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La sicurezza del lavoro nelle piccole e medie imprese: profili di responsabilità penale

La sicurezza del lavoro nelle piccole e medie imprese: profili di responsabilità penale[1]

Sommario: 1. Premessa. – 2. I dati più significativi della ricerca empirica, dal punto di vista della responsabilità penale dei garanti della sicurezza sui luoghi di lavoro. – 2.1. Caratteri dimensionali delle imprese coinvolte nella ricerca (e disciplina giuridica pertinente). – 2.2. I dati raccolti e le criticità riguardanti la sicurezza sul lavoro. – 3. Responsabilità penali in tema di sicurezza del lavoro: assetto sistematico della tutela. – 3. Le fattispecie contravvenzionali (e gli illeciti amministrativi). – 3.1. Le fattispecie contravvenzionali (e gli illeciti amministrativi). – 3.2. I delitti di comune pericolo. – 3.3. I delitti colposi di omicidio e lesioni. – 3.4. La logica prevenzionistica e la necessaria anticipazione della tutela. – 4. Soggetti garanti della sicurezza e obblighi penalmente sanzionati. – 4.1. La prevalenza di “reati propri”. – 4.2. Garanti di diritto, di fatto, a titolo originario e a seguito di delega. – 4.3. Il garante come gestore del rischio. – 5. Ricadute sul terreno dei delitti colposi, in caso di violazione degli obblighi e di verificazione di un evento lesivo. – 5.1. Prevalenza di fattispecie colpose. – 5.2. Le diverse tipologie di inosservanza e la colpa specifica. – 5.3. Colpa per inosservanza e criticità emerse alla luce delle interviste. – 5.4. Considerazioni riguardanti le misure anti-coronavirus. – 5.5. Colpa del datore in ipotesi di comportamenti scorretti del lavoratore. – 5.6. La difficile ricostruzione della colpevolezza colposa. – 6. Conclusioni.

  1. Premessa

Il contributo consiste in un esame dei profili di responsabilità penale riconducibili ai rischi per la sicurezza sul lavoro riscontrabili, in particolare, nel contesto delle piccole e medie imprese. Il discorso sarà sviluppato anche alla luce delle indagini empiriche svolte, mediante questionari, nell’ambito del progetto di ricerca Rischio, governance e responsabilità nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura nell’area veneta, condotto presso l’Università di Verona dall’équipe diretta dal professor Lorenzo Picotti.

Dopo aver passato in rassegna i dati che appaiono più significativi tra quelli complessivamente estrapolabili dalle suddette indagini empiriche (§ 2), si procederà dapprima a una sintetica ricostruzione dell’assetto generale della tutela punitiva apprestata dall’ordinamento in tema di sicurezza del lavoro (§ 3). Successivamente, ci si soffermerà sulle figure dei soggetti garanti e sui rispettivi obblighi (originari o delegati) di sicurezza, con l’intento di isolare gli obblighi che risultano – soprattutto nella percezione dei lavoratori registrata mediante i questionari somministrati – come forieri di maggiori preoccupazioni o come bisognosi di miglioramento in fase di adempimento: in particolare, quelli riguardanti in generale profili di risk assessment e di risk communication (§ 4). Si evidenzieranno, infine, prima di formulare brevissime osservazioni conclusive (§ 6), le ricadute sul terreno della colpa in ipotesi di verificazione di un evento lesivo a seguito della violazione, in particolare, proprio degli obblighi di valutazione del rischio o di quelli di informazione, formazione e addestramento (§ 5).

  1. I dati più significativi della ricerca empirica, dal punto di vista della responsabilità penale dei garanti della sicurezza sui luoghi di lavoro

 2.1. Caratteri dimensionali delle imprese coinvolte nella ricerca (e disciplina giuridica pertinente)

Come anticipato, un momento significativo del progetto di ricerca diretto dal professor Picotti è rappresentato dalle indagini empirico-criminologiche, condotte mediante la somministrazione di questionari rivolti a imprese venete e poi riversate in quattro rapporti, distinti sia in base all’oggetto dei questionari analizzati (da un lato la valutazione dei rischi nell’attività d’impresa, dall’altro le misure adottate per fronteggiare l’emergenza Covid-19) sia per i soggetti ai quali erano rivolti (per un verso i datori di lavoro, per l’altro i lavoratori e i delegati sindacali)[2].

Tra i dati più significativi estrapolabili dall’indagine empirica si segnalano, a giudizio di chi scrive e con specifico riferimento alla responsabilità penale dei garanti per la sicurezza sul lavoro, i seguenti, qui riportati in forma sintetica[3].

Anzitutto, le imprese dell’area veneta che hanno positivamente partecipato alla rilevazione sulla valutazione dei rischi trovano quasi tutte collocazione territoriale nel veronese e sono, nella stragrande maggioranza dei casi, piccole e medie imprese (PMI) esercitate in forma societaria (circa l’80%). Si tratta, prevalentemente, di piccole o piccolissime società a responsabilità limitata con un numero non elevato di dipendenti: 19 imprese su 29, nelle risposte dei datori, e 16 imprese su 18, nelle risposte di lavoratori e delegati sindacali, impiegano meno di 50 dipendenti. Quanto al settore di attività, le risposte ottenute al questionario sulla valutazione dei rischi riguardano in 14 casi su 29 datori di lavoro del settore manifatturiero (48,28%) e in 14 casi su 18 lavoratori e delegati sindacali del settore delle costruzioni (77,78%). I dati si riferiscono, pertanto, a compagini aziendali che, in ragione delle dimensioni esigue e del grado verosimilmente poco elevato di complessità strutturale, presentano caratteri abbastanza omogenei e al contempo peculiari in termini di organizzazione della sicurezza.

Come noto, tali caratteristiche dimensionali rilevano altresì sul piano della disciplina giuridica, anche con specifico riferimento a obblighi sanzionati penalmente.

Così, per esempio, di regola «i datori di lavoro che occupano fino a 50 lavoratori possono effettuare la valutazione dei rischi sulla base di procedure standardizzate»[4], salvo che per le aziende dove si svolgano attività ritenute dalla legge più rischiose[5].

Inoltre, sempre salvo eccezioni riguardanti attività ritenute più pericolose (elencate al comma 6 dell’art. 34 del d.lg. 81/2008), nelle aziende artigiane, industriali, agricole e zootecniche fino a 30 lavoratori, in quelle della pesca fino a 20 lavoratori e in tutte le altre fino a 200 lavoratori, «il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione […], dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza», e a condizione che segua i corsi di formazione e di aggiornamento richiamati dallo stesso art. 34.

Ancora: per le aziende e unità produttive che occupino fino a 15 lavoratori viene meno l’obbligo per il datore di lavoro di convocare almeno una volta l’anno la «riunione periodica» sulla sicurezza: ovverosia, sulla valutazione dei rischi, sull’andamento degli infortuni, delle malattie professionali e della sorveglianza sanitaria, sui dispositivi di protezione individuale, nonché sui programmi di formazione e informazione ai fini della sicurezza[6].

Altre forme di semplificazione e sostegno alla media e piccola impresa contenute nel t.u.s.l. sono, per esempio, le seguenti: pur nel rispetto dei livelli generali di tutela, sono definite con decreto ministeriale «misure di semplificazione degli adempimenti relativi all’informazione, formazione, valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria per le imprese agricole, con particolare riferimento a lavoratori a tempo determinato e stagionali, e per le imprese di piccole dimensioni»[7]; sono poi previste forme di promozione mediante finanziamento, da parte dell’INAIL, di progetti di investimento e progetti formativi in materia di salute e sicurezza specificamente dedicati alle piccole, medie e micro imprese[8]; è inoltre costituito presso lo stesso INAIL un fondo per il sostegno alla piccola e media impresa e ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza “territoriali”[9]; è prevista, infine, un’attività di consulenza alle aziende, e in particolare per le medie, piccole e micro imprese, da parte dell’IPSEL, dell’INAIL e dell’IPSEMA[10].

2.2. I dati raccolti e le criticità riguardanti la sicurezza sul lavoro

Il questionario somministrato ai datori di lavoro sui rischi nell’esercizio dell’attività d’impresa comprendeva anche una sezione dedicata alla percezione del “rischio criminalità”, nell’ambito della quale è stata indagata la probabilità di accadimento di una serie di reati in area veneta. Dal rapporto si evince che il 65% dei datori giudica nulla o bassa la probabilità che si verifichino delitti colposi di omicidio o lesioni in conseguenza di violazioni antinfortunistiche; solo il 5% giudica abbastanza probabile o probabile il verificarsi di tale tipologia criminosa. Si tratta, in definitiva, dei reati ritenuti meno probabili tra quelli oggetto della rilevazione, mentre i reati contro il patrimonio figurano tra quelli ritenuti più probabili[11].

Con specifico riferimento alla sicurezza del lavoro, i datori intervistati ritengono che gli eventi dannosi a più elevata probabilità di accadimento in area veneta, con riferimento in generale al settore produttivo in cui opera l’azienda, siano quelli relativi ai rischi derivanti da attrezzature di lavoro e a stress lavoro correlato (probabilità abbastanza elevata per il 31,6% degli interpellati), ad agenti biologici, chimici, cancerogeni o a sostanze pericolose (probabilità abbastanza elevata per il 26,4%), alla movimentazione dei carichi e, infine, ai luoghi o ambienti di lavoro (probabilità elevata o abbastanza elevata per il 26,3%). Con specifico riferimento alla probabilità di verificazione di eventi lesivi nella propria azienda, i datori di lavoro reputano a più elevata probabilità gli infortuni derivanti dalla movimentazione dei carichi, dall’utilizzo di videoterminali, dalla circolazione stradale (probabilità elevata o abbastanza elevata per il 22,2%), da attrezzature di lavoro e mezzi di trasporto (probabilità elevata o abbastanza elevata per il 16,7%).

Un dettaglio comparativo tra queste due rilevazioni (probabilità di infortuni nel settore produttivo vs nella propria azienda) che pare meritevole di segnalazione è il seguente: la probabilità percepita dai datori di lavoro circa la possibilità di verificazione di eventi dannosi legati a determinati rischi lavorativi diviene significativamente più esigua in relazione alla propria azienda rispetto a quanto invece ritenuto in relazione al settore di attività. Tale più ottimistica percezione riferita alla propria azienda potrebbe forse leggersi quale portato di una sorta di atteggiamento di rimozione del rischio, con riferimento a un pericolo di per sé oggetto di rappresentazione (astratta), all’insegna dell’adagio “a me non può accadere” (in concreto). Si tratta, come noto, di un elemento consueto nella dinamica psicologica dei reati colposi, in particolare nelle ipotesi di colpa cosciente o di colpa con previsione dell’evento, nelle quali pur nella consapevolezza del rischio che si fa correre al bene giuridico e della violazione della regola cautelare pertinente, nonché, tante volte, pur in presenza della stessa previsione dell’evento, la volontà non copre mai il risultato dannoso – neppure in quelle modalità oblique e indirette che si ritengono proprie del dolo eventuale – ma soltanto e tutt’al più la condotta inosservante.

Si può registrare come un dato positivo che, nelle risposte dei datori, quasi tutte le aziende (17 su 18, corrispondenti al 94,4%) hanno attuato misure di prevenzione con riguardo ai rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il 72,2% delle aziende (13 su 18) ha attuato anche misure di mitigazione dell’impatto degli eventi dannosi. Con riferimento agli eventi infortunistici ritenuti più probabili, gli stessi datori reputano di efficacia medio-alta le misure di prevenzione degli eventi dannosi attuate. Così come ritengono medio-alta l’efficacia delle misure di mitigazione dell’impatto sui lavoratori dell’azienda dei danni a più elevato impatto. Come si vedrà oltre, questa autovalutazione positiva da parte delle figure datoriali circa l’adozione e l’efficacia delle misure non trova riscontro nelle risposte fornite dai lavoratori e delegati sindacali.

Quanto alle difficoltà di implementazione delle azioni riguardanti la salute e sicurezza sul lavoro, la metà dei datori include, sorprendentemente, quella di munire i lavoratori di tessera di riconoscimento, obbligatoria nei lavori di appalto o subappalto (difficile o abbastanza difficile per il 50% degli interpellati)[12]: difficoltà probabilmente di tipo organizzativo che forse si spiega con le piccole dimensioni della stragrande maggioranza delle aziende in questione. Tra gli obblighi di rilievo penale rispetto ai quali i datori registrano difficoltà di implementazione si rinvengono: per un terzo delle risposte, aggiornare le misure di prevenzione alla luce dei mutamenti organizzativi e produttivi o all’evoluzione della tecnica della prevenzione e protezione (difficile o abbastanza difficile per il 33,3% degli intervistati)[13]; per oltre un quarto, fornire una adeguata e specifica informazione ai lavoratori incaricati della prevenzione incendi, dell’evacuazione, del salvataggio e del primo soccorso (abbastanza difficile per il 27,8%)[14]; fornire adeguata informazione sui rischi specifici e sulle misure di prevenzione adottate (difficile o abbastanza difficile per il 22%)[15]; assicurare il rispetto da parte dei lavoratori delle norme vigenti e delle disposizioni aziendali di sicurezza e igiene (abbastanza difficile per il 22%)[16]. Difficoltà sono state segnalate da una parte dei datori nel far comprendere i contenuti informativi e formativi ai lavoratori immigrati[17].

Con riferimento alla rilevazione proposta a lavoratori e delegati sindacali, il rapporto a ciò dedicato[18] restituisce che gli eventi dannosi reputati a più elevata probabilità di accadimento nella propria azienda sono lo stress lavoro correlato (60% degli intervistati) e quelli connessi a movimenti ripetuti degli arti superiori e ai rischi da rumore (46,7% degli intervistati).

Soltanto meno della metà dei lavoratori e delegati sindacali intervistati (46,67%, ovvero 7 su 15) ritiene che in azienda siano state adottate misure di prevenzione e misure di mitigazione dell’impatto degli eventi dannosi per la salute e la sicurezza sul lavoro considerati nel questionario. È significativo rilevare che, per un verso, in circa la metà delle aziende i beneficiari della tutela ritengano che non siano state adottate misure di prevenzione; e che, d’altra parte, nei sette casi in cui è stata data risposta positiva, tanto le misure di prevenzione quanto quelle dirette a mitigare l’impatto degli eventi dannosi connessi ai rischi lavorativi siano valutate come aventi «efficacia nulla o bassa» in un novero significativo di casi[19].

Tra le principali misure di prevenzione o protezione da migliorare o da adottare nella propria azienda secondo i delegati sindacali/lavoratori, si segnala su tutte la valutazione dei rischi (secondo gli auspici di circa la metà degli interpellati), alla quale si aggiungono la formazione specifica dei lavoratori delle squadre di emergenza (indicata da oltre un quarto di essi) e la formazione e informazione dei lavoratori tout court (per un quinto degli intervistati). Non si può fare qui a meno di rimarcare, riservandosi di recuperare tali esiti nel prosieguo, come per la componente più direttamente interessata dalle misure di prevenzione e protezione le misure mancanti o bisognevoli di miglioramenti riguardano proprio l’obbligo datoriale fondamentale della valutazione dei rischi (risk assessment) e quelli, condivisi con le figure dirigenziali, attinenti alla formazione e informazione dei lavoratori (risk communication). Le implicazioni in termini di responsabilità penale connesse a tali obblighi saranno riprese nel seguito di questo contributo, sia con riferimento alle contravvenzioni di mera condotta (art. 55 d.lg. 81/2008) sia con riferimento alla verificazione di eventi mortali o infortunistici (artt. 589 e 590 c.p.) causalmente riconducibili a violazioni delle prescrizioni in tema di valutazione (e gestione) del rischio o di formazione e informazione sui rischi lavorativi[20].

Infine, con specifico riferimento ai questionari sulle misure relative all’emergenza pandemica da Covid-19, risulta che la quasi totalità delle imprese interpellate ha adottato un protocollo anti-contagio: quasi il 90% nelle risposte dei datori; il 96% nelle risposte dei delegati/lavoratori. L’effettiva applicazione è affermata dal 78% dei delegati/lavoratori, i quali nell’89% dei casi dichiarano anche di aver ricevuto apposita informazione/formazione in azienda sulle procedure anti-covid. I lavoratori/delegati intervistati dichiarano che le principali misure adottate sono consistite nella riorganizzazione del lavoro e degli spazi finalizzata a garantire il distanziamento e ridurre il contatto con soggetti esterni (85%), nella fornitura o il collocamento in azienda di gel igienizzanti (92,86%), nonché in interventi di pulizia e sanificazione delle postazioni di lavoro, delle attrezzature e dei locali aziendali (89,29%). Il lavoro agile è stato agevolato secondo il 60% delle risposte, mentre per il 50% sono state adottate tutele specifiche per i lavoratori fragili[21]. Pure i dati sulle misure riferibili al contrasto della diffusione del coronavirus nei luoghi di lavoro saranno brevemente richiamati, in relazione agli obblighi sanzionati penalmente, nel prosieguo del contributo[22].

 

  1. Responsabilità penali in tema di sicurezza del lavoro: assetto sistematico della tutela

La disciplina della sicurezza del lavoro implica il riferimento a modelli normativi orientati alla prevenzione degli eventi lesivi collegati ai fattori di rischio lavorativo. Ogni attività lavorativa, sebbene in misura diversa secondo il tipo e il contesto – anche dimensionale – in cui si svolge, è intrinsecamente pericolosa: nel senso che ha la potenzialità di esporre i lavoratori a un novero variabile di fattori di rischio. L’ordinamento giuridico delimita, mediante norme, aree di rischio lecito o consentito: l’osservanza delle regole orientate al disinnesco di fattori di pericolo (o, più di consueto, alla loro riduzione a livelli socialmente tollerabili e giuridicamente autorizzati) rende lecita una data attività rischiosa anche in presenza di eventi avversi che siano comunque derivati dal suo svolgimento.

Il rispetto della disciplina giuridica in tema di sicurezza del lavoro è “rafforzato” dalla previsione di numerosissime norme sanzionatorie, in prevalenza di natura penale, collocate in un complesso sistema di tutela a struttura piramidale e articolato su più livelli variamente comunicanti.

3.1. Le fattispecie contravvenzionali (e gli illeciti amministrativi)

Il primo livello di tutela trova collocazione interamente fuori dal c.p., in particolare nel d.lg. n. 81/2008, considerabile come il testo unico «in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro» (d’ora innanzi anche t.u.s.l.), dove si rinvengono numerose fattispecie sanzionate come contravvenzioni, affiancate da illeciti amministrativi.

Le disposizioni di natura contravvenzionale o amministrativa del decreto 81 assumono significato sistematico “verticale”, nel senso che – oltre a rappresentare il basamento della piramide di tutela e ad assumere, così, un ruolo fondamentale nelle strategie normative di prevenzione – sono destinate a riempire di contenuto normativo anche gli ulteriori due piani di tutela di cui si dirà, riguardanti ipotesi delittuose contro l’incolumità pubblica e contro la persona.

Il decreto riunisce un abbondante corpus di norme in materia di sicurezza del lavoro, conformato secondo modelli regolativi eterogenei. Per un verso, in accordo con un classico modello di etero-regolazione della sicurezza, la tutela è affidata alla diretta previsione da parte del legislatore di regole a contenuto preventivo-cautelare – finalizzate alla eliminazione o riduzione del rischio – sotto forma di obblighi di sicurezza per le singole figure di garanti: datore, dirigente e preposto, ma anche lavoratori e altri soggetti, quali progettisti, fabbricanti, fornitori o installatori di luoghi di lavoro, impianti, dispositivi o attrezzature, o ancora il medico competente. Così, per esempio, sul versante datoriale e dirigenziale l’obbligo di fornire strumenti di protezione individuale (e, per i lavoratori, di utilizzarli correttamente), di assicurare adeguati programmi di formazione (e di parteciparvi), di munire i macchinari di determinati dispositivi di sicurezza (e il divieto di rimuoverli), ecc. Per altro verso, la tutela si esplica mediante la previsione di un obbligo generale e fondamentale – avente funzione preventiva indiretta – di valutazione dei rischi lavorativi e di conseguente adozione delle pertinenti misure anche procedurali e organizzative, secondo un modello, più innovativo, di parziale auto-regolazione della sicurezza, fondato, più esattamente, sulla valutazione, comunicazione e gestione del rischio. In questo secondo modello di disciplina della sicurezza, la genesi delle regole a finalità preventiva è almeno in parte rimessa a procedure de-istituzionalizzate o privatizzate, come tali affidate alle figure datoriali, ovverosia ai soggetti che, in quanto dotati del correlativo potere decisionale, gestiscono l’attività rischiosa[23].

In questo secondo modello di tutela di matrice comunitaria e risalente alla direttiva-quadro 89/391/CEE – così come attuato nell’ordinamento interno dapprima dal d.lg. 626/1994 e ora dal d.lg. 81/2008 –, gli obblighi fondamentali, esclusivi e indelegabili del datore di lavoro consistono nella valutazione dei rischi, nell’adozione del documento di valutazione dei rischi (DVR) e nella designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP)[24]. Alla valutazione dei rischi nel senso lato (comprensivo anche dell’adozione e della designazione appena evocate) si accompagnano obblighi – delegabili e condivisi dalla figura datoriale e da quelle dirigenziali – di comunicazione del rischio, sotto forma, più esattamente, di obblighi di formazione, di informazione e di addestramento dei lavoratori; nonché obblighi di gestione del rischio mediante predisposizione e adozione di misure organizzative (es. organizzazione del servizio di prevenzione e protezione[25]; nonché assetto delle deleghe per il trasferimento di funzioni[26]), procedurali (es. misure relative alla gestione delle emergenze[27] o alla manutenzione degli impianti di sicurezza[28]), tecniche (es. concernenti l’adozione di dispositivi di sicurezza, segnalazione o controllo ovvero la sistemazione del luogo di lavoro)[29] e operative (es. sul corretto utilizzo delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di sicurezza e di protezione individuali e collettivi)[30].

Per le contravvenzioni del t.u.s.l. sono comminate, generalmente, sanzioni alternative, ossia ammenda o arresto (e più raramente la sola ammenda o il solo arresto). Ne consegue la possibilità di fare ricorso all’istituto estintivo “comune” dell’oblazione discrezionale disciplinato dall’art. 162-bis c.p.; ma, soprattutto, al peculiare e anticipato meccanismo premiale di adeguamento post-fatto basato sulle prescrizioni dell’autorità di vigilanza e con effetto estintivo finale, introdotto dal d.lg. 758/2004 e poi richiamato dall’art. 301 del d.lg. 81/2008[31].

Anche per la violazione dell’obbligo fondamentale di valutazione dei rischi la pena comminata dalla legge è di regola quella alternativa. La sanzione del solo arresto riguarda esclusivamente casi in cui la violazione di quell’obbligo assuma contorni di maggiore gravità. Il riferimento va all’art. 55, comma 2, del d.lg. 81/2008, riguardante ipotesi di violazione degli obblighi “indelegabili” del datore di lavoro, con esclusivo riferimento alla valutazione dei rischi in senso stretto e all’adozione del documento di valutazione (non anche alla designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione), in relazione a peculiari contesti aziendali o con riferimento ad attività con specifici ed elevati profili di rischio lavorativo[32]. Nondimeno, l’art. 302 dello stesso decreto prevede la possibilità, in riferimento a queste limitate ipotesi contravvenzionali connotate da maggiore gravità, di sostituire, a determinate condizioni, la pena detentiva con quella pecuniaria.

 

3.2. I delitti di comune pericolo

Un livello intermedio di tutela è invece collocato all’interno del codice penale, più esattamente tra i delitti contro l’incolumità pubblica, ed è fondato sulle ipotesi dolose e colpose di rimozione od omissione di cautele per la prevenzione di infortuni o disastri sul lavoro (artt. 437 e 451 c.p.). Per la sola ipotesi dolosa, è poi prevista una circostanza aggravante speciale in caso di effettiva verificazione del disastro o infortunio[33].

Tale livello intermedio – a dispetto della sua collocazione codicistica e della rilevanza a titolo delittuoso, espressioni potenziali di maggiore gravità dei fatti – finisce per richiamare implicitamente, per la definizione degli oggetti materiali delle condotte incriminate dagli artt. 437 e 451 (rispettivamente: impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro ovvero altri mezzi destinati al salvataggio o al soccorso contro lo stesso tipo di eventi), le discipline preventive extra codicem apprestate al primo piano di tutela. In particolare, almeno stando al tenore letterale delle fattispecie delittuose in questione, il rinvio normativo riguarda le disposizioni riconducibili alla tutela antinfortunistica in senso stretto. Da qui, il già menzionato valore “verticale” delle norme del primo livello di tutela.

Le fattispecie degli artt. 437 e 451 c.p. si prestano ad essere descritte come componenti di una sorta di «micro-sistema relativamente indipendente», dedicato in maniera precipua alla tutela contro disastri e infortuni sul lavoro, all’interno della più generale disciplina dei delitti contro l’incolumità pubblica contenuta nel titolo VI del c.p.[34].

A ben vedere, agli artt. 437 e 451 c.p., si potrebbe aggiungere, per la sua finalità più generale di prevenire disastri colposi (anche sul luogo di lavoro), il delitto dell’art. 449 c.p., intitolato: delitti colposi di danno, che punisce chiunque cagioni per colpa uno dei disastri preveduti dal capo I (del titolo VI del libro II), dedicato ai delitti (dolosi) di comune pericolo mediante violenza, tra i quali figura anche l’art. 437, il quale, al comma 2, prevede una risposta sanzionatoria aggravata in caso di effettiva verificazione del disastro sul lavoro. L’art. 449 potrebbe allora rappresentare la fattispecie colposa per le ipotesi – non riconducibili all’art. 451, che si riferisce soltanto ai mezzi di prevenzione “secondaria”, ossia a quelli destinati all’estinzione di un incendio o al salvataggio o soccorso contro disastri o infortuni – di rimozione od omissione (colposa) di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri sul lavoro, allorquando un tale evento di disastro si sia effettivamente verificato (con esclusione, quindi, dei casi in cui si verifichi un semplice infortunio – evento non richiamato dall’art. 449 – e delle ipotesi in cui la condotta riguardi dispositivi destinati alla prevenzione di eventi dannosi meno gravi del disastro sul lavoro)[35].

 

3.3. I delitti colposi di omicidio e lesioni

Il terzo ed ultimo livello di tutela, pensato per le ipotesi di effettiva verificazione dell’evento di danno, è affidato ai delitti colposi contro la vita e l’incolumità individuale, in particolare alle fattispecie di omicidio colposo (art. 589) e di lesioni personali colpose (590 c.p.).

In astratto, come noto, potrebbero configurarsi anche fatti di omicidio doloso (art. 575 c.p.) o di lesioni dolose (art. 582 c.p.). La possibilità di una imputazione dolosa per le “morti bianche”, a titolo di dolo eventuale o indiretto, rimasta per lungo tempo soltanto teorica, ha trovato una prima – e assai controversa – concretizzazione nel procedimento penale sulla vicenda del gravissimo incendio alle acciaierie ThyssenKrupp di Torino: la sentenza di primo grado, oltre alla responsabilità colposa di altri imputati, aveva altresì affermato la responsabilità per omicidio doloso plurimo, a titolo di dolo eventuale, per l’amministratore delegato della società [36]; mentre il secondo grado si è concluso con la condanna di tutti gli imputati a titolo di omicidio colposo plurimo, aggravato dalla previsione dell’evento[37]. La questione, in seguito al ricorso per cassazione, è stata rimessa alle Sezioni unite, chiamate a svolgere il compito, da sempre spinosissimo, di tracciare la sottile linea di confine tra il dolo (eventuale) e la colpa (con previsione). Le Sezioni unite, con una importante pronuncia, hanno confermato la soluzione, più tradizionale, adottata dalla sentenza d’appello sul punto della ritenuta sussistenza della colpa[38].

Anche a prescindere dall’esito della tragica vicenda torinese, la colpa, in queste costellazioni di casi, resta il titolo soggettivo d’imputazione assolutamente “normale”, nel senso di consueto – a dispetto della sua “eccezionalità” nel senso della necessaria previsione espressa nei delitti (secondo la regola generale di imputazione soggettiva affermata, nel nostro ordinamento, all’art. 42 c.p.).

La propensione alla “verticalità” sistematica delle norme del primo livello di tutela si rivela anche sul piano che fa da vertice alla struttura piramidale più sopra disegnata: quello sul quale poggiano le fattispecie delittuose di omicidio e lesioni. Nella loro forma colposa, anche queste classiche fattispecie di evento dannoso richiamano, inevitabilmente, il piano delle discipline preventivo-cautelari extra codicem, la cui violazione è destinata a giocare ruoli significativi ed eterogenei anche in relazione ai delitti in esame.

Segnatamente: la violazione delle discipline preventive rileva, mediante un rinvio implicito, con funzione di integrazione della tipicità soggettiva (colposa) di questi delitti di evento dannoso; nonché, mediante un rinvio esplicito, con funzione di selezione di circostanze aggravanti speciali per i medesimi delitti (art. 589, comma 2; art. 590, comma 3) e quale condizione per il mutamento del regime di procedibilità per il delitto di lesioni personali (art. 590, ult. comma, c.p.).

Inoltre, nell’ordinamento attualmente vigente, in presenza del delitto colposo di omicidio o di lesioni gravi o gravissime per inosservanza di norme in materia di sicurezza del lavoro, è prevista – in aggiunta a quella, affatto tradizionale, della persona fisica – anche la responsabilità amministrativa da reato dell’ente collettivo nel cui interesse o a vantaggio del quale sia stata realizzata la condotta inosservante, secondo i criteri previsti dal d.lg. 231/2001[39].

Stante il presupposto necessario, rappresentato dalla violazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro, il primo livello di tutela, dunque, è destinato a giocare un ruolo nella definizione delle responsabilità anche sul versante della responsabilità degli enti collettivi. A dimostrazione ulteriore, quindi, del carattere davvero basilare e verticale delle norme del primo livello, le quali, oltre ad assumere eventuale rilievo penale già di per sé (ai fini delle contravvenzioni del t.u.s.l.), si prestano a giocare ruoli tutt’altro che secondari e diversificati sui piani successivi in cui si articola la tutela: delitti di comune pericolo ex artt. 437, 451 (e 449) c.p.; omicidio colposo e lesioni personali colpose; responsabilità degli enti collettivi ex art. 25-septies d.lg. 231/2001.

3.4. La logica prevenzionistica e la necessaria anticipazione della tutela

Il carattere teleologico del sistema di protezione della sicurezza del lavoro, in coerenza con l’intento di garantire i fondamentali beni che fanno da scopo di tutela (la vita, la salute, l’integrità fisica dei lavoratori), senza aspettare una loro lesione effettiva, si riconosce in una propensione spiccatamente preventiva (rectius: prevenzionistica) dell’apparato normativo in esame. La verificazione di un evento infortunistico o di una malattia professionale, dagli esiti lesivi o mortali, rappresenta, in un certo senso, il fallimento delle politiche e delle discipline orientate alla sicurezza.

Questa propensione prevenzionistica si estrinseca, sul versante della disciplina penale, mediante il ricorso alla principale tecnica di anticipazione della tutela, ovverosia al modello del reato di pericolo. Con la sola eccezione, dunque, come appena visto, delle due fattispecie delittuose di omicidio e lesioni personali (artt. 589 e 590 c.p.), che appartengono al modello del reato (colposo) di danno, la totalità degli illeciti del diritto penale della sicurezza del lavoro è strutturata come reato di pericolo presunto (o, tutt’al più, astratto).

Così è sia per tutte le numerosissime contravvenzioni del t.u.s.l. (ma allo stesso modello sono conformati anche gli illeciti amministrativi); sia per i delitti di comune pericolo contro l’incolumità pubblica in tema di omissione o rimozione dolosa o colposa di cautele antinfortunistiche (artt. 437 e 451 c.p.)[40].

Questa soluzione, che pure potrebbe sollevare interrogativi dal punto di vista del rispetto del principio di offensività, si giustifica proprio in funzione dell’opportunità e della tendenziale necessità di apprestare una protezione penale arretrata, che anticipi l’intervento della sanzione a un momento prodromico al verificarsi degli eventi avversi: la tutela affidata ai delitti di danno (l’omicidio e le lesioni personali) interviene, per definizione, quando è oramai troppo tardi. Da qui l’abbondante ricorso del legislatore a fattispecie che ripetono la struttura dei reati di pericolo. Semmai, dubbi potrebbero riguardare, e in qualche caso in maniera non infondata, la reale necessità e il tasso di effettività di così tanti reati contravvenzionali (quindi, di mera condotta e di pericolo) in materia.

  1. Soggetti garanti della sicurezza e obblighi penalmente sanzionati

4.1. La prevalenza di “reati propri”

La tutela penale della sicurezza del lavoro è affidata, dal punto di vista dei soggetti attivi, a fattispecie di reato proprio.

Si tratta di un carattere riguardante, in sostanza, la quasi totalità delle incriminazioni: sia le contravvenzioni del primo livello, sia, benché soltanto nella forma di realizzazione omissiva, i delitti di pericolo e quelli di danno collocati nel codice. Invero, il d.lg. 81/2008, almeno per quanto riguarda le numerose ipotesi contravvenzionali, predetermina i soggetti destinatari dei precetti sanzionati penalmente, richiedendo una particolare posizione soggettiva e quindi prevedendo fattispecie di “reato proprio”.

Il riferimento va anzitutto alle differenti posizioni soggettive, definite all’art. 2, e ai reati (propri) riconducibili a dette figure a norma del d.lg. 81/2008.

Così, per i datori di lavoro sono previste le contravvenzioni “esclusive” di cui all’art. 55, commi 1-4, in relazione agli obblighi (indelegabili) stabiliti agli artt. 17, 28 e 29, riguardanti, in particolare, la valutazione dei rischi, l’adozione del DVR e la designazione di un RSPP.

Per quanto concerne ancora i datori di lavoro, ma assieme, questa volta, ai dirigenti, possono richiamarsi, per esempio, le contravvenzioni “condivise” ex art. 55, comma 5, in relazione a svariati obblighi (condivisi e delegabili) contenuti agli artt. 18, 26, 36, 37, 43, 45, 46, ecc. Gravano infatti sia sul datore che sui dirigenti la nomina del medico competente; la fornitura di adeguati dispositivi di protezione individuale; la richiesta di osservanza da parte dei lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza del lavoro; la consegna di copia del DVR al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS); l’aggiornamento delle misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro (art. 18); gli obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione (art. 26); quelli riguardanti l’informazione sui rischi e la formazione sulla sicurezza (rispettivamente artt. 36 e 37); nonché gli obblighi relativi alla gestione delle emergenze, al primo soccorso e alla prevenzione incendi (artt. 43, 45, 46).

Per i preposti, vengono in rilievo gli illeciti contravvenzionali previsti all’art. 56 in relazione agli obblighi formulati all’art. 19, tra i quali, si segnalano: sovrintendere e vigilare sull’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle disposizioni di legge e aziendali in materia di sicurezza; informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa le disposizioni prese o da prendere; segnalare tempestivamente al datore o al dirigente le deficienze delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione, nonché ogni altra condizione di pericolo; frequentare appositi corsi di formazione.

Ancora: l’art. 58 prevede sanzioni anche contravvenzionali per il medico competente in caso di violazioni dell’art. 25 riguardanti la collaborazione – con il datore e il servizio di prevenzione e protezione (SPP) – alla valutazione dei rischi; la programmazione e l’effettuazione della sorveglianza sanitaria; nonché obblighi relativi alla documentazione sanitaria, ecc.

In contesti lavorativi particolari, sono poi previste contravvenzioni dei lavoratori autonomi, dei componenti dell’impresa familiare, dei coltivatori diretti, degli artigiani e dei piccoli commercianti (art. 60 in relazione all’art. 21).

Sanzioni penali contravvenzionali riguardano anche soggetti estranei all’organizzazione aziendale, e quindi al rapporto di lavoro, come i progettisti, i fabbricanti, i fornitori e gli installatori (art. 57 in relazione agli artt. 22-24 t.u.s.l.).

Come già accennato, anche per gli stessi lavoratori sono previste contravvenzioni: in particolare, all’art. 59, in relazione agli artt. 20 e 43, con riferimento, per esempio, all’inosservanza delle istruzioni di sicurezza impartite dal datore, dai dirigenti o dai preposti, oppure allo scorretto utilizzo dei dispositivi di protezione o delle attrezzature di lavoro, o ancora alla rimozione dei dispositivi di sicurezza.

Come anticipato, però, nella forma omissiva di realizzazione delle condotte tipiche, anche i delitti di comune pericolo degli artt. 437 e 451 c.p. si connotano certamente come reati propri: segnatamente, in relazione alla mancata collocazione di impianti o apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro (art. 437 c.p.) e di mezzi destinati al salvataggio o soccorso in caso di verificazione degli stessi eventi (art. 451 c.p.). Solo un soggetto che, sulla scorta del t.u.s.l., abbia l’obbligo di collocare i presidi di sicurezza, può omettere di collocarli: un tale obbligo ricadrà sulle figure soggettive del datore e del dirigente. Sono invece “reati comuni” le ipotesi commissive di rimozione o danneggiamento degli stessi presidi antinfortunistici, pure previste come tipiche ai sensi delle stesse fattispecie delittuose.

Infine, benché i delitti colposi di omicidio e di lesioni personali siano “reati comuni”, in quanto fatti che possono essere commessi da “chiunque”, va osservato che, nel settore della sicurezza sul lavoro, gli stessi vengono spesso in rilievo nella forma di “reati omissivi impropri”. In tale forma di realizzazione, anche i delitti degli artt. 589-590 c.p. si trasformano, in realtà, in reati propri: la posizione di garanzia, alla stregua della quale concretizzare l’individuazione del soggetto che aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento morte o lesioni (secondo la norma generale dell’art. 40, cpv., c.p.), sarà, di volta in volta, attribuibile alle figure del datore, del dirigente, del preposto, del medico competente, del costruttore del macchinario, ecc.

4.2. Garanti di diritto, di fatto, a titolo originario e a seguito di delega

Con riferimento, poi, a tutti i gruppi di fattispecie (contravvenzioni del t.u.s.l., delitti di comune pericolo, delitti contro la vita e l’integrità fisica), la connotazione come reati propri può dipendere dal possesso della qualifica soggettiva (riferibile a ruoli direttivi) in via originaria, in quanto attribuita ex lege a chi abbia la formale investitura come datore, dirigente o preposto; può dipendere, ancora, dallo svolgimento di fatto dei poteri corrispondenti (art. 299 d.lg. 81/2008); ma può dipendere, infine, anche dal possesso della qualifica soggettiva in via derivata, ossia quale effetto di delega di funzioni (art. 16 d.lg. 81/2008)[41].

Si è già accennato poco sopra alla fondamentale partizione degli obblighi datoriali in (a) obblighi esclusivi del datore di lavoro e al contempo “indelegabili” e (b) obblighi condivisi con i dirigenti e delegabili a terzi[42]. L’istituto della delega o trasferimento di funzioni, di grande frequenza nella prassi aziendale, anche con riferimento a realtà imprenditoriali di non grandi dimensioni, qualora siano rispettati i presupposti di ammissibilità (art. 17) e i requisiti formali e sostanziali di validità, può condurre all’irresponsabilità dell’obbligato in via originaria e alla responsabilizzazione in via derivata del soggetto al quale sono stati trasferiti gli obblighi di sicurezza.

In via qui del tutto didascalica[43], si ricorda che i requisiti formali richiesti dall’art. 16, comma 1, t.u.s.l. riguardano l’atto scritto avente data certa e accettato per iscritto (nonché, ai sensi del comma 2, l’adeguata e tempestiva pubblicità). Lo stesso art. 16, comma 1, prevede i requisiti sostanziali riferibili alla professionalità ed esperienza in capo al delegato (ovvero, quelle richieste «dalla specifica natura delle funzioni delegate»); all’attribuzione al delegato di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo, in particolare dell’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate. Una delega ammissibile e valida determina il trasferimento al delegato dei poteri e degli obblighi correlati, mentre sul delegante continua a gravare un obbligo di vigilanza sul corretto adempimento da parte del delegato (art. 16, comma 3). Il soggetto delegato, previo accordo col delegante, può a sua volta sub-delegare ad altri specifiche funzioni in tema di sicurezza del lavoro, alle stesse condizioni già viste per la delega di primo grado. Non è ammessa una delega successiva da parte del sub-delegato (art. 16, comma 3-bis).

Importante notare, benché soltanto di passaggio in questa sede[44], il collegamento istituito dalla legge tra la disciplina della delega, da un lato, che ha la funzione di eventualmente liberare da responsabilità penale la persona fisica del datore delegante, e il modello organizzativo destinato ad avere efficacia esimente nei confronti dell’ente collettivo. Invero, l’obbligo di vigilanza in capo al datore delegante si intende assolto in caso di adozione del modello di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4, t.u.s.l., che richiama il modello di organizzazione e gestione introdotto dal d.lg. 231/2001 con funzione esimente della responsabilità dell’ente da reato, qui adattato alla materia della sicurezza del lavoro.

4.3. Il garante come gestore del rischio

La rimarchevole complessità soggettiva, che emerge da quanto appena detto, rende particolarmente delicato il capitolo dell’individuazione dei garanti della sicurezza nei luoghi di lavoro, là dove è sovente dato di riscontrare: pluralità di garanti a titolo originario ed ex lege (datore, dirigenti, preposti, ecc.); frequente presenza di garanti a titolo derivativo; eventuale ricorrenza di garanti di fatto. La spinosa questione della individuazione dei soggetti responsabili penalmente nel contesto dell’organizzazione di lavoro è stata fatta oggetto di importanti statuizioni da parte della giurisprudenza degli ultimi anni.

La delicatezza della questione deriva da ciò: che la corretta individuazione del garante, specialmente in contesti organizzati, come quelli aziendali, diviene un passaggio fondamentale per l’attuazione (o l’elusione) del canone costituzionale della personalità della responsabilità penale[45]. Imprescindibili, in tal senso, le pagine dedicate al tema delle “posizioni di garanzia” nella già evocata sentenza delle Sezioni unite della Suprema Corte nel caso ThyssenKrupp[46].

Ci si limita in questa sede a ricordare come la Corte parta da una premessa classificatoria, non priva di rilievo teorico, sul significato attuale della nozione di “garante”, registrando, nell’uso giurisprudenziale del termine, un campo semantico assai più esteso di quello tradizionalmente assegnato a tale posizione soggettiva. In altri termini, le Sezioni unite rilevano che il riferimento alla Garantenstellung – che, secondo l’inquadramento classico, esprime in modo condensato la posizione sulla quale si fonda l’obbligo giuridico di impedire l’evento nei reati omissivi impropri (art. 40, cpv., c.p.) – viene oramai ampiamente utilizzato nella prassi anche in presenza di una causalità commissiva.

Secondo la Corte, pertanto, garante è colui che è chiamato, pro quota, secondo la sua “competenza”, a gestire e a organizzare specifici fattori di rischio[47]: il garante come gestore del rischio.

La complessità soggettiva riscontrabile all’interno di una struttura organizzata, come un’azienda[48], «suggerisce che l’individuazione della responsabilità penale passa non di rado attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione». L’esigenza fondamentale, allora, in simili contesti, è quella di «separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito»[49].

Nell’offrire questo fondamentale insegnamento “selettivo” all’insegna del principio di responsabilità per fatto proprio e colpevole, la Suprema Corte non nasconde che si tratti di un compito difficilissimo per il giudice, poiché non sempre le sfere di competenza e responsabilità sono separate da una rigida linea di confine[50]. Ma, fatta questa precisazione, non si possono che sottoscrivere le conclusioni dei giudici: «Lo scopo del diritto penale, tuttavia, è proprio quello di tentare di districare tali intricati scenari, nella […] prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori»[51].

  1. Ricadute sul terreno dei delitti colposi, in caso di violazione degli obblighi e di verificazione di un evento lesivo

Riprendendo la distinzione tra obblighi esclusivi/indelegabili e condivisi/delegabili, in questo paragrafo varrà la pena di soffermarsi – per la loro possibile incidenza sul terreno della responsabilità colposa per omicidio o lesioni – su entrambe le tipologie di debito di sicurezza, prendendo in considerazione soprattutto due profili differenziati, per come emersi all’esito delle indagini empiriche più sopra ripercorse.

In particolare, ci si soffermerà brevemente, anche in via esemplificativa, per un verso, sull’obbligo esclusivo di valutazione dei rischi, il cui rispetto preoccupa, significativamente, oltre la metà dei lavoratori e delegati sindacali delle piccole e medie imprese del veronese interessate dalle interviste; per altro verso, sui doveri condivisi di informazione, formazione e addestramento, indicati come da migliorare da oltre un quarto dei lavoratori interpellati nel medesimo contesto geografico.

 

5.1. Prevalenza di fattispecie colpose

Tanto per le contravvenzioni del t.u.s.l. quanto per i delitti del c.p., il diritto penale della sicurezza del lavoro si caratterizza come il “regno della colpa”. Tale considerazione, salvo l’eccezione che sarà segnalata, è vera sia sul piano astratto delle fattispecie previste dalla legge, sia su quello delle concrete contestazioni processuali.

Le contravvenzioni – come da regola generale formulata dall’art. 42, ultimo comma, c.p. – sono infatti punibili indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, con la conseguenza che per la loro imputazione all’autore… basta la colpa.

Con riferimento alla tutela apprestata mediante ipotesi delittuose, nella prassi giudiziaria del settore della sicurezza sul lavoro, i delitti di omicidio e lesioni personali sono ovviamente contestati nella forma colposa[52]. Peraltro, il contenuto normativo dell’inosservanza, che sorregge sul versante soggettivo la relativa fattispecie delittuosa colposa, è spessissimo rappresentato, sotto forma di colpa specifica, dai precetti già sanzionati in prima battuta a titolo di contravvenzione.

È poi colposa anche la fattispecie di comune pericolo contro l’incolumità pubblica prevista dall’art. 451 c.p. (omissione colposa di cautele destinate al salvataggio o soccorso contro infortuni o disastri sul lavoro), così come quella dell’art. 449 (intitolata ai delitti colposi di «danno», ma riferibile alla verificazione di «disastri» colposi anche sul lavoro)[53].

L’unica vera eccezione dolosa, nel contesto in esame, rimane, allora, la fattispecie di rimozione od omissione di cautele infortunistiche prevista dall’art. 437 c.p.

Un universo, dunque, quello qui esaminato, popolato in grandissima prevalenza da figure colpose. Non è un caso, invero, che la responsabilità del datore – o di alcune delle altre figure soggettive qualificate nell’ambito della sicurezza del lavoro – sia da sempre al centro degli approfondimenti teorici sulla colpa e sul reato colposo.

La effettiva verificazione di un evento lesivo per la vita o l’incolumità dei lavoratori, quale concretizzazione di un rischio lavorativo, è una evenienza tragicamente frequente. Alla elevatissima frequenza di eventi lesivi corrisponde, ovviamente, un enorme contenzioso penale, che vede solitamente in veste di imputati i soggetti posti al vertice dell’organizzazione aziendale, per lo più i datori di lavoro e i dirigenti. Da questo punto di vista, l’abbondanza di procedimenti penali per infortuni o malattie professionali ha reso la prassi giurisprudenziale – e, in un secondo momento, la legislazione – in materia di sicurezza del lavoro uno dei principali laboratori di approfondimento e sperimentazione di soluzioni più generali in tema di responsabilità colposa, con particolare riferimento all’individuazione dei soggetti responsabili in contesti organizzativi[54], all’accertamento del nesso di causalità e all’elemento soggettivo colposo[55].

5.2. Le diverse tipologie di inosservanza e la colpa specifica

Il settore della sicurezza del lavoro – contrariamente ad altri ambiti di attività intrinsecamente rischiose, come per esempio l’attività sanitaria – si caratterizza per la tradizionale e maggiore rilevanza della colpa specifica (cioè per inosservanza di regole formalizzate in leggi, regolamenti, ordini o discipline) rispetto alla colpa generica (per negligenza, imprudenza o imperizia). Quest’ultima sembra destinata ad assumere una funzione pressoché “ancillare” e “servente”, anche e proprio sul piano processuale, dove la colpa generica gioca spesso il ruolo di valvola accusatoria di espansione della contestazione, grazie alla consolidata (ma non condivisibile) giurisprudenza della Cassazione che ammette la possibilità che, una volta contestata la colpa generica, questa comprenda anche ogni ulteriore profilo di colpa specifica successivamente emerso, senza che ciò comporti una diversità del fatto ai fini del giudizio di correlazione tra accusa e sentenza[56].

La sommaria ricognizione del sistema delle fonti in materia di sicurezza sul lavoro – svolta più sopra – basta a giustificare questa netta prevalenza di ipotesi di colpa specifica o per inosservanza. Da ultimo con il d.lg. 81/2008, che come visto può considerarsi come una sorta di testo unico in materia, si è apprestato un capillare corpo di norme a contenuto preventivo-cautelare, già sanzionato di per sé, in caso di inosservanza, a titolo contravvenzionale (o di illecito amministrativo); ma con la funzione ulteriore di fornire la base normativa alla colpa specifica nelle ipotesi delittuose innescate dalla verificazione dell’evento lesivo (omicidio o lesioni personali), quando quest’ultimo sia legato da un nesso causale alla condotta inosservante. Potrà trattarsi, allora e anzitutto, di colpa specifica per inosservanza di legge: vale a dire, delle disposizioni prevenzionistiche di fonte legale contenute, oggi, nel t.u.s.l. e nei suoi allegati[57].

Più nel dettaglio: in caso di violazione degli obblighi di risk assessment, di risk management o di risk communication, oggi previsti dal t.u.s.l., e di conseguente verificazione dell’evento dannoso morte o lesioni (sotto forma di infortunio o malattia professionale), saremo di fronte ad una ipotesi di possibile colpa specifica. In particolare, alla luce delle diverse tipologie di colpa specifica in cui si articola la definizione di reato colposo dell’art. 43 c.p. (per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline), potrebbe trattarsi più precisamente di una colpa per “inosservanza di leggi”: sempre che si dimostri che l’evento dannoso rappresenta la concretizzazione del rischio specifico alla cui eliminazione o riduzione era diretta la norma di legge violata; e che lo stesso si è verificato a causa della violazione medesima, nel senso che il rispetto della norma avrebbe evitato il risultato dannoso.

 

5.3. Colpa per inosservanza e criticità emerse alla luce delle interviste

Richiamando qui l’indagine empirica ripercorsa in precedenza[58], si ricorderà che – tra le criticità emerse alla luce delle interviste somministrate ai datori, da una parte, e ai lavoratori e delegati sindacali, dall’altra – spiccano quelle riguardanti tutti e tre i momenti fondamentali in cui si articolano i doveri di sicurezza: la valutazione, la gestione e la comunicazione dei rischi.

Partendo da quest’ultima, si è visto come gli obblighi informativi e formativi – sia quelli generali, sia quelli riguardanti i rischi specifici e le squadre di emergenza – ricorrano, infatti, tanto tra le difficoltà lamentate dai datori di lavoro quanto tra le misure da migliorare secondo i lavoratori e delegati sindacali intervistati[59].

Inoltre, sul versante della valutazione dei rischi, la stessa è indicata (addirittura come da svolgere in quanto mancante o quantomeno) come da migliorare nella propria realtà aziendale da circa una metà dei lavoratori e delegati sindacali che hanno risposto alle interviste.

Con riferimento, poi, a quella particolare forma di gestione del rischio consistente nell’aggiornamento delle misure di prevenzione alla luce dei mutamenti organizzativi e produttivi (che impongono una previa rielaborazione della valutazione), si tratta di attività ritenuta difficile o abbastanza difficile da circa un terzo dei datori.

Ebbene, passando dai dati registrati durante la ricerca alle previsioni normative vigenti, alla luce della giurisprudenza è ipotizzabile che rilevi di per sé a titolo di colpa specifica la violazione del (radicale) obbligo datoriale di valutazione di tutti i rischi presenti sul luogo di lavoro e di conseguente adozione del documento di valutazione dei rischi[60], sempre che – è necessario precisare – l’evento lesivo sia causalmente riconducibile alla mancata o scorretta valutazione di un determinato fattore di rischio e alla mancata adozione (da parte di datore o dirigenti) delle misure di prevenzione adeguate al rischio (pur se correttamente individuato). In altri termini, anche se la giurisprudenza talvolta prescinde dal chiarire questo passaggio, è pur sempre necessario che l’evento verificatosi rappresenti la concretizzazione di un fattore di rischio innescato nello svolgimento dell’attività lavorativa e trascurato o mal valutato in sede di risk assessment; un rischio che deve risultare altresì governabile, nel senso della sua eliminazione o riduzione, attraverso l’adozione di specifiche misure a contenuto preventivo.

Come noto, i compiti esclusivi e indelegabili del datore di lavoro, tutti riguardanti in senso lato la valutazione del rischio, costituiscono un elemento “centrale” e “fondante” nella complessiva strategia preventiva. Il debito di sicurezza gravante sulla figura datoriale è in primo luogo di tipo “cognitivo”: è un «dovere di sapere», di prendere cognizione, di acquisire conoscenze. Un obbligo che consiste, anzi tutto, nella precisa individuazione – in virtù della sua posizione di “prossimità” e, in un certo senso, di “fonte” – di tutti i fattori di rischio innescati dalla e nella attività produttiva[61]. In secondo luogo, è un obbligo di tipo “regolativo”, “organizzativo” e “procedurale”: alla valutazione dei rischi deve seguire l’indicazione, nel DVR[62], delle misure di prevenzione e protezione adeguate, del programma delle misure idonee a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, nonché delle procedure anche organizzative per l’attuazione delle misure[63].

I compiti di sicurezza si specificano, come già ribadito, in obblighi ulteriori rispetto a quello (basilare) a contenuto valutativo e consistente nella mappatura dei rischi. Si tratta di obblighi non esclusivi del datore, ma condivisi con il dirigente e al contempo delegabili:

  1. a) obblighi di comunicazione del rischio (risk communication), consistenti nelle menzionate attività formative, informative e addestrative[64];
  2. b) di gestione operativa ed organizzativa del rischio (risk management).

Quanto all’inosservanza degli obblighi condivisi (datoriali e dirigenziali) di informazione, formazione e addestramento del lavoratore, allorché lo stesso abbia poi subito un infortunio (mortale o meno), si tratta di un fatto che potrebbe rilevare a titolo di delitto colposo di omicidio o lesioni, sempre che vi sia un nesso etiologico tra l’inosservanza e il risultato lesivo. Così, per esempio, allorquando l’omessa formazione/informazione riguardi quello specifico fattore di rischio che si è poi concretizzato nell’evento lesioni personali o morte, evento evitabile là dove l’obbligo formativo o informativo fosse stato adeguatamente adempiuto.

In presenza degli stessi presupposti etiologici già ribaditi, potrebbero condurre all’integrazione di una colpa specifica anche le inosservanze di obblighi cautelari condivisi, a contenuto più o meno puntuale, riguardanti la concreta gestione del rischio, come, per esempio: nominare il medico competente per la sorveglianza sanitaria[65], richiedere allo stesso l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico e inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze stabilite[66]; adottare le misure necessarie alla prevenzione incendi e alla gestione delle emergenze[67] e designare i lavoratori incaricati dell’attuazione di tali misure e della gestione di tali situazioni[68]; fornire ai lavoratori i necessari e idonei d.p.i.[69]; richiedere ai lavoratori l’osservanza delle disposizioni (anche endo-aziendali) in materia di sicurezza[70]; aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi o al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione[71].

La valutazione dei rischi è, come intuibile, un obbligo previo e a contenuto dinamico: precede cronologicamente e logicamente gli obblighi di gestione e comunicazione dei rischi, ma ne è prescritta la immediata rielaborazione – sempre quale obbligo “esclusivo” del datore – in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’assetto organizzativo in grado di incidere sulla sicurezza, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica o a seguito di infortuni significativi o quando gli esiti della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. Analogo contenuto dinamico riguarda, poi, anche l’obbligo – “gestorio” e “condiviso” con i dirigenti – di aggiornamento delle misure di prevenzione all’esito della rielaborazione della valutazione o in conseguenza dell’evoluzione delle conoscenze tecniche[72].

I menzionati compiti “regolativi” (“organizzativi” e “procedurali”) del datore si fondano sulle norme, già di per sé sanzionate come contravvenzioni, che impongono l’obbligo di valutazione del rischio e di adozione di disposizioni adeguate alla sua eliminazione o riduzione al minimo: come già ricordato, una meta-norma (statale) strumentale alla produzione di ulteriori norme di sicurezza (di fonte privata) a contenuto organizzativo, procedurale, operativo, gestionale[73].

Ne deriva che nel contesto aziendale potrà verificarsi una violazione, da parte di ognuno dei centri di imputazione isolabili all’interno dell’organizzazione (i diversi gestori dei rischi: datore, dirigenti, delegati, preposti, lavoratori, ecc.), anche di norme prevenzionistiche “endo-aziendali”, quindi di fonte privata, adottate, generalmente, all’esito della valutazione dei rischi: norme da ritenersi riconducibili – a seconda che siano rivolte con generalità ed astrattezza a tutti i lavoratori o a categorie di essi – a tipologie di colpa per inosservanza di “discipline”; oppure – qualora siano rivolte a singoli lavoratori determinati – di colpa per inosservanza di “ordini”[74].

Di una colpa per inosservanza di discipline, nel senso dell’art. 43 c.p., si potrà parlare, per esempio, in presenza di una violazione di regole di sicurezza contenute in disposizioni aziendali rivolte a tutti o a categorie di lavoratori addetti a determinate mansioni (documento di valutazione dei rischi, regolamento aziendale, piani di sicurezza), che rappresentino la specificazione di criteri generali di sicurezza desumibili dall’ordinamento giuridico e “adattate” alle peculiarità della concreta situazione di rischio. La violazione di tali discipline endo-aziendali da parte di qualunque soggetto destinatario (lavoratori, dirigenti, preposti, al limite lo stesso datore di lavoro) rileva in termini di responsabilità penale anche a titolo di omicidio o lesioni sempreché (e solo se) sia sussistente, in via di estrema sintesi, la c.d. “causalità della colpa”: ossia, ove l’evento rappresenti la concretizzazione del rischio cautelato a mezzo della disciplina trasgredita e ove sussista, inoltre, un nesso etiologico di evitabilità tra l’evento e la condotta conforme alla regola rimasta inosservata.

Si parlerà, invece, di colpa per inosservanza di ordini, sempre nel senso dell’art. 43 c.p., allorquando la violazione riguardi, per esempio, un ordine scritto od orale – impartito dal datore o dirigente o preposto nei confronti di un lavoratore – di eseguire una determinata attività lavorativa seguendo una particolare procedura o modalità di sicurezza, sempreché tra la violazione e l’evento lesivo vi sia il suddetto nesso causale. Pertanto, in caso di infortunio a carico di un altro lavoratore, detta violazione potrebbe configurare, di per sé, una contravvenzione ai sensi degli artt. 20 e 59 t.u.s.l. (per inosservanza delle istruzioni operative ricevute), nonché il nucleo normativo ed oggettivo della colpa (la condotta inosservante) per il delitto di omicidio o lesioni.

La costruzione di un sistema di sicurezza idoneo e pertinente alla singola situazione aziendale, nei suoi specifici aspetti regolativi, organizzativi, procedurali e operativi, rappresenta il contenuto fondamentale dell’obbligo di garanzia dei soggetti apicali e in particolare per quelli riconducibili alla figura datoriale: si tratta, in larga misura, di un obbligo di predisposizione di norme di sicurezza (auto-regolazione). Ne consegue che la eventuale colpa specifica dei soggetti apicali, «in relazione ad eventi concreti, potrà per l’appunto dipendere dalla mancata predisposizione di discipline adeguate. Per altri eventuali garanti sottoordinati, e per gli altri che agiscano nel settore oggetto di disciplina, il mancato rispetto delle regole può essere fonte di responsabilità per colpa specifica in relazione ad eventi lesivi che ne siano derivati»[75].

In un universo così densamente popolato di regole formalizzate di varia fonte e natura, sono tutt’altro che rari esiti “deformanti” sulla categoria della colpa, prodotti imboccando eventuali scorciatoie logiche e praticando possibili automatismi processuali tendenti a ricondurre alla responsabilità del garante “inosservante” qualunque evento dannoso emerso a valle, bypassando gli ineludibili criteri di un’imputazione colpevole. In definitiva, la tendenziale dissoluzione di un’autentica verifica sulla colpevolezza nelle ipotesi di colpa specifica del garante potrebbe assumere i connotati di una “responsabilità oggettiva occulta”[76].

5.4. Considerazioni riguardanti le misure anti-coronavirus

Qualche considerazione meritano anche le risultanze dei questionari riguardanti le modalità utilizzate per fronteggiare i rischi pandemici in relazione alla diffusione nei luoghi di lavoro del virus SARS-CoV-2, dai quali emerge un elevato tasso di applicazione dei protocolli anti-contagio, anche in relazione alle attività dirette alla informazione e formazione in azienda.

Come riportato più sopra[77], le principali misure adottate (anche) nelle imprese interpellate sono consistite principalmente nella riorganizzazione del lavoro e degli spazi finalizzata a garantire il distanziamento e a ridurre il contatto con soggetti esterni; nella fornitura di gel igienizzanti; in interventi di pulizia e sanificazione delle postazioni di lavoro, delle attrezzature e dei locali aziendali; nonché, sebbene in misura minore, nell’agevolazione del lavoro agile e nell’adozione di tutele specifiche per i lavoratori fragili.

Con particolare riferimento alla riorganizzazione del lavoro finalizzata a ridurre il rischio di contagio, è opportuno osservare come sia controverso in dottrina se ciò sia sufficiente a far sorgere un vero e proprio obbligo datoriale di rielaborazione della valutazione del rischio, che, come già ricordato, è preveduto in generale dall’art. 29, comma 3, t.u.s.l. In effetti la normazione emanata durante la fase pandemica, e in particolare l’art. 29-bis del d.l. n. 23/2020, ha imposto l’applicazione dei protocolli condivisi di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro[78]. Una sorta di ri-accentramento, dunque, della valutazione finalizzata all’individuazione delle misure pertinenti, limitata al rischio Covid.

Le perplessità circa l’insorgenza di un obbligo datoriale di valutazione riferibili al rischio pandemico paiono fondate, in generale[79]. Ma sembra opportuno formulare due precisazioni.

Per un verso, un vero e proprio obbligo datoriale di rivalutazione del rischio ai sensi dell’art. 29, comma 3, t.u.s.l. sembra non insensato in relazione a speciali contesti produttivi, in quanto caratterizzati da un rischio epidemico qualificato poiché aumentato o incrementale. Si pensi a imprese operanti nel campo sanitario e assistenziale, in cui non si può escludere la necessità di un intervento “adattivo” parametrato sulle peculiarità delle singole aziende.

Per altro verso, anche in assenza di un obbligo di rivalutazione privata, essendo disponibili prescrizioni anti-contagio individuate dai protocolli richiamati dalla legge, resta comunque attivo non soltanto l’obbligo di adozione da parte delle singole aziende delle misure previste ex art. 29-bis del d.l. 23/2020, ma altresì quello – condiviso tra datori e dirigenti ex art. 18, comma 1, lett. z, t.u.s.l. – di aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi, introdotti per rispettare i suddetti protocolli e che abbiano rilevanza ai fini della salute e sicurezza sul lavoro. Così, occorrerebbe adottare misure “compensative” o “sostitutive”, là dove l’adozione di prescrizioni orientate al distanziamento sociale faccia sorgere rischi aggiuntivi o aumentati derivanti, per esempio, dallo svolgimento per l’appunto distanziato e isolato da parte di un solo lavoratore di un’attività che in precedenza era svolta, per specifiche ragioni di sicurezza, da più soggetti contemporaneamente.

Senza contare che – come opportunamente osservato in dottrina – restano pur sempre intatte le sfere di competenza e di responsabilità riguardanti altre figure di garanti, come «i medici competenti per i profili di sorveglianza sanitaria, i dirigenti per gli aspetti di esecuzione delle direttive datoriali sul versante dell’attività lavorativa e della vigilanza sulla medesima, e i preposti per quanto concerne la sorveglianza sul rispetto da parte dei lavoratori delle misure e degli accorgimenti dettati nel protocollo aziendale anti-contagio»[80].

5.5. Colpa del datore in ipotesi di comportamenti scorretti del lavoratore

Altre importanti ricadute sul terreno della prassi giurisprudenziale in tema di responsabilità penale per omicidio o lesioni riguardano i – frequenti – casi di riconoscimento della colpa del datore in ipotesi di comportamenti scorretti del lavoratore, causativi di danni a se stesso o ad altri.

Soprattutto nelle ipotesi di infortunio auto-inferto, anche in presenza di macroscopiche imprudenze del lavoratore la giurisprudenza penale è decisamente orientata in senso colpevolista nei confronti del datore o di altri garanti, per lo più sulla base di argomenti assai ricorrenti, ma tutt’altro che irresistibili: o perché si ritiene che una qualche carenza organizzativa sia sempre rinvenibile nella causazione dell’infortunio, il che impedirebbe di invocare l’affidamento sulla diligenza altrui, tantomeno della vittima; oppure perché la negligenza del lavoratore tende a essere vista come la prova in re ipsa di una carenza informativa e formativa imputabile allo stesso datore di lavoro; o, ancora, perché si può sempre addebitare al garante di non aver controllato affinché i lavoratori non incorressero in leggerezze; o, in mancanza d’altro, come è stato chiosato in dottrina, «perché “il datore di lavoro è garante anche della correttezza dell’agire del lavoratore” e tanto basta per renderlo comunque responsabile dell’infortunio»[81].

La regola di giudizio consolidata in giurisprudenza è quella secondo la quale la (rarissima) esclusione della responsabilità del datore di lavoro passa, in questi casi, attraverso la cruna dell’ago della valutazione del comportamento del lavoratore come eccezionale, aberrante o eccentrico (rispetto alle mansioni lavorative), tanto da rappresentare una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento lesivo. Per giungere a questa – largamente dominante, ma non condivisibile – soluzione, si argomenta, quindi, in termini davvero radicali, ovverosia di (pressoché impossibile) interruzione del nesso di causalità ai sensi dell’art. 41, cpv., c.p.[82]; anziché, valorizzando gli innegabili profili relazionali di queste ipotesi, in termini di (eventuale, possibile assenza di) colpa del datore, in funzione della “reciprocità dinamica” degli obblighi di sicurezza che caratterizza la ricostruzione della fattispecie colposa in contesti organizzativi e ad interazione necessaria.

In ambito lavorativo sono del tutto evidenti i profili di relazionalità della colpa[83]: per la de-finizione e la perimetrazione della “colpa” (violazione del dovere di diligenza) di un soggetto si deve spesso fare riferimento, nel contesto organizzativo in cui si muovono i diversi attori della sicurezza, alla eventuale “colpa” di altri soggetti che rivestano posizioni di garanzia riferibili alla gestione degli stessi fattori di rischio (o di loro quote). La definizione dei confini della diligenza doverosa da parte del datore, in quanto detentore della maggior quota di potere decisionale, può dipendere dai comportamenti e dai doveri di altri soggetti con i quali, occasionalmente o meno, in via sincronica o diacronica, il primo si trova a interagire nell’esercizio di tale potere: per esempio, il delegato, i sub-delegati, i dirigenti, il responsabile del SPP, i preposti, il progettista, il fabbricante, l’installatore, il fornitore, nonché i lavoratori. Tutti o parte di questi soggetti si trovano, poi, in forme e tempi variabili, nelle rispettive sfere di competenza, ad interagire tra di loro.

Ne deriva che, ove si possano escludere “difetti” nell’organizzazione complessiva della sicurezza (poi concretizzatisi nell’evento), in relazione per esempio ai macchinari o agli impianti produttivi o ai dispositivi di protezione o alla formazione e informazione sui rischi specifici, la colpa del datore – o di altri garanti reperibili lungo la linea verticale (es. dirigenti o preposti) od orizzontale (es. delegati) dell’organigramma – va dinamicamente definita sulla base della possibilità di fare affidamento sul rispetto delle norme di sicurezza e sulla corretta gestione dei rischi da parte di tutti i soggetti coinvolti: obblighi di osservanza che, come detto, competono anche su ogni singolo lavoratore adeguatamente addestrato a venire in contatto con quegli stessi rischi. La strutturale irrilevanza del principio di affidamento, decretata dalla giurisprudenza di settore, risulta perciò incoerente con le premesse teoriche imposte dall’assetto strutturale della responsabilità in contesti organizzativi e ad interazione necessaria, secondo le quali la colpa va definita anche in virtù dei suoi connotati di eventuale relazionalità.

Ovvio che queste ricostruzioni giurisprudenziali ipercolpevoliste, che si fondano su una figura di “datore modello” totipotente, risentono di una lettura paternalistica dei rapporti sul luogo di lavoro. Va invece ricordato che la figura di “lavoratore modello” – cristallizzata nella giurisprudenza che esclude la responsabilità del datore solo in presenza di un comportamento aberrante o totalmente eccentrico del lavoratore stesso – presenta tratti normativamente obsoleti e paradossali, là dove corrisponde a un “modello” di dipendente dal contegno gravemente imprudente e scriteriato, al limite della crassa sconsideratezza, “normalmente” dissennato, un pericolo immanente e costante per sé stesso e per i suoi altrettanto inaffidabili colleghi.

Il dato normativo desumibile dal t.u.s.l. è, per contro, almeno parzialmente ispirato a un modello di sicurezza partecipativa e collaborativa a prevenzione multilaterale, e ci consegna, pertanto, una figura di lavoratore al quale – pur continuando ad occupare il posto di principale beneficiario delle norme prevenzionistiche – è tuttavia affidato un ruolo attivo, rafforzato peraltro da sanzioni contravvenzionali. Si pensi, per esempio, all’obbligo del lavoratore di osservare le disposizioni e istruzioni impartite dal datore e dagli altri garanti a tutela della protezione collettiva e individuale (art. 20, lett. b); all’obbligo di utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro e i dispositivi di sicurezza (lett. c) e di protezione (lett. d); all’obbligo di segnalare immediatamente deficienze dei mezzi o dei dispositivi ovvero qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui venga a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente (lett. e); al divieto di rimuovere o modificare i dispositivi di sicurezza (lett. f); al divieto di compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di sua competenza o che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori (lett. g); all’obbligo di partecipare ai programmi di formazione e addestramento organizzati dal datore (lett. h), ecc.

Questo compendio normativo ci restituisce, insomma, un modello collaborativo e partecipativo – valorizzato solo da rare pronunce – in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compreso il lavoratore: un esito interpretativo che fa da contraltare al modello iperprotettivo (e paternalistico), non desumibile dalla legge benché seguito dalla giurisprudenza dominante, in cui il datore di lavoro è investito di un potere di vigilanza pressoché assoluto, anche se irrealistico, sul contegno del lavoratore.

Gli obblighi del lavoratore, talora addirittura a contenuto “proattivo”, disegnano le sembianze di una figura “anfibia”: primo destinatario, ma altresì garante della sicurezza in quanto gestore del rischio, o meglio di specifiche quote di rischio. Un soggetto, insomma, chiamato a «contribuire» – come si esprime l’art. 20, lett. a – all’adempimento degli obblighi di sicurezza assieme alle figure sovraordinate nell’assetto organizzativo. Con la conseguenza che, in presenza di eventi lesivi derivanti da comportamenti scorretti dello stesso lavoratore-vittima, si tratterà di verificare, prima di tutto, la “competenza” specifica sul rischio che si è tradotto nell’evento concreto; e, in secondo luogo, di ricostruire la eventuale colpa del datore alla luce delle peculiarità “relazionali” del sistema a prevenzione multilaterale, caratteristico della sicurezza del lavoro.

Alla luce del “modello normativo” di lavoratore disegnato dalla legge, pertanto, la figura al ribasso utilizzata dalla giurisprudenza non ha ragion d’essere. Soltanto la concreta possibilità di riconoscere il fatto (di prevedere il contegno causativo dell’infortunio da parte della vittima) renderà colposa la condotta datoriale: e ciò, ci sembra, applicando i moduli ricostruttivi “classici” della colpa[84].

5.6. La difficile ricostruzione della colpevolezza colposa

Come accennato, le tendenze a oggettivare eccessivamente il giudizio di responsabilità, trascurando il profilo della colpevolezza, trovano applicazioni frequenti soprattutto in ambiti di rischio molto caratterizzati dalla presenza massiva di regole di cautela formalizzate: quindi, nel settore della sicurezza del lavoro, dove, come veduto, sono prevalenti le ipotesi di colpa specifica. Nonché, più in generale, in contesti, ancora una volta come quello lavorativo, connotati da eminenti profili organizzativi e, talora, di spersonalizzazione delle attività: sul presupposto che un’organizzazione complessa abbia capacità superiori (non soltanto nel creare, ma anche) nel fronteggiare fattori di rischio, i correnti moduli ricostruttivi della colpa lasciano poco o nessuno spazio a valutazioni circa la possibilità soggettiva ed individuale del singolo “garante” di adeguarsi al protocollo cautelare che si assume violato. Inoltre, specialmente in questi stessi contesti organizzativi, la colpa tende varie volte a deformarsi secondo le fattezze di una responsabilità da posizione.

Ciò può avvenire, benché in minor misura, anche nelle realtà produttive medio-piccole, come quelle qui prese in speciale considerazione; e può essere conseguenza di fattori diversi, tra i quali sembra da annoverare anche una valorizzazione eccessiva della posizione di garanzia ricoperta dai soggetti al vertice dell’organizzazione aziendale, specie se l’individuazione del soggetto responsabile avvenga senza una corretta applicazione dei criteri di autentica selezione dei garanti, quindi in funzione del ruolo effettivamente disimpegnato nella “gestione” di specifiche quote e tipologie di rischio, anche secondo un parametro di prossimità (se non spaziale, per lo meno funzionale) al rischio stesso. Non trascurabili, poi, da questo punto di vista, sono anche gli effetti della sopra veduta svalutazione dei profili di relazionalità della colpa, i quali, come detto, in un contesto plurisoggettivo come quello tipico di un’organizzazione lavorativa, una volta effettuata una corretta selezione dei soggetti obbligati, possono consentire l’individuazione dei contenuti dell’obbligo rispettivo di ognuna delle figure che si trovano ad interagire sul terreno della sicurezza.

Benché la dimensione di colpevolezza sia ancora più sfuggente in rapporto a un soggetto che agisca in un contesto “professionale” e organizzato, in ogni caso, “saltare”, come di consueto avviene, un passaggio di “soggettivizzazione” ulteriore rispetto a quello – ancora non individualizzante – legato alla tipicità soggettiva parametrata sulla figura di agente modello (differenziata e ritagliata sulla base della specifica attività svolta), non consente di sottoporre a verifica, in sede di colpevolezza, la tenuta, nella concreta situazione fattuale, di questo “condensato di astratte virtù normative”. Essendo composta di “sostanza normativa”, in quanto espressione metaforica delle pretese di diligenza imposte dall’ordinamento, la figura modello (datoriale, dirigenziale, ecc.) si muove in uno spazio virtuale, alla stregua di un avatar forgiato su qualità standardizzate secondo parametri “ideali”: al netto, quindi, dell’effettivo potere del singolo datore o dirigente di incarnare nel reale, con tutte le sue sfaccettature “situazionali” e “motivazionali”, tale modello deontologico[85]. Verosimilmente, la possibilità di uno “scarto” tra modello astratto (o personaggio) e persona (in carne ed ossa), meritevole di considerazione in sede di colpevolezza, sarà inversamente proporzionale al grado di complessità organizzativa dell’attività svolta in concreto, alla sua spersonalizzazione, alla sua professionalizzazione e tecnicizzazione, nonché alla presenza di protocolli procedurali sufficientemente rigidi, ecc. Pur senza annullarsi del tutto, nemmeno nei contesti aziendali di piccole dimensioni: altrimenti, in presenza dell’evento, il soggetto finirebbe per rispondere penalmente solo per la posizione che occupa nell’ingranaggio organizzativo (più che per la condotta effettivamente realizzata), o solo per la sua astratta “competenza” su taluni tipi di rischio nella parcellizzazione dei ruoli formalmente declinati in un organigramma. Quasi alla stregua, quindi, di un antecedente causale inanimato, di una sequenza (di significato per lo più omissivo) contraria a un protocollo di sicurezza e qualificata da un risultato dannoso, la cui verificazione è, inoltre, più o meno fortuita. In altri termini, la colpa (penale) come «mera “allocazione” di responsabilità in capo a soggetti in posizione di garanzia»[86].

Nella prassi giurisprudenziale relativa al contesto lavorativo si registra, dunque, un notevole impoverimento soggettivo della colpa. L’evento, poi, in queste manifestazioni di responsabilità colposa, svolge un ruolo più affine a una “condizione di punibilità” (o, meglio, di maggiore punibilità legata alla configurazione di un delitto) in ipotesi di previa violazione contravvenzionale. Qualora, in presenza di un evento lesivo, a fondare il facile automatismo del riconoscimento della colpevolezza bastasse il mero riscontro di un soggetto inosservante (cioè: che un soggetto sul quale insiste una posizione di garanzia ha violato un qualche comma o protocollo del suo pervasivo statuto cautelare), ecco che ci troveremmo di fronte a una ipotesi di responsabilità oggettiva occulta[87].

Ad ogni modo, occorre segnalare recenti, significative aperture della giurisprudenza di legittimità verso la valorizzazione della dimensione soggettiva della colpa proprio nel contesto della sicurezza sui luoghi di lavoro, potenzialmente idonee a sconfessare la inveterata tendenza a praticare forme di responsabilità penale da “posizione” associate alla corrente interpretazione eccessivamente “oggettivata” della colpa[88].

Le pronunce della Suprema Corte alle quali si allude sono innovative in quanto il richiamo all’inesigibilità della condotta oggettivamente doverosa del garante porta all’annullamento della condanna. A tale esito si giunge mediante valorizzazione dei dati situazionali (per esempio: il breve lasso di tempo trascorso da quando il soggetto ha assunto la posizione di garanzia; l’impossibilità in concreto di un controllo continuo e diretto) che rappresentano un ostacolo alla “concreta riconoscibilità del rischio specifico” (solitamente riconducibile, in queste vicende, a una prassi operativa scorretta da parte dei lavoratori), senza la quale viene meno la effettiva prevedibilità dell’evento hic et nunc. In assenza di elementi in grado di “mediare” e “trasmettere” la possibile percezione del rischio specifico, l’evento lesivo, pure in sé prevedibile in funzione della figura modello, diviene non prevedibile per il garante concreto, colto in quella precisa dinamica etiologica, la quale si presenta come non conosciuta né ragionevolmente conoscibile, in considerazione di un fattore situazionale-temporale.

  1. Conclusioni

Il percorso sin qui tracciato ha fatto emergere come i problemi relativi alla responsabilità penale si pongano in maniera diversa, ma non troppo, nei contesti lavorativi medio-piccoli. Le criticità emerse all’esito delle indagini empiriche, con specifico riferimento a quelle coinvolgenti obblighi (fondamentali nelle strategie prevenzionistiche) sanzionati penalmente, dimostrano semmai che una differenziazione “dimensionale” andrebbe operata proprio in relazione all’estensione e alle modalità di adempimento di detti obblighi, ben al di là delle (poche) previsioni, sopra ricordate, che già vanno nel senso di una standardizzazione o semplificazione a beneficio delle imprese di piccole dimensioni[89]. Da un lato, non vanno trascurate le difficoltà di conoscenza e comprensione dei testi normativi da parte degli operatori di micro realtà imprenditoriali, che molto difficilmente dispongono di personale qualificato in tal senso. La complessità tecnico-giuridica che affetta tali testi si unisce a un corpo normativo di notevole estensione: basti pensare, per restare al solo d.lg. 81/2008, che il testo fondamentale in materia è composto da 13 titoli, oltre 300 articoli, ben 51 allegati. D’altro canto, occorre pure considerare che la semplificazione degli obblighi di sicurezza, benché si mostri necessaria in tali contesti per ragioni intuibili, rischia al contempo di produrre una riduzione delle tutele nei confronti dei lavoratori delle piccole imprese, anche in funzione della assenza in molte di queste di rappresentanze sindacali, così come della frequente tendenza a un adempimento al più burocratico-difensivistico di tali obblighi.

Come rilevato dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro[90], le micro e piccole imprese rappresentano oltre il 90% circa delle imprese dell’UE e impiegano quasi il 50% dei lavoratori. A fonte di questa importanza economica, nel periodo 2008-2012 la quota maggiore di incidenti mortali nel contesto dell’Unione si è verificata tra i dipendenti delle imprese con non più di 49 dipendenti[91].

Sebbene la loro importanza in termini economici e occupazionali sia ampiamente riconosciuta, «una serie di sviluppi socioeconomici ha portato a una crescente vulnerabilità strutturale, costringendo un’ampia percentuale di micro e piccole imprese ad adottare una strategia organizzativa e commerciale a basso costo per sopravvivere. […] In conseguenza di questi sviluppi, le micro e piccole imprese devono affrontare una generale mancanza di risorse per la prevenzione della SSL e un’adeguata gestione della SSL e i lavoratori impiegati in queste imprese rischiano di trovarsi in condizioni di lavoro più precarie, con una qualità del lavoro più bassa e, in proporzione, maggiori rischi per la loro salute, la loro sicurezza e il loro benessere»[92].

Lo studio dell’Agenzia europea sottolinea l’importanza di una politica mirata in materia di salute e sicurezza sul lavoro, «che si rivolga in modo specifico alle MPI»[93]. Tra le principali raccomandazioni rese nella relazione finale si ricorda la necessità di rafforzare e sostenere i sistemi statali di regolamentazione e controllo in tutti gli Stati membri dell’UE; quella di intensificare attività ispettive regolamentate; il coinvolgimento dei sindacati e delle organizzazioni datoriali nella formulazione di politiche rivolte alle micro e piccole imprese; l’importanza dei profili educativi della sicurezza; l’offerta di soluzioni sostenibili, facilmente applicabili e trasferibili alle micro e piccole imprese[94].

In sostanza e in conclusione, ad avviso di chi scrive, anche per rendere possibile una responsabilità penale dei diversi garanti che resti all’interno di spazi rispettosi dei principi di garanzia, sembra necessario un bilanciamento differenziato, in materia di sicurezza, tra regolazione e controllo pubblici (etero-regolazione ed etero-controllo) e regolazione e controllo privati (auto-regolazione ed auto-controllo), nel senso di un minore disimpegno pubblico quantomeno nelle microimprese. E ciò in relazione a tutti gli adempimenti “fondanti” relativi alla valutazione dei rischi e alla formazione dei lavoratori: obblighi, tecnicamente ed economicamente tanto impegnativi da richiedere l’apprestamento di speciali ed effettivi ausili finanziari e consulenziali pubblici, anche mediante un autentico sistema di incentivi economici. Un accompagnamento dialogico delle piccole imprese nell’implementazione della sicurezza sui luoghi di lavoro dovrebbe passare, poi, attraverso un’intensificazione dei controlli delle agenzie di vigilanza, in coerenza con il meccanismo premiale-estintivo fondato sull’adeguamento successivo da parte del datore di lavoro: uno strumento già esistente, essendo previsto dal menzionato d.lg. 758/1994, ma quasi sempre, o comunque troppo spesso, attivato soltanto a seguito di un infortunio. Infine, quanto all’obbligo di valutazione dei rischi e di adozione del relativo documento, oltre a un’attività ex ante di consulenza mirata per le piccole imprese, sarebbe da prendere in considerazione un sistema di verifica e certificazione pubblica ex post.

La pervasività ed estensione piramidale della tutela penale della sicurezza, che in astratto si giustificherebbe in funzione dell’importanza dei beni da proteggere, non può infatti trasformarsi in un meccanismo di mera allocazione della responsabilità punitiva sui riconoscibili “centri di competenza”, identificati nelle figure dei garanti. I quali, altrimenti, finirebbero per assomigliare a capri espiatori. L’importanza della posta in gioco consiglia, specie con riferimento alle piccole imprese, il ricorso a una disciplina mista e dialogica tra pubblico e privato, partecipata mediante coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori, nonché assistita anche dall’intervento pubblico. In maniera correlativa pare sconsigliabile, invece, una disciplina che si esprima prevalentemente sotto forma di minaccia di pene, oppure soltanto a mezzo di semplificazioni standardizzate, che non sempre o non necessariamente incrementano il tasso di sicurezza sui luoghi di lavoro. Per questi motivi, spazi maggiori meritano profili disciplinari che contemplino controlli, verifiche e asseverazioni da parte di agenzie a livello nazionale e territoriale, direttamente orientati alle imprese più piccole.

Prof. Donato Castronuovo

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[1] Il contributo è destinato al volume “Rischio, governance e responsabilità nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura nell’area veneta. Una ricerca empirica e interdisciplinare”, curato da L. Picotti e pubblicato da E.S.I., Napoli. Il volume raccoglie gli esiti della ricerca omonima, finanziata da Ca.Ri.Verona, svolta presso l’Università di Verona e coordinata dallo stesso Prof. L. Picotti. Si ringraziano il Curatore e l’Editore per la gentile concessione dell’autorizzazione alla pubblicazione in questa rivista.

[2] B. Vettori e A. Di Nicola, Analisi delle risposte dei datori di lavoro al questionario sulla valutazione dei rischi nell’esercizio dell’attività d’impresa, marzo 2022; B. Vettori e A. Di Nicola, Analisi delle risposte dei lavoratori/delegati sindacali al questionario sulla valutazione dei rischi nell’esercizio dell’attività d’impresa, maggio 2022; B. Vettori, A. Di Nicola e G. Baratto, Analisi delle risposte dei datori di lavoro al questionario sulle misure emergenza Covid-19, giugno 2022; B. Vettori, A. Di Nicola e G. Baratto, Analisi delle risposte dei lavoratori/delegati sindacali al questionario sulle misure emergenza Covid-19, giugno 2022.

[3] Il discorso sarà qui limitato ai dati rilevanti in funzione della responsabilità penale delle persone fisiche, mentre con riguardo alla responsabilità da reato delle persone giuridiche e ai modelli di organizzazione e gestione si rinvia ai contributi di G. De Simone e di V. Mongillo, in questo volume.

[4] La disciplina è dettata dall’art. 29 (intitolato: Modalità di effettuazione della valutazione dei rischi) del d.lg. 81/2008. Dal comma 6 dell’art. 29 si desume che i datori che occupino fino a 50 lavoratori hanno la facoltà di ricorrere alle procedure standardizzate di valutazione dei rischi («possono»). Il precedente comma 5 dello stesso art. 29 prevede procedure standardizzate di valutazione dei rischi per i datori che occupino fino a 10 lavoratori, ma in questo secondo caso, riguardante imprese davvero piccolissime, deve ritenersi che il ricorso alla procedura standardizzata sia obbligatorio («effettuano»). Le procedure di valutazione “standardizzate” sono elaborate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, tenendo conto dei profili di rischio e degli indici infortunistici di settore. Tali procedure, inoltre, «vengono recepite con decreto dei Ministeri del lavoro, della salute e delle politiche sociali, e dell’interno acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano. La Commissione procede al monitoraggio dell’applicazione delle suddette procedure al fine di un’eventuale rielaborazione delle medesime» (art. 6, comma 8, lett. f, d.lg. 81/2008).

[5] Alle aziende appartenenti a settori di attività che escludono il ricorso alle procedure standardizzate, si fa riferimento al comma 7 del medesimo art. 29 del d.lg. 81: tra queste, quando occupino meno di 50 lavoratori, figurano le aziende in cui si svolgono attività che espongano i lavoratori a rischi chimici, biologici, da atmosfere esplosive, cancerogeni, mutageni, nonché ad amianto; le aziende sottoposte alla disciplina sugli incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose (d.lg. n. 334/1999); le centrali termoelettriche; gli impianti e installazioni sottoposti alla disciplina sulla protezione dalle radiazioni ionizzanti (d.lg. n. 230/1995); le aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni. Invece, le aziende estrattive e le strutture di ricovero e cura non possono fare ricorso a procedure standardizzate di valutazione dei rischi soltanto se occupino oltre 50 lavoratori.

[6] Art. 18, comma 1, lett v, e art. 35 del d.lg. 81/2008. Nelle micro-unità produttive che occupano fino a 15 dipendenti la convocazione della riunione è invece rimessa alla facoltà del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS). Da qui l’importanza di questa figura anche nelle realtà imprenditoriali più piccole.

[7] Art. 3, comma 13ter.

[8] Art. 11, comma 1, lett. a e lett. b, e comma 5.

[9] Art. 52.

[10] Art. 9, comma 2, lett. c.

[11] B. Vettori e A. Di Nicola, Analisi delle risposte dei datori di lavoro al questionario sulla valutazione dei rischi nell’esercizio dell’attività d’impresa, cit.

[12] Cfr. art. 18, comma 1, lett. u, art. 26, comma 8, del d.lg. 81/2008: si tratta di obbligo, stabilito per datori e dirigenti, sanzionato in via amministrativa.

[13] Obbligo di aggiornamento – condiviso da datori e dirigenti – previsto dall’art. 18, comma 1, lett. z, e, con riferimento alla prima parte della disposizione (aggiornamenti in relazione a mutamenti organizzativi e produttivi), sanzionato, dall’art. 55, comma 5, lett. d, del d.lg. 81/2008, a titolo di contravvenzione punita con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda.

[14] Gli obblighi di informazione e formazione “specifici”, concernenti le emergenze, l’antincendio, il primo soccorso e l’evacuazione, riguardano il datore e il dirigente ed hanno rilevanza contravvenzionale ai sensi dell’art. 55, comma 5, lett. c, in relazione ai precetti stabiliti agli artt. 36, comma 1, lett. b, e 37, comma 9, del d.lg. 81/2008.

[15] Anche i “generali” obblighi informativi e formativi – artt. 18, comma 1, lett. l, 36 e 37 – gravano tanto sulla figura datoriale quanto su quella dirigenziale e hanno rilievo contravvenzionale ai sensi dell’art. 55, comma 5, lett. c, del d.lg. 81/2008.

[16] Si tratta ancora una volta di un obbligo di rilievo contravvenzionale attribuito ai soggetti apicali (datore e dirigenti): artt. 18, comma 1, lett. f, e 55, comma 5, lett. c.

[17] B. Vettori e A. Di Nicola, Analisi delle risposte dei datori di lavoro al questionario sulla valutazione dei rischi nell’esercizio dell’attività d’impresa, cit.

[18] B. Vettori e A. Di Nicola, Analisi delle risposte dei lavoratori/delegati sindacali al questionario sulla valutazione dei rischi nell’esercizio dell’attività d’impresa, cit.

[19] Così, per esempio, quanto alle misure dirette a prevenire gli eventi dannosi, si segnalano come scarsamente efficaci quelle riguardanti la condizione delle lavoratrici in gravidanza, le differenze in base al genere, all’età o alla provenienza dei lavoratori da altri Paesi, il microclima e lo stress lavoro correlato (efficacia nulla o bassa per oltre il 71% degli interpellati); la movimentazione dei carichi e la circolazione stradale (efficacia nulla o bassa per oltre il 57%); il lavoro in quota (efficacia nulla per il 57%). Anche per le misure volte a mitigare l’impatto degli eventi dannosi i lavoratori/delegati sindacali lamentano una scarsa efficacia, per esempio, in relazione a lavori in quota (efficacia nulla o bassa per oltre l’85% degli intervistati); campi elettromagnetici, microclima, condizioni delle lavoratrici in gravidanza (per oltre il 71%); stress lavoro correlato, videoterminali, movimentazione dei carichi (per oltre il 57%).

[20] Infra, § 5.3.

[21] I dati sono estrapolati dai due rapporti dedicati alle misure riguardanti l’emergenza pandemica già menzionati: B. Vettori, A. Di Nicola e G. Baratto, Analisi delle risposte dei datori di lavoro al questionario sulle misure emergenza Covid-19, cit.; B. Vettori, A. Di Nicola e G. Baratto, Analisi delle risposte dei lavoratori/delegati sindacali al questionario sulle misure emergenza Covid-19, cit.

[22] Infra, § 5.4.

[23] Sulla distinzione evocata nel testo tra etero-regolazione e auto-regolazione della sicurezza, si permetta di rinviare a D. Castronuovo, La colpa penale, Milano 2009, p. 308 ss. Sui meccanismi di autodisciplina e di cogestione del rischio nel campo della sicurezza del lavoro, si deve rinviare all’indagine di V. Torre, La “privatizzazione” delle fonti di diritto penale. Un’analisi comparata dei modelli di responsabilità penale nell’esercizio dell’attività di impresa, Bologna 2013, pp. 338 ss., 352 ss., 398 ss.

[24] Si veda l’art. 17 (anche in relazione all’art. 29), nonché, per le sanzioni contravvenzionali riguardanti il solo datore di lavoro, l’art. 55, commi 1 e 2, del d.lg. 81/2008.

[25] Al servizio di prevenzione e protezione sono dedicati, in particolare, gli artt. 31-35 del d.lg. 81/2008.

[26] Per i casi di ammissibilità della delega di funzioni si veda ancora una volta il menzionato art. 17; mentre per i requisiti di validità formale e sostanziale della delega di funzioni, nonché per i possibili effetti della stessa, si faccia riferimento all’art. 16 del d.lg. 81/2008.

[27] Sulla gestione delle emergenze (primo soccorso, salvataggio) e sulla prevenzione incendi si vedano l’art. 18, comma 1, lett. t, e gli artt. 43-46 del d.lg. 81/2008.

[28] Alla «regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti», si riferisce l’art. 15, lett. z, d.lg. 81/2008.

[29] Si vedano, per esempio, gli artt. 15, lett. d, 18, comma 1, lett. q, 28, comma 1, d.lg. 81/2008.

[30] Obbligo dei lavoratori ai sensi dell’art. 20, comma 2, lett. c e lett. d; ma anche, sul versante del controllo, obbligo dei preposti ex art. 19, lett. a, d.lg. 81/2008.

[31] L’art. 301 d.lg. 81/2008, dopo le modifiche apportate con il d.lg. 106/2009, ha esteso la possibilità della prescrizione di adeguamento impartita dall’autorità di vigilanza, con successiva eventuale estinzione, anche alle contravvenzioni punite con la sola ammenda. Per approfondimenti sugli istituti premiali in tema di sicurezza del lavoro, si deve rinviare a V. Valentini, Contravvenzioni extra-codicem e meccanismi premiali, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre e V. Valentini, Sicurezza sul lavoro. Profili penali, Torino 2021, p. 239 ss.

[32] La pena dell’arresto in solitaria è comminata, in via esemplificativa, per la violazione dell’obbligo di valutazione del rischio e di adozione del DVR nelle aziende industriali soggette alla disciplina sugli incidenti rilevanti; nelle centrali termoelettriche e negli impianti nucleari; nella fabbricazione di esplosivi; in aziende con rischi biologici, da atmosfere esplosive, da cancerogeni, da amianto; nei cantieri con presenza di più imprese con entità non inferiore a 200 uomini/giorno.

[33] Ma l’interpretazione circa la natura giuridica – circostanziale o autonoma – della fattispecie aggravata del secondo comma dell’art. 437 è controversa: sul punto, anche per un esame complessivo dei due delitti in questione (artt. 437 e 451 c.p.), si veda S. Tordini Cagli, I delitti di comune pericolo, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre e V. Valentini, Sicurezza sul lavoro, cit., p. 259 ss.

[34] Così A. Gargani, Il danno qualificato dal pericolo. Profili sistematici e politico-criminali dei delitti contro l’incolumità pubblica, Torino 2005, p. 319 ss.

[35] In senso contrario, però, ma senza una vera motivazione, Cass., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini, p. 320, ove si afferma che il delitto dell’art. 437 c.p. «è previsto nella sola forma dolosa, non essendo ricompreso tra i delitti colposi di danno previsti dall’art. 449 c.p.» (si tratta della sentenza della S.C. resa nel caso del Petrolchimico di Porto Marghera). Sui rapporti tra l’art. 437 e l’art. 449 c.p., cfr. anche S. Corbetta, Delitti contro l’incolumità pubblica, tomo 1, I delitti di comune pericolo mediante violenza, in G. Marinucci e E. Dolcini (dir.), Trattato di diritto penale. Parte speciale, II, Padova 2003, p. 775.

[36] Corte d’Assise di Torino, 15 aprile 2011, Espenhahn.

[37] Corte d’Assise d’Appello di Torino, 28 febbraio 2013, Espenhahn.

[38] Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343, Espenhahn. Sulla vicenda, per tutti, K. Summerer, Il caso ThyssenKrupp: la responsabilità delle persone fisiche per omicidio e lesioni in danno dei lavoratori, in L. Foffani e D. Castronuovo (a cura di), Diritto penale dell’economia, II, Impresa e sicurezza, Bologna 2015, p. 177 ss.; G. De Simone, Il caso ThyssenKrupp: la responsabilità delle persone giuridiche, ivi, p. 219 ss.

[39] Su questi reati presupposto colposi, introdotti nel catalogo 231 dall’art. 25-septies, si permetta di rinviare a D. Castronuovo, Art. 25-septies d.lg. 231/2001, in D. Castronuovo, G. De Simone, E. Ginevra, A. Lionzo, D. Negri e G. Varraso (a cura di), Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, Milano 2019, p. 600 ss.

[40] Come già ricordato, rimane controversa – sebbene, ad avviso di chi scrive, interpretativamente sostenibile – la possibilità di applicare, alla materia in esame, la fattispecie di disastro colposo dell’art. 449 c.p.

[41] Per i necessari approfondimenti sui diversi profili riguardanti i soggetti, S. Tordini Cagli, I soggetti responsabili, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre e V. Valentini, Sicurezza sul lavoro, cit., p. 75 ss.

[42] Si rinvia all’art. 17 per l’identificazione degli obblighi datoriali esclusivi e non delegabili (valutazione dei rischi, adozione del DVR, nomina di un RSPP) e all’art. 18 d.lg. 81/2008 per il catalogo dei numerosi obblighi condivisi con i dirigenti e delegabili.

[43] Per i necessari approfondimenti sull’istituto, anche in relazione ai modelli di verifica e controllo, si raccomanda la lettura tra gli altri contributi di V. Mongillo, Parte VI. Sicurezza sul lavoro. Artt. 16, 17, 30 d.lg. 81/2008, in D. Castronuovo, G. De Simone, E. Ginevra, A. Lionzo, D. Negri e G. Varraso (a cura di), Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, cit., p. 1591 ss.

[44] Ma si rinvia agli approfondimenti svolti nei contributi rispettivi di G. De Simone e V. Mongillo, in questo volume.

[45] Art. 27, comma 1, Cost.

[46] Cass., sez. un., 24 aprile 2014, cit., pp. 101-117. Sul punto le Sezioni Unite riprendono quanto già affermato in alcune pronunce di poco precedenti della Sezione quarta e, in particolare, in: Cass., sez. IV, 23 novembre 2012, n. 1678, Lovison. Cfr. anche, tra la produzione scientifica dell’Estensore delle due pronunce menzionate, R. Blaiotta, Causalità giuridica, Torino 2010, p. 193 ss.; Id., Diritto penale e sicurezza del lavoro, Torino 2020, p. 201 ss.

[47] Sul punto, nella prospettiva costituzionale della responsabilità per fatto proprio, L. Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino 2004, passim; Id., Personalità, in S. Canestrari, L. Cornacchia e G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2ª ed., Bologna 2017, p. 201 ss.; M. Donini, Imputazione oggettiva dell’evento. “Nesso di rischio” e responsabilità per fatto proprio, Torino 2006, passim; Id., Imputazione oggettiva dell’evento (diritto penale), Enc. dir.Annali, III, Milano 2010, p. 635 ss.

[48] Benché assai meno rilevante, la questione non scompare del tutto all’interno di aziende piccole come quelle prese in considerazione dalla presente ricerca veronese. Anche in una micro-organizzazione di impresa (per esempio, edile) può porsi il problema di una corretta individuazione dei ruoli (di datore o preposto, ecc.) e degli obblighi gravanti su ognuno.

[49] Cass., sez. un., 24 aprile 2014, cit., p. 101 ss.

[50] E questa difficoltà nel distinguere le specifiche competenze soggettive potrebbe risultare ancora più vero, in varie ipotesi, con riferimento a piccole compagini aziendali.

[51] Cass., sez. un., 24 aprile 2014, cit., p. 101 ss.

[52] Deve infatti riconoscersi una assoluta residualità alla contestazione dell’omicidio o delle lesioni in forma dolosa, a titolo di dolo eventuale – come già riferito supra, § 3.3., a proposito della vicenda ThyssenKrupp.

[53] Per alcune precisazioni con riguardo ai delitti colposi di comune pericolo in materia lavoristica, si veda supra, § 3.2.

[54] Una “sperimentazione” registrabile anche sul piano legislativo (benché dopo una lunga elaborazione da parte della giurisprudenza) in relazione alla “codificazione” degli istituti della delega di funzioni (artt. 16-17) e dell’esercizio di fatto dei poteri direttivi (art. 299 d.lg. 81/2008). Sul piano dell’elaborazione giurisprudenziale si rinvia anche alle questioni relative all’individuazione del garante nei contesti lavorativi, già proposte supra, § 4.3, a proposito della nozione di garante come “gestore del rischio”.

[55] Impossibile qui fornire riferimenti più specifici sulle evoluzioni, peraltro ancora in corso, riguardanti la causalità e la colpa. Ma si veda S. Dovere, voce Giurisprudenza della Corte Suprema sulla colpa, in M. Donini (a cura di), Il reato colposo, in Enc. dir. – I tematici, II, Milano 2021, p. 579 ss.; R. Blaiotta, voce Sicurezza del lavoro e reati colposi, ivi, p. 1172. Si consenta di rinviare anche a D. Castronuovo, I delitti di omicidio e lesioni, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre e V. Valentini, Sicurezza sul lavoro, cit., pp. 289-352; e, più in generale, Id., voce Colpa penale, in M. Donini (a cura di), Il reato colposo, cit., p. 200 ss.

[56] Per l’illustrazione e la critica di questa soluzione giurisprudenziale, deve rinviarsi nuovamente a D. Castronuovo, I delitti di omicidio e lesioni, cit., p. 330 ss.

[57] Si osservi che gli allegati al d.lg. 81/2008, anche in virtù dei rinvii espressamente previsti nell’articolato del decreto legislativo, sono parte integrante del testo di legge.

[58] Supra, § 2.

[59] Come visto, analizzando le risposte datoriali si registrano difficoltà nel fornire una adeguata e specifica informazione ai lavoratori incaricati della prevenzione incendi, dell’evacuazione, del salvataggio e del primo soccorso (abbastanza difficile per il 27,8% dei datori interpellati); fornire adeguata informazione sui rischi specifici e sulle misure di prevenzione adottate (difficile o abbastanza difficile per il 22%); far comprendere i contenuti informativi e formativi ai lavoratori immigrati. Quanto a lavoratori e delegati sindacali intervistati, un quarto delle risposte indica come da migliorare la formazione specifica dei lavoratori addetti alle squadre di emergenza; un quinto, la formazione e informazione degli altri lavoratori.

[60] Cfr. gli artt. 17 (anche in relazione all’art. 15), 28, 29.

[61] Art. 15, lett. a; art. 17, lett. a, prima parte; art. 28, comma 1.

[62] Art. 17, lett. a, seconda parte.

[63] È quanto si desume dall’art. 28, comma 2, lett. b, c, d.

[64] Con riguardo alle informazioni, alla formazione e all’addestramento rivolti ai lavoratori, si faccia riferimento all’art. 18, comma 1, lett. e, h, i, e soprattutto l, nonché agli artt. 36 e 37. Per quanto riguarda, poi, l’obbligo, pure questo condiviso, di trasmettere le informazioni destinate al servizio di prevenzione e protezione e al medico competente, si veda l’art. 18, comma 2.

[65] Obbligo previsto dall’art. 18, comma 1, lett. a.

[66] Art. 18, comma 1, lett. g.

[67] Art. 18, comma 1, lett. t.

[68] Art. 18, comma 1, lett. b.

[69] Art. 18, comma 1, lett. d.

[70] Art. 18, comma 1, lett. f.

[71] Art. 18, comma 1, lett. z.

[72] Mentre l’obbligo di immediata rielaborazione della valutazione dei rischi – che sorge nelle situazioni prefigurate all’art. 29, comma 3 – sembra riguardare, in quanto obbligo attinente alla valutazione, le sole figure datoriali ed è sanzionato con la pena della sola ammenda (art. 55, comma 3), per contro l’obbligo di aggiornamento delle misure – ma con esclusivo riferimento a quelle rese necessarie in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro (art. 18, lett. z, prima parte) – riguarda più precisamente la gestione del rischio, è condiviso tra datori e dirigenti ed è sanzionato (più gravemente) con la pena alternativa dell’arresto o ammenda (art. 55, comma 5, lett. d).

[73] Si tratta, come già visto, di un’auto-regolazione della sicurezza che si accompagna all’etero-regolazione parimenti imposta dal t.u.s.l. (supra, § 3.1.). Per le necessarie esplicazioni teoriche, si consenta di rimandare a D. Castronuovo, La colpa penale, cit., p. 188 ss.

[74] Meno comune, in materia lavoristica, l’ulteriore forma di colpa specifica enumerata all’art. 43 c.p.: quella per inosservanza di regolamenti.

[75] D. Pulitanò, Diritto penale, 9ª ed., Torino 2021, p. 390 s.

[76] Infra, § 5.6.

[77] Supra, § 2.2.

[78] Il riferimento del decreto va al Protocollo condiviso tra il Governo e le parti sociali, sottoscritto il 24 aprile 2020, nonché agli altri protocolli e alle linee-guida previste dall’art. 1, comma 14, d.l. 33/2020, o ancora alle misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative.

[79] Cfr., anche per i necessari riferimenti, V. Torre, Valutazione del rischio Covid-19, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini Cagli, V. Torre e V. Valentini, Sicurezza sul lavoro, cit., p. 389 ss. (§§ 3 e 3.1.).

[80] V. Mongillo, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro in tempi di pandemia. Profili di responsabilità individuale e dell’ente per il contagio da coronavirus, in Dir. pen. cont., 2020, 2, p. 49.

[81] D. Micheletti, La responsabilità esclusiva del lavoratore per il proprio infortunio. Studio sulla tipicità passiva nel reato colposo, in Criminalia 2014, Pisa 2015, p. 324.

[82] In senso critico su questa giurisprudenza: M. Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino 2012, p. 259 ss.; F. Mucciarelli, I coefficienti soggettivi di imputazione, in B. Deidda e A. Gargani (a cura di), Reati contro la salute e la dignità del lavoratore, in F. Palazzo e C.E. Paliero (diretto da), Trattato teorico-pratico di diritto penale, Torino 2012, p. 218 ss.; D. Micheletti, La responsabilità esclusiva del lavoratore per il proprio infortunio, cit., p. 323 ss.; D. Castronuovo, Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Autoresponsabilità o paternalismo penale?, in Arch. pen., 2019, 2, pp. 195-214. In giurisprudenza, si veda la rilettura della questione operata – ma in maniera ad avviso di chi scrive non risolutiva – nella già menzionata sentenza sul caso ThyssenKrupp: Cass., sez. un., 24 aprile 2014, cit., p. 104 ss.

[83] In generale, sulla culpa per relationem si veda soprattutto L. Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, cit., pp. 471-479, 481-575; Id., La cooperazione colposa come fattispecie di colpa per inosservanza di cautele relazionali, in Studi M. Romano, II, Napoli 2011, p. 821 ss. Cfr. inoltre: M. Mantovani, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano 1997, passim; O. Di Giovine, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino 2003, p. 50 ss., 373 ss. (in part. 376-379); G. Civello, Il principio del sibi imputet nella teoria del reato. Contributo allo studio della responsabilità penale per fatto proprio, Torino 2017, passim; A. Perin, Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale. Proposte per un metodo di giudizio, Napoli 2020, p. 233 ss. Con particolare riferimento al contesto della sicurezza sul lavoro, G. Losappio, Plurisoggettività eventuale colposa. Un’introduzione allo studio nei delitti causali di evento in senso naturalistico, Bari 2012, p. 204 ss.; A. Perin, Colpa penale relazionale e sicurezza nei luoghi di lavoro. Brevi osservazioni fra modello teorico, realtà applicativa ed esigenze di tutela, in DPC, 2012, 2, p. 105 ss.; Id., Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale, cit., p. 275 ss.; D. Micheletti, La responsabilità esclusiva del lavoratore per il proprio infortunio, cit., p. 323 ss., in part. p. 350 ss.

[84] Per approfondimenti e riferimenti ulteriori, sia consentito rinviare a D. Castronuovo, Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro, cit., p. 1 ss.

[85] Per ragguagli e sviluppi ulteriori, D. Castronuovo, La colpa “penale”: misura soggettiva e colpa grave, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 4, p. 1758 ss.

[86] M. Donini e R. Orlandi, La parabola della colpa, in M. Donini e R. Orlandi (a cura di), Reato colposo e modelli di responsabilità. Le forme attuali di un paradigma classico, Bologna 2013, p. 18.

[87] Su questa nozione, in generale, F. Mantovani, Responsabilità oggettiva espressa e responsabilità oggettiva occulta, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, p. 456.

[88] Cfr. Cass., sez. IV, 3 novembre 2016, n. 12175, Bordogna (caso Montefibre-bis), p. 57 ss.; Cass., sez. IV, 3 aprile 2019, n. 20833, Stango; Cass., sez. IV, 16 aprile 2019, n. 32507, Romano; Cass., sez. IV, 9 dicembre 2020, n. 9824, F.F.; Cass., sez. IV, 3 dicembre 2020, n. 12137, B.E.; Cass., sez. IV, 11 marzo 2021, n. 9739, M.G. e M.C.; Cass., sez. IV, 8 ottobre 2020, n. 1096, Verondini; Cass., sez. IV, 13 gennaio 2021, n. 1096, con nota di D. Castronuovo, Misura soggettiva, esigibilità e colpevolezza colposa: passi avanti della giurisprudenza di legittimità in tema di individualizzazione del giudizio di colpa, in Giur. it., 2021, 10, p. 2219 ss. Cfr., inoltre, Id., voce Colpa penale, cit., p. 226 ss. Una maggiore apertura giurisprudenziale verso la valorizzazione della componente soggettiva della colpa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro è rilevata anche da R. Blaiotta, Diritto penale e sicurezza del lavoro, cit., p. 298.

[89] Supra, § 2.

[90] EU-OSHA (European Agency for Safety and Health at Work), Sicurezza e salute nelle micro e piccole imprese nell’UE: relazione finale del progetto triennale SESAME, 2018 (disponibile in https://osha.europa.eu/it/publications/executive-summary-safety-and-health-micro-and-small-enterprises-eu-final-report-3-year), p. 4 s. Cfr. anche N. Paci, Piccole imprese e sicurezza sul lavoro: problematiche strumenti di sostegno, in RES-Repertorio salute, 22 ottobre 2017.

[91] Dati ESAW (European Statistics on Accidents at Work) disponibile in https://oiraproject.eu/it/facts-and-figures.

[92] EU-OSHA, Sicurezza e salute nelle micro e piccole imprese nell’UE, cit., p. 5.

[93] Ivi, p. 10.

[94] In questa direzione, l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ha predisposto il sito OIRA (On-line Interactive Risk Assessment) a disposizione delle micro e piccole imprese per effettuare valutazioni dei rischi, adeguate alle loro esigenze.