Sommario: 1. I punti-chiave della legge delega per la riforma del sistema sanzionatorio tributario. – 2. La valorizzazione del pagamento susseguente come criterio ispiratore della riforma. – 3. La deludente attuazione del principio del ne bis in idem. – 4. La nuova configurazione delle fattispecie di omesso versamento delle ritenute fiscali effettivamente operate o dell’iva. – 5. L’insoddisfacente intervento chiarificatore della distinzione tra compensazione di crediti inesistenti e crediti non spettanti e la nuova causa di non punibilità incentrata sulla obiettivamente controversa spettanza del credito. – 6. La non punibilità dell’omesso versamento di ritenute fiscali o iva per impossibilità sopravvenuta incolpevole. – 7. L’estensione ai reati tributari della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. – 8. Le modifiche in tema di sequestro preventivo in funzione di confisca. – 9. Le novità in tema di rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario.
1. I punti-chiave della legge delega per la riforma del sistema sanzionatorio tributario
L’art. 20 della L. n.111 del 2023 (delega per la riforma fiscale) detta numerose disposizioni “per la revisione del sistema sanzionatorio tributario amministrativo e penale”. Tre sono le macro-aree di intervento. La prima concerne gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali (art. 20, lett. a, nn. 1,2,4,4,5); la seconda riguarda specificamente le sanzioni penali in senso stretto (art. 20, lett. b, nn. 1 e 2); la terza attiene al riordino del sistema sanzionatorio in materia di accise e di altre imposte indirette sulla produzione e contiene specifiche disposizioni sul sistema sanzionatorio penale in senso stretto, così dettagliate e numerose da lasciar intendere che il legislatore delegato debba procedere a riscrivere un nuovo articolato, sostitutivo di quello contemplato dal T.U. del 1995 (D. Lgs. n. 504/1995). Oggetto specifico di questo scritto saranno gli interventi sulla attuale disciplina penale in materia di imposte dirette ed iva (ora dettata – come è noto – dal D. Lgs. n.74/2000 e succ. mod.). Essi, pur non risistemando ex novo la materia, ne toccano tuttavia alcuni nodi fondamentali, tra i più rilevanti dei quali vanno subito ricordati: i rapporti tra illecito tributario penale e illecito tributario amministrativo anche al fine di dare piena attuazione al principio del ne bis in idem; la non punibilità degli omessi versamenti (di iva e di ritenute) per impossibilità incolpevole sopravvenuta, tema nel quale possiamo far rientrare anche l’invito al legislatore delegato di procedere ad una più rigorosa distinzione tra crediti non spettanti e crediti inesistenti (art. 20, comma 1, lett. a, n. 5) che notoriamente ha riflessi immediati sulla disciplina delle fattispecie di indebita compensazione; l’attribuzione di espresso rilevo alla definizione avvenuta in sede tributaria ai fini di conferire rilievo penale al fatto (con evidente implicito riferimento al superamento delle soglie di punibilità); l’adeguamento delle disposizioni processuali al rilievo assunto dal pagamento rateale del debito tributario, anche a seguito delle procedure “conciliative” con l’Agenzia delle Entrate concluse anche prima del promovimento dell’azione penale e che, notoriamente, fa guadagnare o l’impunità o una drastica riduzione della pena, con inevitabili riflessi altresì sulla disciplina del sequestro preventivo.
La necessità di un “completo adeguamento” del sistema sanzionatorio amministrativo e penale al principio del ne bis in idem (art. 20, lett. a, n. 1) si era resa infatti necessaria perché il D. Lgs. n. 74 del 2000, con l’art. 19, aveva ritenuto di poter risolvere il problema del “concorso” tra illecito penale e illecito tributario amministrativo puntando tutto sul principio di specialità, sulla falsariga di quanto stabilito nell’art. 9, L. n. 689 del 1981. Soluzione però progressivamente messa in crisi da due fattori sopravvenuti: la nozione euro unitaria di sanzione (e quindi di illecito) “sostanzialmente penale” ancorché formalmente amministrativa (e la giurisprudenza europea ha sempre ritenuto le sanzioni “amministrative tributarie”, a cominciare dalla sovrattassa, sostanzialmente penali); la nozione, anch’essa di fonte euro unitaria, ma ripresa prontamente anche dalla nostra Corte Costituzionale e dalla stessa giurisprudenza di legittimità, di “stesso fatto” da intendersi come “stesso fatto materiale” indipendentemente dalla struttura tipica dell’illecito (si pensi, ad es., che la giurisprudenza ha sempre negato che l’illecito amministrativo dell’omesso versamento iva e l’omologo illecito penale punissero il medesimo fatto, essendone diversa la struttura tipica).
D’altra parte non poteva nemmeno ritenersi appagante la tesi adottata a livello europeo, a partire dalla nota sentenza della Corte EDU nel famoso caso A. e B. contro Norvegia (Grande Camera 15 novembre 2016), secondo la quale una stessa persona non può essere sottoposta a sanzione sia penale sia amministrativa (ma sostanzialmente penale) per uno stesso fatto materiale solo se i due procedimenti non apprestano una risposta punitiva coerente ed unitaria, nel rispetto del principio di proporzionalità e non hanno una stretta connessione temporale e sostanziale. Come è dimostrato dalla quotidiana prassi applicativa, si tratta infatti di requisiti (la stretta connessione sostanziale e temporale, la proporzionalità del trattamento sanzionatorio complessivo) assai sfuggenti che lasciano al singolo giudice la più ampia discrezionalità.
La legge delega non poteva poi non interessarsi del tema della non punibilità degli omessi versamenti per “incolpevole impossibilità sopravvenuta”: uno dei problemi più spinosi in materia di reati tributari, frequentemente ricorrenti nella prassi. La giurisprudenza di merito aveva cercato talvolta di risolvere il problema in via equitativa, ma senza conferire sostanza dogmatica adeguata alle soluzioni adottate (ovvio che in questi casi non si può parlare né di forza maggiore, né di stato di necessità), la più convincente delle quali poteva forse rinvenirsi nella mancanza di dolo: è vero che la norma si “accontenta” del dolo “generico”, ma è anche vero che in mancanza di disponibilità di risorse non si può dire che chi omette veramente “voglia” omettere, mancandogli la possibilità di scegliere se tenere o no quel comportamento. La giurisprudenza di legittimità, salvo rare eccezioni, è invece notoriamente attestata su posizioni rigorosissime ed anche recentissimamente ha ribadito (Cass. Pen., Sez. III, 16 giugno 2023, n. 33430) che, in primo luogo, la crisi di liquidità deve essere “incolpevole” elencandone una serie di requisiti pressoché impossibili da integrare, concludendo poi che la impossibilità di adempiere deve essere (oltre che “incolpevole”) assoluta.
La legge delega invece (art. 20, comma 1, lett. b, n. 1) incaricava il legislatore delegato di prevedere una specifica causa di non punibilità degli omessi versamenti (dell’iva e delle ritenute fiscali) in caso di “sopravvenuta impossibilità di far fronte al pagamento del tributo, non dipendente da fatti imputabili al soggetto stesso”.
La delega si proponeva anche di rivedere gli assetti dei rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario (art. 20, comma 1, lett. a, n. 3) su due piani: quello del conferimento di efficacia di giudicato nel procedimento tributario alla sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso” quanto ai fatti materiali accertati in sede dibattimentale nel processo penale; quello dell’adeguamento dei profili penali sostanziali e processuali connessi alle ipotesi di non punibilità o all’applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale.
La ragione sta ovviamente nelle maggiori garanzie che sul piano probatorio sono apparecchiate nel processo penale rispetto a quelle tipiche del processo tributario il quale, nonostante qualche timida apertura alla prova testimoniale, ancora conosce la prova per presunzioni, anche “semplici” e addirittura prive dei caratteri di gravità, precisione e concordanza.
2. La valorizzazione del pagamento susseguente come criterio ispiratore della riforma.
Con il d.lgs. n. 87 del 2024, il legislatore prosegue ed accentua una linea di politica criminale, già da tempo perseguita,[1] che mira a riconnettere effetti favorevoli al comportamento lato sensu riparatorio dell’offesa patrimoniale. Sembra per vero questo il “criterio direttivo” di fondo “attuato”.
Il pagamento del debito tributario, infatti, già prima della recente riforma, comportava la non punibilità dei delitti di omesso versamento intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, con possibili proroghe che potevano essere discrezionalmente (ma pressoché sempre) concesse; come pure la non punibilità dei delitti di omessa e infedele dichiarazione e, a seguito di successiva integrazione della norma (tramite l’art. 39, c.1, lett. q-bis d.l. n. 124 del 2019, conv. nella l. n. 157 del 2019) anche dei reati di dichiarazione fraudolenta, mediante “ravvedimento operoso o presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo”; sempreché queste ultime condotte fossero tenute prima che l’autore avesse avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’invio di avvisi di accertamento o di procedimenti penali.
Ebbene, la recente riforma non solo ha conservato le sopra ricordate cause di non punibilità ed ha allungato i termini di perfezionamento dei reati di omesso versamento (che tecnicamente sono requisiti di tipicità, ma sostanzialmente rappresentano termini più “comodi” di pagamento che consentono di evitare la punibilità), ma ha previsto anche nuove cause di non punibilità attraverso meccanismi diversificati. Più precisamente:
- I delitti di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis)[2] e di iva (art. 10-ter) sono soggetti ad una curiosa clausola di non punibilità condizionata alla attualità della rateizzazione del pagamento del debito corrispondente, a sua volta “contro-condizionata” dall’eventuale decadenza dal beneficio della rateizzazione, purché il debito residuo da onorare sia superiore a cinquantamila euro, per ritenute, o a settantacinquemila euro per iva. Assai complicato inquadrare questa originale costruzione negli schemi dogmatici della grammatica penalistica.
- Il delitto di indebita compensazione di crediti non spettanti (art.10-quater, comma 1) non è più punibile, in base al comma 2-bis della stessa norma, quando “anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito”. Norma esoterica, assolutamente incomprensibile a coloro che non abbiano dimestichezza con la materia regolata dal “Manuale di Frascati”[3].
- All’art. 13, la cui nuova rubrica è ora intitolata “Cause di non punibilità-Pagamento del debito tributario” viene prevista una nuova causa di non punibilità, in ossequio all’art. 20, lett. b), n. 1 della legge delega, di incerta natura, dei reati di omesso versamento delle ritenute o dell’iva (i cui termini di perfezionamento sono stati prolungati) che scatta quando il fatto “dipende da cause non imputabili all’autore, sopravvenute al momento della effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto”, fornendo poi una griglia di indici della “non imputabilità all’autore” dei quali “il giudice tiene conto”.
- Il legislatore delegato, nell’art. 13, comma 3-ter, detta poi le condizioni in base alle quali, anche per i reati tributari, per i quali i limiti di pena non siano ostativi, può trovare applicazione, in presenza dei requisiti codicistici, la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (intervento normativo peraltro non espressamente contemplato nella legge delega, potendo al più trovare fondamento nell’art. 20, lett. a), n. 1) della legge delega ove fa riferimento al “principio e criterio direttivo” della razionalizzazione del sistema sanzionatorio). In linea, peraltro, con orientamenti giurisprudenziali che si andavano consolidando[4].
- Infine, allo stesso criterio sembra ispirarsi anche il nuovo ultimo comma dell’art. 12-bis, in base al quale il sequestro a fine di confisca non può essere disposto, salvo vi sia concreto pericolo di perdita della garanzia, se il debito tributario è in corso di estinzione mediante rateizzazione ed il contribuente sia in regola con i pagamenti.
3. La deludente attuazione del principio del ne bis in idem.
Il compito di dare completa attuazione al principio del ne bis in idem non era davvero facile. La strada più semplice sarebbe stata quella di “addolcire” le sanzioni amministrative che colpiscono fatti identici a quelli costituenti reato. Il problema si sarebbe risolto alla radice: tali sanzioni (ed illeciti) amministrativi tributari non si sarebbero più potuti qualificare come “sostanzialmente penali” ed il complessivo carico sanzionatorio avrebbe potuto ritenersi di per sé proporzionato. Ma si sarebbe dovuto procedere ad una complicata revisione di tutto l’armamentario sanzionatorio amministrativo tributario cui si sarebbe potuto certo provvedere ricorrendo ad una clausola generale di riduzione. Con l’effetto però, di prosciugare drasticamente il gettito derivante dall’incasso delle somme, elevatissime, a titolo di sanzioni.
Una seconda strada poteva essere proprio quella di una “conferma” del principio di specialità. A fronte di due illeciti, uno formalmente e l’altro sostanzialmente penale, confluenti sul medesimo “fatto storico” non si vede perché debbano trovare applicazione entrambi. Non dovrebbero valere le regole che disciplinano il concorso di reati/concorso apparente di norme? Con la possibile conseguenza, anche così facendo, di dover rinunciare, però, al gettito derivante dalle sanzioni “amministrative”.
Una terza via poteva essere quella di tradurre in norma l’elaborazione a livello europeo del ne bis in idem, indicandone come “presupposti” quelli stabiliti per la prima volta (e per vero “in negativo”) dalla Corte EDU nel famoso caso A. e B. contro Norvegia (Grande Camera 15 novembre 2016), stabilendo che una stessa persona non può essere sottoposta a sanzione sia penale sia amministrativa per uno stesso fatto materiale se i due procedimenti non apprestano una risposta punitiva coerente ed unitaria, nel rispetto del principio di proporzionalità e non hanno una stretta connessione temporale e sostanziale.
Ed è proprio quello che, nella sostanza, ha fatto il riformatore che non ha coniato espressamente nessuna norma dedicata. La disciplina della materia rimane così affidata agli “arresti” (sino ad ora) consolidati della giurisprudenza europea cui si adegua anche quella “domestica”. In ossequio alla quale la riforma ha però introdotto – opportunamente – una norma che impone al giudice che intervenga per ultimo (procedimento amministrativo tributario e procedimento penale tributario marciano, infatti, ciascuno per conto proprio) di tenere conto della sanzione (penale o “amministrativa”) già irrogata in via definitiva allo stesso soggetto (o anche all’ente) al fine di garantire un carico sanzionatorio complessivo proporzionato (art. 21-ter). Nel solco di una richiesta di archiviazione, per così dire pionieristica e dal sapore “profetico”, della Procura di Milano nel procedimento per dichiarazione fraudolenta che già aveva portato alla irrogazione di sanzioni amministrative per lo stesso fatto[5]. Certo il tutto rimane affidato ad un giudizio di proporzionalità per effettuare il quale non viene dettato alcun criterio orientativo. Viene allora da domandarsi se il modello dell’art.187-terdecies TULF possa essere “esportato” anche nel settore penale tributario.
4. La nuova configurazione delle fattispecie di omesso versamento delle ritenute fiscali effettivamente operate o dell’iva.
Le fattispecie incriminatrici di omesso versamento delle ritenute e dell’iva sono ora rimodellate su uno schema rovesciato rispetto a quello tipico della sintassi penalistica che suona più o meno così: l’omesso versamento è punito a meno che il debito tributario (quindi imposta evasa, più interessi, più sanzioni) non sia in corso di estinzione mediante rateazione “rituale” (art. 3-bis d.lgs. n. 462 del 1997); in caso di decadenza dal beneficio della rateazione la punibilità “congelata” “risorge”, ma solo se il debito residuo è superiore a cinquantamila euro per ritenute o a settantacinquemila euro per iva.
Questa contorsionistica costruzione[6] che cerca di limitare l’abnormità della ottusa persistenza nel voler comunque incriminare gli omessi pagamenti (in contrasto con la delega del 2014)[7], crea non pochi problemi di inquadramento dogmatico che non costituisce un mero esercizio di stile, ma ha ricadute sulla individuazione dell’oggetto del dolo e sulla responsabilità di eventuali concorrenti.
Orbene, cominciando dalla previsione di “non punibilità” legata alla attualità dei pagamenti rateali, ci si chiede: si tratta di requisiti che incidono sulla condotta di omesso pagamento e quindi ne costituiscono limiti esegetici espressi (se sto pagando non sto omettendo il pagamento, sia pure scadenzato nel tempo) e, correlativamente escludono anche il dolo dell’omesso versamento (se sto versando certamente non voglio certo omettere il versamento)? Oppure si tratta di condizioni obiettive di “non” punibilità? Quest’ultima soluzione è poco persuasiva perché confligge con la stessa definizione di “condizione” che è un evento futuro e incerto mentre qui la attualità del pagamento rateale sembrerebbe costituire una evenienza che attiene alla qualificazione stessa condotta omissiva[8]. A me sembra dunque più corretta la prima soluzione proprio perché l’attualità della rateazione è costruita come causa che “paralizza” la rilevanza penale della condotta.
Con riguardo poi alla reviviscenza della punibilità in caso di decadenza dalla rateazione, la tentazione di configurarla come condizione obiettiva di punibilità (qui certo sopravvenuta) è forte. Ma ne dovrebbe conseguire la irrilevanza causale del fattore (o dei fattori) che hanno condotto alla decadenza dal beneficio della rateazione e della consapevole volontà che permanga un debito superiore alle soglie di rilevanza. Insomma, un elemento che concentra in sé tutto il reviviscente disvalore penale del fatto (se non si scavalcano i limiti quantitativi previsti il fatto “risorto dalle sue ceneri”, come l’Araba Fenice. non sembrerebbe costituire reato) starebbe fuori dal fuoco del dolo.
Comprendo che vi potrebbe essere una soluzione più semplice. La prima è una causa di non punibilità per ragioni di opportunità sottoposta alla “condizione risolutiva” della decadenza del beneficio della rateazione. Schemi civilistici “prestati” al diritto penale. Il tutto connotato da un puro oggettivismo, estraneo ai canoni, anche costituzionali, della responsabilità penale. Resterebbe da stabilire comunque in quale fase dell’iter processuale debba iniziare la condotta di pagamento rateale del debito[9]: fino a che la sentenza di condanna non sia passata in giudicato e forse anche in fase esecutiva? Ragionevolezza e oculatezza politico criminale, pur in una prospettiva di massimo soddisfacimento di esigenze di riscossione, dovrebbero condurre a individuare, anche per coerenza con la previsione del primo comma (che fa riferimento ad un pagamento integrale, ancorché in ipotesi rateizzato, ma con scadenze assai ravvicinate), il termine ultimo in quello immediatamente precedente l’apertura del dibattimento.
Piuttosto la norma nulla dice sulla “colpevolezza” in ordine alla decadenza dal beneficio della rateazione, né sulle sorti di una eventuale ripresa del pagamento rateale, evenienza per la quale potrebbero forse tornare ancora utili le previsioni dell’art. 13. Infatti, una volta che l’Autorità Giudiziaria, ed in primis il pubblico ministero, abbia contezza che è in atto un pagamento rateale (che sarà cura dell’interessato, magari a mezzo del proprio difensore, comunicare tempestivamente), si può ipotizzare un’inevitabile stasi del processo, se non, ancor prima, del procedimento con la conseguenza che la revoca intervenga in un momento in cui è ancora possibile sfruttare l’opportunità offerta dall’art. 13, anche solo per cercare di far arretrare il debito sotto i limiti della rilevanza penale.
Quanto alla necessaria “rimproverabilità” all’agente della causa di decadenza dal “beneficio” potranno riproporsi le tematiche della “crisi di liquidità” che il nuovo art. 13, comma 3-bis cerca di risolvere e che potrebbero applicarsi per analogia alla fattispecie in esame. Si deve infatti ritenere che la norma appena citata non sia di natura eccezionale, anzi ed i cui requisiti, ancorché particolarmente confacenti all’omesso versamento, ben potrebbero adattarsi a valutare la non rimproverabilità all’agente della causa di decadenza dalla rateazione, con conseguente non punibilità. Preme infine sottolineare che la categoria generale della inesigibilità di un comportamento diverso dovrebbe in ogni caso trovare applicazione.
5. L’insoddisfacente intervento chiarificatore della distinzione tra compensazione di crediti inesistenti e crediti non spettanti e la nuova causa di non punibilità incentrata sulla obiettivamente controversa spettanza del credito.
L’art. 20, lett. a), n. 5 della delega disponeva, come si è accennato all’inizio di questo lavoro, che si dovesse procedere ad introdurre una più rigorosa distinzione normativa tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta “non spettanti” e crediti di imposta “inesistenti”. La distinzione ha rilievo, infatti, non solo ai fini di stabilire il livello delle sanzioni amministrative, ma anche delle sanzioni penali contemplate dall’art. 10-quater: pena da sei mesi a due anni se i crediti indebitamente compensati sono non spettanti, pena da un anno e sei mesi a sei anni se i crediti sono inesistenti.
Le soluzioni astrattamente ipotizzabili erano tre: inserire le due definizioni nell’art. 1, intitolato, appunto, “definizioni”; oppure, secondo una tecnica forse preferibile, precisare le definizioni nella sede tributaria dedicata alla materia delle compensazioni (art. 13 D. Lgs. n. 471 del 1997) e farvi rinvio nella descrizione delle fattispecie incriminatrici. O, infine, inserirla proprio nel corpo dell’art. 10- quater dedicato in funzione tipizzante delle due differenti fattispecie.
La soluzione adottata è stata la prima: sono state così inserite nel testo dell’art.1 le lettere g-quater e g-quinquies. Ma si deve subito anticipare che le due definizioni non brillano certo per chiarezza e non appaiono risolutive[10]. Si trattava infatti di tracciare il reciproco confine tra le due definizioni condizionato dal contrasto radicatosi in seno alla giurisprudenza penale che dibatteva se la nozione di crediti inesistenti andasse o meno mutuata da quanto statuito dalle Sezioni Uniti civili[11]. A non convincere è soprattutto la definizione di “crediti inesistenti”, dove vengono equiparate due situazioni di eterogeneo disvalore: al n.1) sono considerati inesistenti quelli per i quali mancano in tutto o in parte i requisiti oggettivi o soggettivi “specificamente indicati nella disciplina normativa di riferimento”, con rinvio dunque alla normativa tributaria non sempre di agevole decifrazione; al n.2) i crediti per i quali requisiti necessari per la compensazione, stabiliti nel n.1) sono oggetto di rappresentazioni fraudolente attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici. Non v’è chi non colga la palese incongruenza di una equiparazione di due situazioni completamente differenti. Men che mai risolutiva appare la definizione di crediti “non spettanti”, fondata essenzialmente sulla violazione delle formalità di ammissione alla compensazione o sulla mancanza di “ulteriori elementi o particolari qualità” richiesti per il riconoscimento del credito o in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi “previsti a pena di decadenza”. Ed in proposito, non solo sfugge la meritevolezza di pena della compensazione di crediti la cui non spettanza viene così declinata; ma il rinvio alla disciplina e alle formalità contemplate dalla normativa tributaria di settore lascerà invariate tutte le difficoltà ed i dubbi interpretativi che quell’inestricabile ginepraio trascina con sé[12].
Si deve invece apprezzare l’intento del riformatore di dare soluzione al problema, che assai frequentemente si pone nella prassi, del trattamento da riservare ai casi in cui vengano dedotti in compensazione crediti la cui spettanza sia obiettivamente controversa in ragione della particolare tecnicità del presupposto. Infatti, all’ultimo comma viene introdotta una apposita causa di non punibilità per chi porta in compensazione un credito la cui spettanza sia obiettivamente controversa quando, anche per la natura tecnica delle valutazioni, vi sia obiettiva incertezza “in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito”. Si tratta di una causa di esclusione della colpevolezza, di non facile decifrazione per chi non abbia dimestichezza ultra-specialistica con questa materia. Ma, comunque, di opportuna introduzione, considerato che l’art. 15 D.Lgs. n. 74 del 2000, di pressoché nulla applicazione nella prassi, riferisce la obiettiva incertezza alla portata e all’ambito di applicazione delle norme tributarie, mentre qui l’incertezza riguarderebbe i presupposti tecnici della applicazione delle norme tributarie (ad esempio, può risultare obiettivamente controverso se una ricerca che ha originato crediti che si vogliono portare in compensazione sia assistita o meno dal requisito della “novità” secondo il c.d. “manuale di Frascati”)[13]. Un errore sul precetto di esclusione della punibilità, erroneamente disciplinata come un errore sul precetto, sarebbe da considerare più propriamente come un errore su norma non giuridica extrapenale che dovrebbe ricadere nell’ambito di disciplina dell’art. 47, comma 3 c.p, ed escludere quindi il dolo del fatto. L’artt. 15, sancisce invece una presunzione assoluta di inevitabilità di un errore che, concernendo la disciplina tributaria implicitamente (o espressamente) richiamata all’interno della norma incriminatrice, costituisce un errore sul precetto[14]. E c’è da scommettere che gli errori per obiettiva incertezza della normativa tributaria cui sarà necessario far riferimento per comprendere la inesistenza o la non spettanza del credito non saranno infrequenti.
6. La non punibilità dell’omesso versamento di ritenute fiscali o iva per impossibilità sopravvenuta incolpevole.
Come già accennato nel paragrafo introduttivo di questo lavoro, uno degli obiettivi principale che la riforma del sistema sanzionatorio penale tributario si prefiggeva era quello di assicurare la non punibilità degli omessi versamenti “per incolpevole impossibilità sopravvenuta” (art. 20, comma 1, lett. b, n. 1 della legge delega).
Problematica che non aveva mai trovato una soddisfacente soluzione nella prassi applicativa. Alle decisioni dei giudici di merito, ispirate essenzialmente a criteri equitativi, ma fondate sugli assunti teorici più disparati e non sempre fondati (in particolare né la forza maggiore, né lo stato di necessità sono correttamente invocabili), si contrapponeva, anche di recente, una sorta di “muro” della giurisprudenza di legittimità, francamente degno di miglior causa[15]. Per vero, non solo, si potrebbe fondatamente sostenere che le norme che incriminano gli omessi versamenti contrastano palesemente con l’art. 8 della legge delega del 2014, secondo il quale dovevano essere elevate a reato solo le condotte simulatorie o fraudolente o consistenti nella predisposizione od uso di documenti falsi (vi è un preciso riferimento alla violazione di detti criteri che non avrebbero potuto consentire la criminalizzazione degli omessi versamenti nella sentenza Corte Cost. n. 175 del 2022[16]); ma avallarne la punibilità anche di fronte a documentate crisi di liquidità, asserendo che comunque l’erario dovrebbe essere un creditore “più privilegiato degli altri”, è francamente, anche eticamente, inaccettabile.
Il legislatore delegato ha così costruito una fattispecie di non punibilità che non si limita, però, come forse avrebbe potuto fare, a replicare puramente e semplicemente la formulazione della legge delega, ma ne configura gli elementi di tipicità, con effetti tassativizzanti tutti da verificare.
Innanzi tutto, definisce le tempistiche della “sopravvenienza” delle cause “non imputabili all’autore”: la causa impeditiva del versamento deve sopravvenire alla effettuazione delle ritenute o alla riscossione dell’iva. Non fa parola di una sua eventuale “imprevedibilità”[17]. Due osservazioni in proposito. La prima: la precisazione che la causa ostativa al versamento debba sopravvenire alla “riscossione” dell’iva, implica che il reato in questione presuppone comunque che l’iva sia stata effettivamente pagata dal cessionario del bene o dal fruitore del servizio e non possa configurarsi in caso di fattura semplicemente emessa/iva non riscossa; come invece certa giurisprudenza, sulla base della lettera della norma (iva dovuta in base alla dichiarazione), riteneva[18].
La seconda: la sopravvenienza al momento della “riscossione” sembrerebbe non tener conto che il momento in cui scatta l’obbligo di versamento è ben più lontano di quello della riscossione; momento nel quale il contribuente nemmeno sa se sarà gravato dell’obbligo di versamento, ben potendo risultare a credito o comunque non dover effettuare alcun versamento. Non vorrei che la norma fosse il frutto di un’idea evidentemente dura a morire, ovvero che il contribuente abbia un obbligo di accantonamento che la fattispecie assolutamente non contempla[19]. È al momento del versamento, della condotta omissiva tipica che dovrebbe valutarsi la “sopravvenienza” della causa che ne determina la non rimproverabilità all’autore.
In secondo luogo, essa detta gli indici normativi dei quali il giudice “tiene conto” ai fini di effettuare il giudizio di “non imputabilità all’autore” del mancato pagamento: crisi “non transitoria” di liquidità che deve (?) trovare causa nella inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o per mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi.
Ebbene, innanzi tutto, non pare che gli indici di non imputabilità dell’omesso pagamento, debbano essere considerati tassativi, nonostante l’apparenza. Si tratta di forme tipicizzate che hanno come comune denominatore la non esigibilità di un comportamento diverso, secondo il noto brocardo ad impossibilia nemo tenetur che, prima che una causa di non punibilità, costituisce un limite esegetico implicito di qualsiasi condotta omissiva. Sicché vi potrebbero essere anche altre situazioni di cui si deve tenere conto, quale, ad esempio, una crisi dei mercati che non consenta di incassare da cessioni di beni o prestazioni di servizi quanto era ragionevolmente presumibile in modo da poter adempiere al dovere di versamento. Come ancora dovrebbe rilevare la sussistenza di un conflitto di doveri tra mantenere la continuità aziendale e i livelli occupazionali o pagare il debito erariale[20] che non consente al soggetto gravato di entrambi i doveri di effettuare una scelta libera dai pesanti condizionamenti che quel conflitto determina.
In secondo luogo, se la crisi ha da essere non transitoria risultano integrati gli estremi per poter ricorrere alle procedure contemplate dal codice della crisi e dell’insolvenza, cosicché eventuali pagamenti esporrebbero al rischio di incriminazione per bancarotta preferenziale (art. 322, comma 3 Codice della crisi e dell’insolvenza). Non solo, ma la non transitorietà mal si concilia con una valutazione da effettuare al momento in cui scatta il dovere di adempiere. La dogmatica dell’omissione non è il pezzo forte del legislatore. Anche qui si impone una interpretazione ortopedica.
Resta per vero la consolazione di non vedere replicata nel testo della norma, la tendenza giurisprudenziale a richiedere che il contribuente abbia fatto tutto il possibile, compresa la vendita dei propri beni, per mettersi nelle condizioni di adempiere[21].
Peraltro, lo ius superveniens sembra aver gettato il seme che ha fatto germogliare alcuni timidi, positivi segnali di apertura della giurisprudenza di legittimità che, pur senza addentrarsi nelle questioni circa la natura di norma di favore dell’art. 13 co. 3 bis e della sua applicabilità retroattiva[22], sembra finalmente voler ampliare l’angusto e delimitato perimetro della valenza esimente della crisi di liquidità[23].
7. L’estensione ai reati tributari della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.
La riforma introduce nel corpo del D. lgs n.74 del 2000 una nuova causa speciale di non punibilità che non trova espresso riscontro nella legge delega; a meno che la si voglia ricondurre ad una esigenza di “razionalizzazione del sistema sanzionatorio amministrativo e penale” (art. 20, comma 1, lett. a) n. 1 della delega), posto che nella prassi giurisprudenziale già si era manifestata la tendenza a riconoscere la applicabilità della “particolare tenuità del fatto”, contemplata dall’art. 131-bis c.p. anche ai reati tributari, sia pure in casi assai limitati . Infatti, posto che la gran parte degli illeciti penali tributari si caratterizza per il superamento di soglie quantitative di evasione, si aveva ragione di ritenere che, una volta scavalcata la soglia, non vi fosse spazio per valutazioni di “particolare tenuità”. Sennonché in caso di minimi scostamenti si poteva al contrario pensare che ci si trovasse in presenza di fatti collocabili in quell’area occupata dal limite inferiore di tipicità che, in base al criterio della sanzione penale come extrema ratio, ben potevano giudicarsi non bisognosi di sanzione penale.
Il legislatore delegato è così intervenuto a convalidare espressamente questa linea interpretativa, inserendo nell’art. 13, un comma 3-ter nel quale ha dettato gli indici di “particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis del Codice penale” dei quali il giudice deve tenere conto ai fini del riconoscimento della non punibilità dei reati tributari, ovvero, ratione loci, tutti quelli previsti dal d. lgs. n. 74 del 2000. Premesso che questa causa di non punibilità sembra destinata a valere per tutte le fattispecie penali tributarie contemplate dal nuovo testo del d.lgs. n. 74 del 2000 e non solo per i delitti riscossivi, è pacifico che essa trovi applicazione (anche e a maggior ragione) per i delitti di omesso versamento. Autorevole opinione ritiene invece che questa causa di non punibilità debba trovare applicazione solo per i delitti “riscossivi” (10-bis e 10-ter), ma nessun elemento né testuale, né sistematico, autorizza, ad avviso di chi scrive, una tale limitazione. L’unica limitazione può discendere, come si vedrà, dai limiti di pena previsti in generale dall’art. 131-bis c.p., ampiamente soddisfatto dai reati di omesso versamento.
Infatti, il richiamo espresso alla causa di non punibilità contenuta nel Codice penale ne recepisce implicitamente tutti i presupposti applicativi, occupandosi la norma esclusivamente di dettare gli indici della tenuità. Quindi essa troverà applicazione solo per i reati tributari puniti con pena edittale non superiore nel minimo a due anni, per la cui determinazione dovrà però tenersi conto anche delle attenuanti ad effetto speciale (art.131-bis, comma 5 c.p.), quale quella contemplata dal “nuovo” (ma anche dal “vecchio”, pur se meno favorevole quanto ai tempi di estinzione del debito), art. 13-bis (diminuzione fino alla metà). E solo qualora non ci si trovi in presenza di un comportamento abituale; cosicché si riproporrà la questione della applicabilità al caso di più reati tributari uniti dal vincolo della continuazione che dovrebbe però trovare soluzione positiva. Infatti, il reato continuato va considerato come unico o plurimo a seconda delle conseguenze più favorevoli e comunque come unico ai fini del trattamento sanzionatorio nel quale non può non ricomprendersi anche la applicazione di una causa di non punibilità.
Come poi si evince inequivocabilmente dal testo della norma, il giudice è chiamato ad effettuare una valutazione tenendo conto di “uno o più” dei seguenti indici: l’ entità dello scostamento dell’evasione rispetto alla soglia di punibilità; l’avvenuto pagamento integrale del debito in base al piano di rateizzazione concordato con l’amministrazione finanziaria che – ovviamente- non integri i presupposti della non punibilità dei reati di omesso versamento ai sensi del primo comma dello stesso art. 13 (integrale pagamento nei termini e tempi ivi contemplati); l’entità del debito residuo in fase di estinzione mediante rateazione; la situazione di crisi così come descritta nell’art. 2 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza .
Innanzi tutto, se il giudice è chiamato a prendere in considerazione “uno o più” di questi indici, significa che già in base ad uno solo egli potrà valutare la sussistenza della particolare tenuità, come, ad esempio (e verosimilmente ciò accadrà nella maggior parte dei casi), il minimo superamento della soglia di rilevanza penale. Ma potrà anche accadere che possa tenere in considerazione anche uno scostamento non proprio minimo, compensato però dal successivo pagamento integrale del debito rateizzato, oppure dalla impossibilità sopravvenuta del pagamento rateizzato per il sopraggiungere dello stato di crisi o del minimo superamento della rediviva soglia di punibilità (i settantacinquemila o cinquantamila euro di cui fanno parola nuovo articoli 10-bis e 10-ter) in caso di perdita del beneficio della rateizzazione per il pagamento del debito di cui si è omesso il pagamento.
Insomma, nonostante il tentativo, lodevole, di fornire al giudice una guida più stringente per la valutazione della particolare tenuità, il giudizio rimane pur sempre discrezionale e, ancora una volta, solo dalle prime applicazioni si comprenderà se il legislatore abbia fatto buon uso della “sua” discrezionalità.
8. Le modifiche in tema di sequestro preventivo in funzione di confisca.
Le modifiche introdotte in tema di confisca sono diretta conseguenza della attuazione del criterio direttivo della delega contenuto nell’art. 20, comma 1, lett. b, n.3 secondo il quale, nel rivedere i rapporti tra processo penale e procedimento tributario si sarebbe dovuto provvedere all’adeguamento dei profili sostanziali e processuali connessi alle ipotesi di non punibilità o di applicazione di attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari “anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale”. Il riferimento ad interventi normativi che avessero riguardo anche alla fase delle indagini preliminari in funzione della agevolazione della estinzione del debito fiscale mediante rateizzazione è stato raccolto dal legislatore delegato che si è ripromesso di incidere sui provvedimenti di sequestro preventivo in funzione di confisca che, nella prassi, costituiscono notoriamente ostacolo, spesso insormontabile, al pagamento. È stato così introdotto un secondo comma all’art. 12-bis[24]. La lettura che ne deve essere data è quella secondo la quale il sequestro preventivo in funzione di confisca, qualora il debito sia in corso di estinzione mediante rateizzazione, nella misura determinata “anche a seguito di procedure conciliative o di accertamento con adesione” ed il contribuente sia in regola con i pagamenti, non deve essere disposto. Solo eccezionalmente se vi è pericolo concreto di dispersione della garanzia patrimoniale desunta dalle condizioni reddituali, patrimoniali o finanziarie “del reo”[25], anche tenendo conto della gravità del reato, il sequestro può essere disposto. Insomma, ancorché la costruzione sintattica possa far sembrare il contrario, il sequestro preventivo, in presenza dei presupposti descritti, non può essere disposto. Questa è la regola. Il sequestro è l’eccezione. E, per vero, la costruzione così articolata (sintomatica l’espressione “reo”, anziché “contribuente”) è verosimilmente frutto di una sorta di ossessione per le proprietà taumaturgiche del sequestro preventivo, di un ingiustificato horror vacui di cui è rimasto vittima il legislatore. Non si è infatti considerato che l’ammontare delle somme da pagare a seguito di accertamento con adesione è frutto di un contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate il cui esito deve essere congruamente motivato e non v’è poi ragione di ritenere che l’Agenzia, ammettendo alla rateizzazione, non abbia compiuto adeguate valutazioni sulla affidabilità del contribuente, sul cui giudizio certo incide anche la gravità del reato. Ma tant’è.
Non v’è più traccia, infine, dell’accenno contenuto nel precedente testo, alla possibilità di procedere comunque alla confisca e quindi al previo sequestro in caso di interruzione dei pagamenti, con conseguente perdita del “beneficio” della rateizzazione[26]. Si potrebbe peraltro facilmente profetizzare che potrebbe “rivivere” la ammissibilità del sequestro in ragione del pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale la cui concretezza andrebbe però accertata rigorosamente.
9. Le novità in tema di rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario.
La delega si proponeva anche di rivedere gli assetti dei rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario (art. 20, comma 1, lett. a, n. 3). Come è noto, al contrario di quanto prevedeva la l. n. 216 del 1982, il cui art. 12 sanciva che la sentenza penale definitiva di assoluzione o di condanna, pronunciata a seguito di “giudizio”, facesse stato nel procedimento tributario, il D. Lgs. n. 74 del 2000, ha invece disposto che procedimento penale e procedimento tributario amministrativo, pur con qualche correttivo, si sviluppassero “ognuno per conto proprio” (artt.20 e 21). L’intervento riformatore ha inciso su due piani: quello del conferimento di efficacia di giudicato nel procedimento tributario alla sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso” quanto ai fatti materiali accertati in sede dibattimentale nel processo penale; quello dell’adeguamento dei profili penali sostanziali e processuali connessi alle ipotesi di non punibilità o all’applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale.
Quanto al primo piano, la precedente normativa prevedeva infatti che ciascun procedimento seguisse il suo corso (art. 20, D. Lgs. n. 74/2000), anche se il successivo art. 21, comma 2 regolava i casi della eseguibilità delle sanzioni amministrative in caso di archiviazione, o sentenza irrevocabile di assoluzione o proscioglimento con formula che escludesse la rilevanza penale del fatto. Ora invece si stabilisce la rilevanza, già all’interno del processo tributario, della sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso quando ha ad oggetto gli stessi fatti materiali. La riforma, in conformità alla delega, non distingue, né correttamente potrebbe, tra assoluzione ai sensi del primo o del secondo comma dell’art. 530 c.p.p. (opportunamente nemmeno citato nel testo), stante la piena equivalenza delle due formule anche ai fini extrapenali (Cass. Civ. 5 luglio 2022, n. 27130). La norma sancisce altresì la possibilità che la sentenza penale definitiva di assoluzione possa essere depositata anche nei giudizi tributari dinanzi alla Corte di cassazione, fino a quindici giorni prima dell’udienza o della adunanza in camera di consiglio.
La ragione sta, ovviamente, nelle maggiori garanzie che sul piano probatorio sono apparecchiate nel processo penale rispetto a quelle tipiche del processo tributario il quale, nonostante qualche timida apertura alla prova testimoniale, ancora conosce la prova per presunzioni, anche “semplici” e addirittura prive dei caratteri di gravità, precisione e concordanza. La limitazione all’esito dibattimentale, con esclusione di quanto accertato nel giudizio abbreviato non pare sinceramente del tutto ragionevole, anche perché le regole probatorie del giudizio abbreviato e del dibattimento sono le stesse. Lo sbarramento della delega potrebbe essere superato unicamente con la proposizione di un giudizio incidentale di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. Certo nella prassi non potrà non tenersi conto, nel procedimento tributario, e fin dall’inizio, delle sentenze di tale tenore emesse anche a seguito di giudizio abbreviato o in sede di udienza preliminare e anche dei decreti di archiviazione (si potrebbe quasi dire “a maggior ragione”)[27].
Sul punto dei rapporti tra processo tributario e processo penale, la delega voleva palesemente incentivare le procedure “conciliative” tra fisco e contribuente (per es.: accertamento con adesione) che normalmente portano ad un abbattimento della pretesa tributaria così da far eventualmente il quantum di evasione “concordato” al di sotto dei limiti di rilevanza penale. Siccome nella prassi applicativa questa conseguenza non era pacifica, la riforma ha conformemente stabilito, all’art. 20, comma 1-bis che gli atti di definitivo accertamento delle imposte in sede amministrativa, relativi ai medesimi fatti posti a base dell’esercizio dell’azione penale possano essere acquisiti nel processo penale ai fini della prova del fatto. Si potrebbe obiettare che l’istituzione di un tale vincolo potrebbe tradursi nella introduzione di una “prova legale” del fatto in sede penale, contraria al principio del “libero convincimento”. Tuttavia, la formulazione testuale (“possono essere acquisiti a fine di prova”) sembra lasciare al giudice penale un certo qual margine di apprezzamento consentendogli di discostarsi dagli esiti delle procedure conciliative in presenza di elementi di prova in grado di smentirli con certezza. Va poi rilevato che il riferimento ai “fatti posti a base dell’esercizio dell’azione penale” non sembra tuttavia ostativo al riconoscimento dei risultati raggiunti in sede amministrativa anche prima di tale momento e possano pertanto, per esempio, essere posti a base di una definizione del procedimento penale nelle forme del “patteggiamento” in fase di indagini preliminari (art. 447 c.p.p.).
Infine, come è stato osservato[28], la nuova norma potrebbe costituire un ostacolo al transito nel processo penale di atti privi del carattere della definitività e fondati su presunzioni semplici confliggenti palesemente con le regole probatorie che governano il processo penale.
Prof. Avv. Giovanni Flora
[1] Significativo il titolo (“L’irrefrenabile funzionalizzazione riscossiva del moderno diritto penale tributario, in Sistema Penale, 19/04/2024) di un recente saggio di F. DI VIZIO. In senso analogo, M. di SIENA, Splendore e viltà: riflessioni a margine degli interventi operati dalla riforma fiscale in relazione ai delitti di omesso versamento (in corso di pubblicazione su Rass. Trib., 2024) il quale giunge ad affermare, ancorché “provocatoriamente” (p. 6 datt.) che ormai i delitti tributari costituiscono una species dei delitti contro il patrimonio; R. LUCEV, La riforma dei reati tributari (D. Lgs. 14 giugno 2024, n. 87): quando “la minaccia è più forte della sua esecuzione, Le Società, 2024; T. SABBATINI, La riforma dei reati tributari, Giur. Pen. web,2024,9, p.3, che parla di natura “retrattile” della minaccia.
[2] La citazione di articoli non seguiti da alcuna specificazione devono intendersi riferiti al d.lgs. n. 74 del 2000.
[3] OCSE (2015), Manuale di Frascati 2015: Linee guida per la raccolta e la comunicazione di dati sulla ricerca e lo sviluppo sperimentale, La misurazione delle attività scientifiche, tecnologiche e di innovazione, OECD Publishing, Parigi, https://doi.org/10.1787/9789264239012-en .
[4] Cass. Pen., Sez. IV, 5/3/2024, n. 14073; Sez. II, 17/11/2023, n. 396; Sez. III, 4/04/2023, n. 18029; Sez. III, 21/03/2023, n. 20279; Sez. IV, 16/03/2023, n. 17190; Sez. III, 20/02/2020, n. 16599; Sez. III, 22/01/2019, n. 15020; Sez. III, 13/11/2018, n. 12906; Sez. III, Sentenza, 20/11/2015, n. 13218. Sul punto, seppure con particolare riguardo all’ipotesi dell’art. 5 d.lgs. 74/2000, v. L. VALOTTI, L’art. 131 bis c.p. e i reati tributari: presupposti applicativi e novità dopo la riforma Cartabia, in Sistema Penale, 24/02/2023 (commento a Sez. III, 27/09/2022, n. 39835).
[5] Sul punto, v. M. SCOLETTA, Condotte riparatorie e ne bis in idem nella responsabilità delle persone giuridiche per illeciti tributari, Sistema Penale, 28 novembre 2022.
[6] T. SABBATINI (La riforma, cit., p. 11) parla in proposito di “tipo inedito” e di “norma a geometria variabile”.
[7] Il riferimento è alla Legge delega per la riforma tributaria 11 marzo 2014 n. 23, poi clamorosamente tradita in fase di attuazione dal d. lgs. n. 128 del 2015.
[8] Secondo la “Relazione tecnica” al D. Lgs. 87/2004, p. 1 costituirebbe condizione obiettiva di punibilità di questi reati il fatto che il contribuente non si sia avvalso della possibilità del pagamento rateale. Con il che il redattore (o i redattori) della Relazione mostrano una ignoranza preoccupante delle categorie basilari del diritto penale, qualificando come condizione obiettiva di punibilità un fatto che al più potrebbe essere uno strano presupposto negativo della condotta e non collima affatto con lo sghembo modello descrittivo della fattispecie.
[9] Interessanti spunti si possono cogliere dalla sentenza resa da Cass. Pen., Sez. III, 13/09/2023 n. 43569 chiamata a decidere in ordine all’applicazione dello ius superveniens ovvero la speciale causa di non punibilità introdotta dall’art. 23 D.L. n. 30 marzo 2023, n. 34 che aveva esteso il termine di pagamento di una delle definizioni introdotte dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197 fino al momento “prima della pronuncia della sentenza di appello” e alla questione di legittimità costituzionale di detta norma in relazione all’art. 3 Cost. Nel caso di specie, il ricorrente aveva estinto il debito tributario, mediante pagamento del debito, prima della sentenza di primo grado, cosicché nonostante il processo si trovasse ormai in fase di legittimità, secondo la difesa non sembrava potersi ragionevolmente dubitare del fatto che la suddetta previsione normativa dovesse trovare applicazione anche nel caso in esame in forza dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, in una ipotesi del tutto analoga di successione di leggi penali (il riferimento era alla modifica del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, operata attraverso il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 11 che ammetteva l’applicazione della causa di non punibilità ai processi che si trovano nella fase del giudizio di legittimità).
.
[10] R. LUCEV, La riforma dei reati tributari, cit., p. 3 segg.; T. SABBATINI, La riforma dei reati tributari, cit., p. 4 segg.
[11] Cass. civ., S.U. 11.12. 2023, nn. 34419, 34452 e 344445, in Guida al Dir., 2023, p.46, per una tesi opposta, Cass. Pen. Sez. III, 14.10.2023, n.6; Cass. pen. Sez. V, 10.6.2024, n. n.27480.
[12] Sul punto, in senso critico sostanzialmente conforme a quello qui espresso, R., LUCEV, La riforma dei reati tributari, cit., p. 3 segg.; T. SABBATINI, La riforma dei reati tributari, cit., p. 5 segg.
[13] R. LUCEV, La riforma dei reati tributari, cit., p. 3 segg.; T. SABBATINI, La riforma dei reati tributari, cit., p.4 segg.
[14] Sul punto, volendo, G. FLORA, Errore, tentativo, concorso di persone e di reati nella nuova disciplina dei reati tributari, Riv.it, 2001, p. 697 segg.
[15] Cassazione civile, sez. VI, 28/09/2020, n. 20389 (“Le sanzioni fiscali devono essere pagate anche in caso di grave crisi aziendale e di non liquidità. A nulla vale che la società in house abbia perso il sostegno degli enti pubblici dai quali è partecipata. L’esimente della forza maggiore per escludere le sanzioni tributarie irrogate a seguito dell’omesso versamento di tributi richiede la sussistenza sia di un elemento oggettivo sia di un elemento soggettivo”); Cass. pen., Sez. III, 03/03/2020, n. 21158 (“le sole difficoltà economiche del contribuente di adempiere l’obbligazione tributaria, sono insufficienti per l’integrazione degli estremi dell’art. 45 c.p. Ne deriva che l’agente deve dimostrare per la deduzione della cd. crisi di liquidità la non imputabilità e l’imprevedibilità del dissesto economico aziendale nonché l’impossibilità di fronteggiare la situazione tramite misure adeguate da valutarsi in concreto”); analogamente, Cass., Pen., Sez. III, 20/06/2019, n. 38482 secondo cui “in tema di omesso versamento i.v.a., l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore a cui egli non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico. Quindi, se l’omesso versamento è dovuto ad una libera scelta imprenditoriale, non può essere invocata la forza maggiore per escludere la sussistenza del dolo. (Fattispecie in cui l’imputato ha utilizzato il flusso finanziario derivante da una vendita sottocosto di un cespite immobiliare per far fronte alle spese correnti, invece che accantonarlo per il successivo versamento dell’imposta”). O, ancora, Cass. Pen., Sez. III, 14 luglio 2021, n. 40042, secondo cui l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito erariale, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto” con commento di D. COLOMBO, La crisi di liquidità nei reati di omesso versamento di imposte: due recenti pronunce sulla valenza esimente in DisCrimen, 11/11/2021.
[16] Corte Cost., 14/07/2022, n. 175 con commento di A. INGRASSIA, La Corte Costituzionale riscrive il delitto di omesso versamento delle ritenute per garantire la riserva di legge: le prospettive di un paradosso solo apparente, Riv.It.Dir.Proc.Pen., fasc. n. 2022, pp. 1300 ss.; G. FLORA, “Non avrai altro creditore all’infuori di me!”. Riflessioni sparse sul delitto di omesso versamento IVA, in DisCrimen, 9/11/2020.
[17] F. DI VIZIO, L’irrefrenabile funzionalizzazione riscossiva, cit., p. 4.
[18] C. SANTORIELLO, Revisione sanzioni tributarie: in G.U. il D. Lgs. N. 87/2024 ne Il Quotidiano Giuridico, 1/07/2024, p. 2
[19] G. FLORA, ‘Non avrai altro creditore all’infuori di me!’, cit., pp. 93 e ss.; nonché D. COLOMBO, cit., p. 2. Ciò che peraltro gli orientamenti più rigorosi della Cassazione esprimevano: v. Cass. Pen., III Sez., 23/01/2018, n. 38594 Rv. 273958 – 01, secondo la quale “in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo”; o ancora, Cass. Pen., III Sez., 24/09/2019, dep. 2020, n. 6506, Rv. 278909 – 01, che afferma “l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi”.
[20] V., ancora, G. FLORA, “Non avrai altro creditore all’infuori di me!”, cit., p. 8 che cita anche Cass., Sez. III, 5.06.2019 – 16.10.2019 n. 42522, relativa al caso di un imprenditore che aveva dato la precedenza a pagamenti in grado di assicurare la continuità aziendale rispetto al pagamento del debito IVA.
[21] Secondo F. DI VIZIO, op. cit., invece, ancora si dovrebbe pretendere che egli faccia di tutto, ivi compreso il ricorso al credito bancario, visto che si tratta di soggetto “che si è arricchito di risorse destinate all’erario”, confondendo ancora una volta un reato di omesso pagamento con un reato assimilabile alla appropriazione indebita.
[22] A. NATALINI, Commento a Cass. Pen., Sez. III, 15/7/2024, n. 30532, in IUS Tributario, on line.
[23] In senso ampiamente liberatorio, si segnala la sentenza dell’11 novembre 2024, n. 41238 che accogliendo il ricorso del legale rappresentante di una società condannato per omesso versamento dell’IVA ha affermato che non può essere chiamato a rispondere del reato di omesso versamento IVA chi non ha riscosso l’importo delle fatture emesse o chi si trovi nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, non essendogli imputabile la causa del debito con l’Erario (“Ad avviso di questo collegio la necessità che impone di tenere adeguato conto delle deduzioni difensive concernenti la concreta impossibilità di far fronte ai versamenti dovuti, trova ormai un’ importante riscontro nel diritto positivo per il recente D.lgs n.87 del 14/0672024 intervenendo sull’ art. 13 n.74 del 2000, ha introdotto un’ ulteriore causa di non punibilità, se il fatto dipende da cause non imputabili all’ attore sopravvenute, rispettivamente all’ effettuazione delle ritenute o all’ incasso dell’ imposta sul valore aggiunto, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dovuta all’inesigibilità per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi”.
[24] Per una approfondita analisi, T. SABBATINI, La riforma, cit., p. 13 segg.
[25] Termine che andrebbe sostituito con quello di “contribuente”, perché non vi può essere nessun “reo” quando il risultato finale del pagamento sarà la non punibilità.
[26] Lo fa rilevare T. SABBATINI, La riforma, cit., p. 16.
[27] Per l’irragionevolezza della esclusione delle sentenze assolutorie pronunciate a seguito di giudizio abbreviato, delle sentenze di proscioglimento in udienza preliminare e dei decreti di archiviazione, R. LUCEV, La riforma, cit., p.8-9; T. SABBATINI, La riforma, cit., p. 22.
[28] T. SABBATINI, La riforma, cit., p.20-21.