottrina e giurisprudenza, nella ricerca di nuovi equilibri fra la vecchia disciplina della bancarotta e la nuova disciplina extrapenale.
Francesco Mucciarelli ha giustamente sottolineato che la formulazione letterale delle fattispecie di bancarotta è rimasta identica, ma che il contenuto normativo non può più essere lo stesso, immerso come è oggi in un contesto extrapenale profondamente mutato. Verrebbe da suggerire una analogia con quanto avvenuto in materia di falso in bilancio, e mi riferisco alla sorte vissuta dal vecchio art. 2621 c.c. nell’ultimo quarto del XX secolo, quando assistemmo ad una progressiva trasformazione della sottostante disciplina societaria e al parallelo mutamento interno del contenuto normativo di una fattispecie incriminatrice rimasta formalmente e letteralmente immutata fino alla riforma del 2002. Assisteremo forse nei prossimi anni ad un processo di trasformazione analogo, magari di segno politico-criminale inverso a quello vissuto nel secolo scorso dalle false comunicazioni sociali? Di segno cioè riduttivo anziché espansivo dell’ambito della punibilità? Francamente non lo so e non me la sento di prevederlo, vedremo quale sarà il concreto impatto del nuovo codice sulla giurisprudenza penale dei prossimi anni (stamattina il consigliere Pistorelli, dall’osservatorio privilegiato della Corte di Cassazione, ci ha detto che “vede cose che voi umani non potete nemmeno immaginare” e ha evocato la necessità – che personalmente condivido – di procure specializzate in queste e altre materie del diritto penale dell’economia).
3.- Originalità e anomalia del diritto penale fallimentare (ieri e soprattutto oggi).
Non sappiamo quindi quali saranno gli sviluppi futuri, ma se guardiamo alla situazione attuale, dobbiamo prendere atto di una sempre più profonda originalità (o piuttosto anomalia) del diritto penale della crisi d’impresa rispetto al contesto generale e al processo evolutivo del diritto penale dell’economia.
Originale da sempre, ma oggi più che mai: mi limito a segnalare cinque aspetti di forte originalità e anomalia:
- Siamo di fronte ad un nucleo penale (la bancarotta) rimasto quello di ottant’anni fa, di fronte ad una disciplina penale dell’economia e dell’impresa ormai tutta profondamente rimodellata nel corso degli ultimi trent’anni: dai reati societari (2002) ai reati bancari (1993) agli abusi di mercato (1995-2005), per non parlare dei reati tributari, dei reati ambientali, della disciplina sanzionatoria amministrativa in materia di concorrenza, ecc.; tutto insomma è cambiato, meno la bancarotta.
- Si tratta di un nucleo penale ormai dissonante (o comunque privo di coordinamento) con la sottostante disciplina extrapenale, mentre è caratteristica generale e costante di tutto il diritto penale dell’economia del nostro paese la strettissima connessione genetica (e non solo la contiguità “topografica”) fra la normativa penale e la sottostante disciplina civile o amministrativa; una connessione ispirata a quella logica dei sottosistemi recepita anche dal nuovo principio della riserva di codice, affermato dall’art. 3 bis c.p.;
- Ancora: è un nucleo penale rimasto impermeabile al vento della globalizzazione e dell’europeizzazione – mi riferisco in particolare al processo di armonizzazione delle discipline penali degli Stati membri dell’Unione Europea – che ha invece coinvolto e investito profondamente tutti gli altri settori del diritto penale dell’economia;
- Un nucleo penale, infine rimasto completamente estraneo all’avvento della disciplina della responsabilità degli enti, che ha invece pervaso tutti gli altri ambiti del diritto penale dell’economia.
- Ultimo aspetto di originalità e anomalia, se vogliamo il più paradossale: il moderno diritto penale dell’economia riempie le pagine delle riviste giuridiche, ma non certo le aule dei tribunali; e invece il vecchio, arcaico e superato dai tempi diritto penale fallimentare è quello che anche oggi – come ricordava stamattina Francesco Mucciarelli – domina e affolla la scena giudiziaria, con una varietà di casi che va dal gigantesco al minimo: dalla macro-criminalità d’impresa del crack Parmalat fino alla micro-criminalità diffusa ricordata da Pistorelli, se è vero che la bancarotta media è al di sotto dei 150.000 euro: una soglia che ben giustificherebbe una valutazione “clemenziale” in termini di speciale tenuità del fatto, se non fosse che i limiti edittali della bancarotta fraudolenta sono sideralmente lontani da quelli previsti dall’art. 131 bis c.p. E inoltre la bancarotta funge in molti casi da chiave di volta per l’applicazione di altre discipline settoriali: con la dichiarazione di insolvenza (e da domani con la liquidazione giudiziale) si apre il vaso di Pandora che potrà portare anche all’applicazione della disciplina dei reati societari e di altre fattispecie incriminatrici relative alla pregressa gestione dell’impresa.
4.- Un po’ di comparazione.
Sono tutti aspetti, questi che ho appena segnalato, che marcano una forte originalità e anomalia del diritto penale fallimentare.
E se gettiamo lo sguardo oltre i confini nazionali, se ne ricava una sensazione tutt’altro che rassicurante: o meglio, è impossibile individuare una indicazione univoca, un trend internazionale che possa ispirare il legislatore e l’interprete nazionale.
La panoramica di diritto comparato è quanto mai variegata, nella storia e nell’attualità di questa disciplina, e sono finora mancate adeguate linee guida e prescrizioni di fonte europea, come invece è accaduto in tutti (o quasi) gli altri settori del diritto penale dell’economia e dell’impresa.
In tutta Europa i reati fallimentari rappresentano l’originario nucleo storico del diritto penale dell’economia, ossia il luogo giuridico nel quale per la prima volta si è avvertito il passaggio dalla tutela penale delle posizioni patrimoniali individuali alla tutela istituzionale e categoriale dei rapporti economici, sotto forma di garanzia della funzionalità dell’economia creditizia.
A dispetto della anzianità della materia, le opzioni tecnico-normative e politico-criminali seguite dai legislatori nazionali europei si rivelano a tutt’oggi estremamente eterogenee, in conseguenza della varietà dei rimedi giuridici dell’insolvenza previsti dai diversi ordinamenti.
E’ una varietà che si riflette innanzitutto sul piano dei destinatari delle fattispecie incriminatrici: nei sistemi storicamente ispiratisi al modello francese del codice di commercio napoleonico del 1807, la cerchia dei soggetti attivi dei reati fallimentari è circoscritta alla sola categoria degli imprenditori ed amministratori di società commerciali; nei sistemi di tipo germanico, invece, dove il fallimento viene tradizionalmente concepito come un istituto di portata generale, può essere chiamato a rispondere dei reati concorsuali, in linea di principio, qualsiasi debitore.
Al di là della sfera dei soggetti attivi, il differente assetto dei rapporti esistente, nell’ambito dei diversi ordinamenti nazionali, fra l’intervento penale ed i rimedi privatistici dell’insolvenza, si riflette ampiamente anche sulla struttura delle fattispecie incriminatrici: nella grande maggioranza dei casi la punibilità delle condotte di bancarotta è condizionata oggettivamente dall’esistenza di uno stato di insolvenza del debitore; ma le strade seguite dai vari legislatori nazionali si divaricano nel momento in cui alcuni (come è tradizione, in generale, negli ordinamenti dell’area romanistica) radicano la condizione di punibilità sulla pronuncia formale di un provvedimento di apertura di una procedura consorsuale, di competenza della giurisdizione civile (Francia, Italia, Portogallo, Spagna, Svizzera), mentre altri guardano piuttosto all’esistenza di una situazione sostanziale (l’insolvenza) che può essere anche autonomamente accertata dal giudice penale: è il caso quest’ultimo, in particolare, dell’ordinamento tedesco, che equipara, ai fini della condizione di punibilità, l’apertura formale di un “Insolvenzverfahren” (ovvero il rigetto della relativa domanda per carenza di massa) al fatto dell’avvenuta cessazione dei pagamenti.
Dal punto di vista della tecnica di tipizzazione, infine, la contrapposizione storica fondamentale – ancor oggi ben visibile nel diritto positivo dei diversi paesi – è fra un modello di fattispecie di bancarotta causalmente orientata, costruita su un evento rappresentato dal fallimento o dall’insolvenza del debitore – il cui esempio più significativo era rappresentato dall’art. 260 del codice penale spagnolo del 1995, fino alla recente riforma ispirata al modello tedesco (LO 1/2015) – ed un modello di incriminazione di stampo accentuatamente casistico, tendenzialmente emancipato dal riscontro di un nesso di causalità con il fallimento o l’insolvenza, ed articolato invece sulla descrizione, variamente formulata, di ipotesi di manipolazioni patrimoniali, di alterazioni contabili e documentali e di indebito favoreggiamento di alcuni creditori a discapito di altri (Germania, Francia, Italia, Portogallo, Spagna dopo la riforma del 2015, Austria, Svizzera). Anche qui, tuttavia, si riscontrano molteplici soluzioni intermedie o miste, dove il modello analitico si intreccia con quello sintetico, dando vita a fattispecie nelle quali, da un lato, la previsione di specifiche condotte di bancarotta è arricchita e completata da vere e proprie “clausole generali”; e, dall’altro lato, l’emancipazione dall’accertamento del nesso di causalità fra le condotte tipiche ed il dissesto del debitore è compensata – come nell’esempio tedesco del § 283 StGB – dalla necessaria inclusione di tali condotte in un contesto preliminare di rischio qualificato (la crisi economica).
Sulla base di un panorama comparatistico così variegato ed eterogeneo, ricco di differenze tecniche e politico-criminali storicamente radicate in ciascun ordinamento, e nell’assenza, soprattutto, di una preliminare opera di armonizzazione delle discipline extrapenali di regolamentazione dell’insolvenza, risulta tutt’altro che agevole e scontata l’individuazione delle possibili linee guida di un modello unitario europeo di intervento penale in materia concorsuale, ossia – detto in altri termini – la definizione della ipotetica fisionomia di una sorta di “eurodelitto” di bancarotta.
5.- La bancarotta nei gruppi di società.
Un ultimo breve accenno lo riservo ad un contesto nel quale da sempre – e oggi a maggior ragione – la disciplina penale della bancarotta (ed in particolare della bancarotta per distrazione) si mostra inadeguata, per eccesso e per difetto. Mi riferisco alla problematica dei gruppi di società, alla quale anche Carletti dedicò interessanti riflessioni in un’epoca nella quale non era ancora un tema abitualmente dibattuto fra i penalisti[2].
Negli ultimi 20 anni – dopo la riforma dei reati societari del 2002 e l’introduzione della nuova e tanto attesa (ma in gran parte deludente) fattispecie incriminatrice dell’infedeltà patrimoniale – si è molto discusso, in dottrina e giurisprudenza, in ordine all’applicabilità o meno, in materia fallimentare, della clausola dei “vantaggi compensativi”, introdotta nel nuovo art. 2634 c.c. per calibrare in maniera equilibrata l’applicazione della norma sull’infedeltà patrimoniale nel contesto dei gruppi di società.
Nonostante le forti resistenze giurisprudenziali, sarebbe a mio avviso razionale ed opportuna una estensione espressa ed inequivoca – che spetterebbe al legislatore sancire – della regola dei vantaggi compensativi come criterio orientativo per l’applicazione della fattispecie incriminatrice della bancarotta per distrazione nei confronti delle operazioni infragruppo. E’ vero che – in concreto – ben ristretti saranno i margini di apprezzamento positivo della “fondata prevedibilità” dei vantaggi compensativi nei confronti di una società in crisi o alle soglie della crisi, ma è giusto che le stesse regole di correttezza dell’attività gestoria previste dal legislatore per l’impresa in bonis non vengano contraddette o misconosciute una volta intervenuta l’insolvenza (o liquidazione giudiziale) della società. Una micro-riforma in chiave di interpretazione autentica del rapporto fra infedeltà patrimoniale e bancarotta per distrazione nei gruppi di società sarebbe a mio avviso quanto mai opportuna, così come sarebbe per altro verso opportuna una espressa estensione in materia di crisi d’impresa di un’altra norma formalmente dettata dal legislatore solo per i reati societari, ossia l’art. 2639 c.c., relativo alla “estensione delle qualifiche soggettive”. E’ vero che sulla responsabilità penale per bancarotta dell’amministratore di fatto la giurisprudenza è da sempre granitica, ma anche in questo caso un richiamo espresso all’art. 2639 c.c. all’interno del nuovo art. 329 CCI sarebbe la soluzione più corretta.
Ma in tema di bancarotta per distrazione nei gruppi di società la disciplina attuale pecca anche per difetto: mi riferisco alla mancata previsione di una responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001 per le ipotesi di bancarotta per distrazione derivante da operazioni infragruppo, ogniqualvolta non siano prospettabili vantaggi compensativi e l’operazione infragruppo appaia invece come una consapevole spoliazione di una società del gruppo nell’interesse o a vantaggio di altra società o della capogruppo, posta in essere – come è frequente – da persone fisiche che rivestano una posizione apicale in entrambe le società coinvolte (la pregiudicata e la favorita). A me questa appare come una irrazionale lacuna della disciplina vigente, e del resto è significativo che un legislatore come quello spagnolo – che si è apertamente ispirato al modello italiano della 231 nella conformazione della nuova responsabilità penale delle persone giuridiche – abbia esteso la responsabilità dell’ente anche ai delitti di “insolvencias punibles” (art. 261 bis c.p. sp.). E’ un aspetto sul quale credo che converrebbe riflettere, nel processo di incessante evoluzione della disciplina dei reati presupposto della responsabilità dell’ente, oggi che ci apprestiamo a celebrare il ventennale di una delle riforme che più profondamente hanno segnato l’evoluzione storica del nostro diritto penale dell’economia.
[1] K. Binding, Lehrbuch des Gemeinen Deutschen Strafrechts. Besondere Teil, vol. I, 2a ed., Leipzig, 1902, p. 421 (“Die Geschichte des Bankrottverbrechens verläuft als ein fundamentaler Kampf der Gesetzgebung mit einem Stoffe, dessen Sprödigkeit zu überwinden sie trotz der großen Zahl und der Mannigfaltigkeit ihrer Versuche bis auf dem heutigen Tag nicht vermocht hat. Die Hauptgründe dieses Mißerfolges dürften in der Verquickung von Zahlungsunfähigkeit und Konkurs und in dem Mangel an Kühnheit und Geschick in der nötigen Generalisierung der Tatbestände zu finden sein“).
[2] E. Carletti, Politica di impresa, sicurezza del lavoro e responsabilità penale: l’ipotesi dei gruppi di società, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1985, p. 131 ss.; Id., La responsabilità penale nel gruppo di società: il caso della Icmesa di Seveso, ivi, 1984, p. 3 ss.
Prof. Luigi Foffani
29 aprile 2021
“Il diritto penale che fu fallimentare”.
Brevi spunti sui profili penali del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Ricordando Elio Carletti